La notte porta consiglio, recita un vecchio detto popolare. Nel caso di Isabella Turso, la notte porta colori, animazione, gioia, vita.
La pianista e compositrice, trentina di nascita e veronese d’adozione, il 19 gennaio scorso ha publicato Nocturne, otto brani originali generati dalla notte. È proprio in quelle ore di silenzio e oscurità che l’immaginazione si riempie di suoni e paesaggi. Dal buio possono fiorire amori, luci accecanti, pensieri burrascosi, paesaggi sterminati nei quali l’ascoltatore diventa il protagonista di storie fantastiche.
È il potere della musica strumentale, nel caso di Isabella, classica nella composizione, contemporanea nello sviluppo armonico, 28 minuti d’ascolto dove succedono tante cose: un violoncello, quello di Tina Guo, che “canta” sulle note del pianoforte in Nightfall, la chitarra di Luca Nobis che fa da controcanto al pianoforte in Rêverie e in Amanda’s Theme, qui con l’aggiunta di archi e fiati. Così fino all’ottavo brano che l’artista ha voluto chiamare Memento, un avvertimento a memoria futura : «Un auto ammonimento» mi spiega Isabella. «Ricordati dove vuoi andare, è un finale aperto, con questo sound design costruito dal produttore Ludovico Clemente che mi apre ad altri mondi sonori che chissà dove mi porteranno!».
Ho incontrato Isabella ed è nata una lunga e appassionata conversazione che trovate qui sotto.
Toglimi il dubbio, ma componi sempre di notte?
«Soffro d’insonnia… scherzo! Però sì, mi piace tantissimo scrivere di notte. L’orario magico è dalle tre alle cinque, in quest’arco di tempo ho composto e scritto tante cose».
Praticamente non dormi…
«Credo di dormire intensamente nelle poche ore che dedico al sonno. Sono una persona abbastanza iperattiva e non bevo tanto caffè! Se ne prendo più d’uno crollo, mi viene la tachicardia. Di notte mi arrivano le idee perché probabilmente sono più tranquilla. Ci sono questi silenzi che portano sempre qualcosa di interessante. Mi sono trovata a scrivere tanto di notte, non solo musica ma anche racconti. Non ho tantissima memoria, così mi sono abituata a fissare i dettagli che mi vengono in mente. Il ricordo è fondamentale, il dimenticarsi troppo non fa solo perdere se stessi ma anche la realtà».
Scrivi anche la musica su carta?
«Sì sono piena di carta pentagrammata, adoro scrivere così. Mi piace il suo colore giallino, mi piace vedere le note visualizzate sulla carta. È un “difetto” che mi hanno trasmesso i miei maestri».
Nocturne è dunque un omaggio ai pensieri notturni?
«È un omaggio alla riflessione e all’ascolto, che per me avviene più di notte, quando riesco a catturare maggiormente i dettagli, come se avessi, in realtà, tanta luce sui pensieri. Uno associa la notte all’oscurità, invece l’ho sempre percepita come un momento molto colorato. Ecco perché ho scritto un brano dedicato a un quadro di Van Gogh (Café Terrace at Night) perché adoro questi colori vivacI, la notte è molto più colorata del giorno. Ci sono degli aspetti della notte mistici, ed è molto affascinante».
Vieni dalla musica classica ma non ti definisci una musicista classica…
«Dico sempre che sono una pianista classica ma non la classica pianista, il concetto è quello».
Nella musica mainstream italiana c’è parecchia omologazione, sempre i soliti beat, sempre lo stesso modo di cantare…
«Vale il principio: questa cosa funziona, quindi facciamola con tante piccole differenze ma sostanzialmente manteniamo quello! Alla fine si omologa tutto. Il pericolo è che i grandi interpreti, penso a una Fiorella Mannoia, ne risentano. L’altro giorno ho rivisto un video che Natale Massara, mio amico carissimo, mi aveva mostrato tempo fa. È del Sanremo edizione 1974, lui dirigeva, DIRIGEVA!, Milva cantava: sul palco, immobile, voce, parole, una musica meravigliosa. È vero che i tempi cambiano, ma oggi si tende a proporre brani usa e getta, c’è una velocità d’ascolto massima. Anche se la Gen Z non è così da sottovalutare: i ragazzi, rispetto alle precedenti generazioni, si stanno stancando dei social, della velocità. Secondo me lì c’è un cambio di rotta radicale che ancora non è stato compreso. La discografia si sta arenando su cose preconfezionate, già morte».
