Al festival di Castelfidardo la magia di Daniele Di Bonaventura

Inizia oggi, 13 settembre, la 48esima edizione del Premio Internazionale Fisarmonica (PIF) a Castelfidardo (Ancona). Evento molto sentito nella cittadina che, grazie all’azienda fondata da Paolo Soprani nella seconda metà dell’Ottocento, è diventata la capitale italiana di questo strumento musicale. Saranno cinque giorni di contese e concerti, tra questi si potranno ascoltare Danilo Di Paolonicola con il suo No Gender (ve ne avevo parlato in aprile, all’uscita del suo lavoro omonimo), Sergio Cammariere, Rita Marcotulli con un progetto a metà tra il cinema di Truffaut e il jazz, Richard Bona in quartetto con il fisarmonicista Luciano Biondini (di lui ho scritto in questo post), Andrea Piccioni ai tamburi a cornice e Ciro Manna alla chitarra.

C’è un altro incontro musicale che si terrà il 16 settembre, alle 22, nel Parco delle Rimembranze, ed è quello con Paolo Fresu e Daniele Di Bonaventura che porteranno, in duo, Mistico Mediterraneo, lavoro da cui nacque un gran bel disco pubblicato nel 2011 con il coro corso A Filetta. Tecnicamente Daniele è un outsider del PIF, visto che la fisarmonica l’ha suonata pochissimo da giovane e che lo strumento con cui si esprime è un lontano parente della stessa, il bandoneon.

Bandoneon è una parola magica che evoca terre lontane, avventure sonore, racconti del mondo alla fine del mondo alla Sepulveda, anche se il nome deriva più prosaicamente dal tedesco Heinrich Band che lo inventò nell’Ottocento. Per il suo suono evocativo, per la portata armonica ricca, piena, sensuale che solo un bravo bandoneonista riesce a estrarre, lo strumento è diventato l’attore protagonista di ogni orchestra di tango che si rispetti. Anzi, noi comuni ascoltatori lo identifichiamo erroneamente con il genere sudamericano, ma in realtà è stato ed è molto altro. 

Il bandoneon lo fa il musicista che lo suona, può essere banale nelle mani sbagliate come angelico in quelle giuste. Basti pensare ad Astor Piazzolla, o a Dino Saluzzi, classe 1935, che con il suo Kultrum (correva l’anno 1983) dimostrò ciò che un bravo bandoneonista può fare: ovvero, tutto!

Daniele Di Bonaventura fa parte di questa rara schiera di musicisti. È uno dei maggiori bandeonisti in circolazione, ha creato un suo genere compositivo tra classica, jazz, latina e folk («Se sei passato dal jazz e dalla musica classica riesci a fare tutto», sostiene), a 57 anni ha suonato (e suona) con i grandi del jazz, ha stretto uno dei più bei sodalizi artistici degli ultimi anni con Paolo Fresu che dura ormai dal 2006. Sul bandoneon Di Bonaventura potrebbe costruire uno spettacolo goloso tra aneddoti, suoni ed emozioni, lo si starebbe ad ascoltare per ore. 

Quello che mi attira dell’attività artistica del compositore di Fermo è la sua grande capacità di creare progetti artistici mai banali, come il disco uscito il primo settembre scorso tratto da un live di una decina d’anni fa Uno strato di buio e uno di luce con la poetessa Patrizia Valduga, o il Viaggio Sentimentale (2022) registrato con l’attore Eugenio Allegri, letture e sonorità del Sudamerica, così racconta il sottotesto. Oppure il lavoro uscito a febbraio di quest’anno con il suo quartetto Band’Union e la brava Ilaria Pilar Patassini, Italia Folksongs, attraverso la rivisitazione di brani popolari che raccontano la vivacità musicale italiana. E, ancora, In Spiritum, disco pubblicato nel 2021 con il violoncellista Federico Bracalente dove suona musica sacra (d’altronde il bandoneon nacque proprio per accompagnare, alla stregua di un organo portatile, le attività liturgiche), da Dufay a Palestrina a sue composizioni. Nel 2021 in pieno Covid pubblicò Canzoni da Casa, registrato durante il primo lockdown. Un disco che ho ascoltato e riascoltato perché mi faceva viaggiare, quando viaggiare non si poteva, tra Francia, Argentina, il mio amato Brasile, brani spogliati e rivestiti di tristezze velate, di allegrie tattili e di tante speranze.

