Il 10 novembre scorso è uscito il primo disco di un cantautore molto particolare, come particolare è anche il titolo: Chi l’avrebbe mai detto? Di mestiere fa il magistrato, la passione per la musica l’ha coltivata fin da ragazzo, catturato dalle parole con riferimenti cantautorali di tutto rispetto, primo fra tutti quel genio di Gianmaria Testa che la morte ha voluto portarsi via troppo presto.
Lui si chiama Claudio Paris, tarantino di nascita e, oggi, per motivi di lavoro, bolognese di residenza. Ha scelto come nome d’arte Lemò, che sembra tanto un soprannome dialettale, ma in realtà, con quell’accento civettuolo sull’ultima vocale, riporta alla pronuncia francese di Les Mots, le parole.
Proprio dalle parole bisogna approcciare questo lavoro che racchiude, in un diario di vita, gli anni del musicista Paris. Un diario segreto, intimo, personale da cui ha tratto 11 brani («ma ne ho scritti molti di più», mi confessa al telefono»). Il suo alter ego ha trovato finalmente il coraggio di affacciarsi alla notorietà. E lui ci è entrato a passi felpati, silenzioso e timido ma consapevole che c’è qualcosa che vale raccontare e musicare.
Si tratti di due guanti separati come Spaiato: Sono il guanto che hai lasciato qui da solo a Budapest, il mio compagno fortunato lui non te lo sei scordato, è ripartito insieme a te. Ti ricordi ci scegliesti quel giorno lì a Trastevere, come hai fatto a non vedere, come hai fatto a ripartire e non c’ero anch’io con te… dove il clarinetto del grande Gabriele Mirabassi ricama tra le parole, in quartetto con il contrabbasso di Ferruccio Spinetti, la chitarra di Giancarlo Bianchetti e la batteria di Francesco Lomagistro, oppure di Ma tu non mi parli più: Ma tu non mi parli più e a quest’ora della notte le mie speranze sono tutte sbiadite. Ma tu non mi parli più e a quest’ora della sera a guardarti in quella foto sembri prigioniera… con Martino De Cesare alla chitarra e Antonio Vinci al pianoforte che creano un’atmosfera raffinata dal sapore bossa jazz.
Oltre al testo, la musica. Affidata alla direzione artistica di Francesco Lomagistro che ha chiamato alla fattura del disco, come avete letto, grandi nomi della musica di qualità italiana. Con Mirabassi, Spinetti, De Cesare e Vinci, ci sono Vince Abbracciante alla fisarmonica (ascoltatevi Les Mots), Giovanni Astorino al violoncello e Pierpaolo Giandomenico al basso elettrico (Passi). Un parterre di musicisti di tutto rispetto per un lavoro che, in fondo, è un omaggio all’amore per la buona musica e per i versi in tutte le sue declinazioni.
Chi l’avrebbe mai detto? è il titolo dell’album e anche l’ultimo brano del disco…
«L’inizio e la chiusa, è un giocare con il mio stesso stupore rispetto alla realizzazione di questo album».
Perché hai scelto la magistratura invece della musica?
«Non so risponderti, forse, all’inizio, per mancanza di coraggio, il non voler deludere le aspettative degli altri. Però, credo che le cose prima o poi arrivano e, anche se tardi, penso di essere riuscito a riversare in quello che ho scritto e scrivo un po’ più di maturità. Mancherà forse una freschezza giovanile… ma sono contento così!».
Com’è nata la tua passione per la musica?
«Ero un ragazzino, appena quattordicenne, quando mi regalarono la prima chitarra. Poi la mia vita ha preso altre strade, giurisprudenza, il concorso, la magistratura. Il sogno mi è rimasto nel cassetto. I sogni però hanno tramato contro di me, fino quando non sono prepotentemente usciti fuori».