C’è dunque speranza alla non banalizzazione della musica?
«Ce l’ho sempre! Lo dico anche per me stessa. In Nocturne ho cercato di trovare un linguaggio più chiaro e diretto rispetto a quello che è il mio solito – ho un percorso piuttosto variegato che ha una sua complessità, perché sono io stessa complessa! Ho trovato un modo che secondo me è più diretto, che apre i canali emotivi di chi ascolta, per raggiungere un pubblico più ampio possibile. Alla fine quello che vogliamo tutti è condividere con più persone possibili. Mi interessa emozionare, far evadere con il proprio vissuto è il potere della musica strumentale. Ognuno può far proprio quel brano e, attraverso questo, ricordare anche fatti molto personali. Lascia la libertà di percezione».
Dargen D’Amico ha detto che gli piace la tua musica perché non spara sentenze!
«Non c’è una presunzione alla base, forse è questo che intende dire. C’è una complessità ma allo stesso tempo non c’è la voglia di sbandierarla, tipico del linguaggio colto. È piuttosto il bisogno di aprire il più possibile i canali emotivi, non avere pregiudizi nell’ascolto e, come dicevo prima, nel mio caso, cercare di arrivare all’ascoltatore con delle corde più lunghe, pur senza rinunciare alla propria natura e quindi alla propria complessità. L’ho fatto anche con Dargen nel suo album a cui ho partecipato (Variazioni, del 2017, ndr): riuscire a non rinunciare a me pur cercando un linguaggio che si avvicinasse a un mondo diverso che è quello del rap».
A proposito, com’è nato quel disco?
«L’abbiamo inteso come dialogo da pari a pari non tanto una base come sono abituati i rapper perché deve prevalere la metrica della parola parlata. Non è stato facile, siamo due temperamenti forti, però è stato bellissimo! Io avevo una voglia matta di accostare la mia musica allo spoken word. Dargen è perfetto, un poeta urban, me l’ha presentato Charlie Rapino: “Te lo voglio far conoscere perché secondo me è quello che stai cercando”, mi disse. Ci siamo incontrati a un’assurdissima festa a Milano, l’inaugurazione di un locale, c’era anche Barbara d’Urso, era tutto surreale, sembrava un film di Fellini, con personaggi particolarissimi, noi due in mezzo ci siamo messi a parlare per tre ore filate: lui aveva la mia stessa intenzione, nel suo caso accostare la sua musica a un pianoforte. Ci siamo trovati al momento giusto anche se in un posto non proprio giusto! Poi Dargen è partito un mese in giro per il mondo, io gli mandavo pezzi e lui mi rispondeva con feedback. Quando è tornato abbiamo buttato giù alcune idee e, nel giro di una settimana, è nato l’album, con un quartetto d’archi. Il disco è piaciuto molto, vedi Il ritorno delle stelle, brano che ha avuto un ottimo riscontro di pubblico».
In Nocturne hai collaborato con due musicisti fantastici, il chitarrista Luca Nobis (in Rêverie) e la violoncellista Tina Guo (in Nightfall)…
«Adoro Luca! Fa musica aperta, in studio è stato bellissimo, non avevamo mai collaborato insieme ed è riuscito a capire e creare l’eleganza, con quegli armonici che fa, che sono solo suoi: Era perfetto, ha una cura del tocco che è riconoscibile. L’incontro con Tina Guo ha fatto sparire l’oscurità, è stato magico. Ho scritto Nightfall, pensando a una donna, così l’ho mandato a lei. Era impegnatissima, ma ha risposto nel giro di pochissimo: “Voglio farlo, devo solo trovare il tempo”, mi ha detto. In pochi giorni ha mantenuto la promessa. Ora ci sentiamo spesso. Speriamo sia l’inizio di una collaborazione».
Sarebbe bello vedervi sul palco insieme, con Tina e Luca…
«Eh, ci stiamo lavorando… ti dirò a breve perché stiamo incastrando le date del tour che parte a marzo e dura fino alla fine di maggio. In particolare ce n’è una dove assolutamente voglio coinvolgere Luca».
Isabella, tu hai un legame fortissimo con il pianoforte. Non hai mai pensato a un altro strumento?
«No! Volevo suonarlo fin da piccolissima. Mio padre era un grande appassionato di musica per pianoforte, mi faceva ascoltare Horowitz e Chopin. Mi ricordo che aveva un organo Farfisa a doppia tastiera con pedaliera, il suo sogno, comprato con anni di lavoro: da bimba mi arrampicavo sulle sue ginocchia e lui mi insegnava a orecchio le melodie. Questo album è dedicato a lui, l’ho perso un anno e mezzo fa. Quando è successo ero in America, non sono riuscita a raggiungerlo… è stato uno shock. Avevo bisogno di un momento di riflessione, ero caduta in un letargo emotivo. Così, invece di dormire per anestetizzarmi, mi sono detta: “Vai incontro a questa notte, ascoltala, e di cose me ne ha dette tante! Ho scritto molto, nel disco ho voluto fissare otto brani, quelli che mi sembravano più giusti e coerenti».
L’album sta ricevendo feedback positivi?
«Sì, anche negli Stati Uniti, mi interessa molto questo aspetto perché durante l’anno uscirà un album con IN-Q (al secolo Adam Schmalholz, ndr), esponente dello slam poetry californiano, lui è seguitissimo, ha questo modo di performare bellissimo. Ci tenevo che uscisse Nocturne prima perché è anche grazie a lui che ho scritto quest’album. Con Adam ho un po’ di progetti negli States».
Il viaggio nella notte è una libertà che pochi possono permettersi, molti artisti rimangono sempre invischiati nel giorno dopo giorno, nel dover fare le cose per forza.
«Ha a che fare molto con la libertà, bisogna capire fino a che punto un artista riesce a permetterselo, bisogna pur sempre portare a casa la pagnotta! Le major hanno delle logiche molto restrittive. Tina Guo, che è un’imprenditrice, mestiere difficilissimo per una donna, ha le sue edizioni, non si è legata a nessuno pur lavorando con tutti… Non è facile per una donna, musicista, strumentista, compositrice, produttrice. Prendi, per esempio, il mondo delle colonne sonore: è quasi del tutto maschile: tra uomini si aiutano, si passano il lavoro. Tra donne queste cose non si possono ancora fare, perché non abbiamo quella rete che si deve costruire anche se tra poche. Le cose stanno lentamente cambiando. A me interessa tanto l’aspetto del live, del rapporto col pubblico: performare è il momento più bello che sento mio. Mi piace l’idea di scrivere per immagini, non a caso adoro la fotografia che per me è l’arte per eccellenza, quella che più si lega alla sensazione del vissuto, del far rivivere il ricordo, come per la musica. È importante fare rete tra donne che hanno a cuore la divulgazione del talento femminile. Non per farne una questione di genere, ma di essenza, il modo di scrivere, performare, interpretare. Ecco perché ho voluto fortemente Tina: questa forma, eleganza, poesia, forza, indipendenza mi hanno sempre affascinato al di là del genere. Amanda’s Theme è dedicato alla forza e all’indipendenza di una donna che esiste veramente. Amanda, significa Da amare, incondizionatamente, solo per la forza che esprime, una donna che a causa di un incidente ha dovuto cambiare tutto per rincorrere un altro sogno. Questa forza della donna ha sempre spaventato per questo è sempre stata sminuita. Tosca, Milva, Mina hanno un’essenza speciale».
Quindi possiamo dire che le donne artiste potrebbero salvare la musica italiana in questo momento!
«È una bella responsabilità. Dare più e libero spazio all’espressività è una grande sfida. Ne stiamo vedendo delle belle, penso che ci sia un cambiamento importante anche nel mondo del cinema. Una boccata d’aria fresca, di espressività diversa. Al di là del genere, è importante sottolineare le differenze. Più c’è diversità più c’è stimolo».
Ma ci sarà pure un altro strumento che ti piace suonare oltre al pianoforte!
«Il violoncello, guardalo, ce l’ho qui dietro rosso, che spunta! Qualcosa suono per scrivere per archi, ma come per tutti gli strumenti, gli si deve dedicare tempo. Il piano è un’orchestra in miniatura necessità di tanta dedizione, se dovessi farlo anche con il violoncello, dovrei avere una doppia vita. Il violoncello mi piace perché è quello che più si avvicina come frequenze alla voce umana e poi lo abbracci mentre suoni, lo senti un tutt’uno con te…».