Lemò, il tuo moniker, riprende la pronuncia di “parole” in francese…
«Esatto, ed anche uno dei brani a cui sono più legato. Lemò è un nome molto musicale. Il mio cognome, Paris, richiama un po’ la Francia (scherza, ndr)! Mi è piaciuto anche per differenziarmi dall’altra parte di me, dalla mia professione di magistrato. Due cose separate che hanno imparato a convivere».
È un album ricco di sonorità, violoncello, clarinetto, basso, contrabbasso…
«Ho chiesto a Francesco Lomagistro (batterista che ha curato la direzione artistica, ndr), che conosco perché siamo concittadini, se poteva coinvolgere nel progetto alcuni musicisti a cui tenevo particolarmente ma che non conoscevo. Alcuni di loro sono legati a Gianmaria Testa, il mio artista preferito».
Difficile da portarlo in giro live con tutti questi artisti coinvolti…
«Infatti, non è la cosa è più semplice del mondo, ma ci stiamo attrezzando per la prossima primavera».
Che narrazione hai voluto trasmettere ?
«Sono brani scritti nel tempo, la prima canzone che apre l’album, Back Home, ha quasi vent’anni, altre sono più recenti, è un album che rappresenta la mia scrittura nel tempo. Spaiato, per esempio, l’ho dedicato a Gianmaria Testa, Fitta la nebbia è invece un classico blues, molto sornione, auto ironico, mi ricorda un po’ Jeff Bridges ne Il Grande Lebowski, un combina guai, soprattutto in amore. In genere le mie canzoni nascono dalla quotidianità, dai sentimenti, molto intimisti ma che si aprono a temi più universali».
Nel disco ci sono tanti richiami al cantautorato italiano dagli anni Settanta a oggi…
«Sì, mi piacciono De Gregori, Dalla, De Andrè, mi piace molto Capossela ma soprattutto mi piace Gianmaria Testa, aveva una voce calda, avvolgente, ti coinvolgeva, la sua era una scrittura a tutto tondo… abbiamo perso un grande artista».
Quando componi parti dalle parole o dalla musica?
«In realtà succede insieme, uso la chitarra, negli ultimi anni ho scoperto anche l’ukulele e sto imparando a suonare il pianoforte che mi è servito ad allargare la mia fonte d’ispirazione musicale».
I tuoi colleghi in tribunale cosa dicono di questa tua doppia vita?
«Sono molto contenti, ho ricevuto tantissimi apprezzamenti, anche più di quanto mi aspettassi. Il loro è un affetto sincero».
Una curiosità, ma quando riesci a suonare con il lavoro che fai?
«In effetti lo faccio molto poco, piuttosto scrivo nei momenti più impensabili, per lo più a casa la sera. Se sono fuori, registro l’idea sullo smartphone».
Ora vivi a Bologna, ma da magistrato hai passato anni tosti in Calabria…
«Sì, sono stato i primi cinque anni in provincia di Reggio Calabria, quindi ho avuto una parentesi a Torino per poi tornare giù a Catanzaro. Anni molto, molto impegnativi. È una professione che ti dà tanto ma che ti assorbe altrettanto. Sono un Gip giudicante, le responsabilità sono tante».
L’essere magistrato si riflette sulla tua musica?
«Sì, è inevitabile. Queste due parti della mia vita all’inizio della mia carriera non hanno collaborato, poi, incredibilmente, si sono proficuamente incontrate, tanto che ci sono canzoni che traggono ispirazione dal mio mestiere. Non le ho inserite in questo disco, per fare un passo di questo genere ci vorrà del tempo. Non escludo di farlo quando sarò pronto, un domani».
Il cantautorato come valenza sociale è ancora attuale?
«Sì, banalmente parlare d’amore, come ha fatto Testa, d’amore universale, oggi è un atto quasi rivoluzionario con tutto quello che sta succedendo. È bene non abbandonare questa forma d’arte, il ritornare a parlare di temi fondamentali, al di là della politicizzazione, è la funzione sociale del cantautorato».