Daniele sei nato a una cinquantina di chilometri da Castelfidardo, in qualche modo sei stato influenzato da questo strumento…
«In realtà, ti confesso, la fisarmonica non l’ho mai suonata. Da ragazzo suonavo il pianoforte e le tastiere, jazz e pop. Quello che mi piaceva davvero era comporre. Così mi sono iscritto al conservatorio e mi sono diplomato in composizione, un percorso durato dieci anni. Al conservatorio ho suonato il pianoforte e mi sono avvicinato anche al violoncello».

Quando hai deciso che il bandoneon sarebbe stato il tuo strumento d’elezione?
«Terminati gli studi ho iniziato a pensare a cosa volevo fare della mia vita, ricordo che andavo a vedere molti concerti. Ed è stato proprio in uno di Astor Piazzolla che l’ho scoperto. Mi ha lasciato senza fiato vedere come lui lo padroneggiava e lo suonava. Ho pensato che era lo strumento giusto per tradurre il mio sapere musicale acquisito negli anni di studi. Approfittando del viaggio in Argentina di un mio amico mi sono fatto portare a casa un bandoneon e lì è iniziato il tutto».

Non è uno strumento facile…
«Volevo usarlo in modo diverso dal tango, non sono un suonatore di tango, nonostante molti lo pensino. Negli anni Novanta alcune orchestre argentine in tournée in Europa mi chiesero di fare il secondo o terzo bandoneonista, ma ho sempre rifiutato perché non era quella la mia identità. Sono un compositore che si esprime attraverso uno strumento che può essere molto versatile. L’ho studiato a fondo e dopo trent’anni (sono stato uno dei primi italiani a suonarlo) ho imparato a sfruttarlo in ogni sua forma ed espressione».

Suoni il bandoneon classico, il bisonoro, giusto?
«Esatto, chiamato impropriamente diatonico. Esiste anche l’unisonoro, detto cromatico, che è quello che suona, per esempio, Richard Galliano».

Il bisonoro è più complesso…
«È più ricco perché hai più suoni disponibili: ogni tasto ne produce due uno in apertura del mantice e uno in chiusura. E poi – e questa è la differenza sostanziale con la fisarmonica – non ha i registri e non cambi il timbro. Il gioco sta tutto lì nello sfruttare un unico suono. Il bandoneon ha molti parallelismi con il pianoforte. Innanzitutto per il suono unico, è il musicista che attraverso la conoscenza dello strumento riesce a dare l’espressione, e poi per un fattore meccanico: la posizione delle mani nella fisarmonica è curva mentre nel bandoneon è la stessa del pianoforte, le mani sono dritte, parallele alla tastiera, solo che nel primo si suona verticalmente, mentre nel secondo orizzontalmente. E, se la fisarmonica ha i bottoni per i suoni gravi d’accompagnamento, il bandoneon è perfettamente speculare, ti dà la possibilità di usare le stesse posizioni armoniche del piano: è come avere una tastiera di pianoforte divisa in due parti perfettamente indipendenti e uguali. Al posto dei tasti ci sono i bottoni». 

Fisarmonica, bandoneon, bayan russo, sono una grande famiglia!
«Sono strumenti nordeuropei ad ancia meccanica, prendi la concertina, nell’Ottocento era molto diffusa come accompagnamento per le danze nelle feste popolari. In Russia c’è una scuola pazzesca di fisarmonica, in Germania è stato inventato il bandoneon perché serviva nelle processioni religiose come sostituto dell’organo».

Torniamo al “tuo” bandoneon e al jazz…
«Quando ho iniziato volevo suonare jazz con questo strumento, trovare una strada diversa, personale. Se esci dagli standard canonici spesso non vieni capito, pensa ad Astor Piazzolla che rivoluzionò il tango, ma a anche a Dino Saluzzi, il Bill Evans del bandoneon, ha 88 anni ed è un signore estremamente colto che guarda ancora al mondo e alla musica, o a Egberto Gismondi, il chitarrista brasiliano uscito dai canoni stilistici del Samba e della Bossanova per creare altro. Succede in quei Paesi che hanno grandi identità musicali». 

In effetti, il tuo modo di suonare è inconfondibiile!
«Lo strumento non è la mia strada di partenza, è l’Arte che mi interessa. Quando scrivo non mi pongo il limite di cosa possa o non possa fare con il bandoneon, mi interessa la creazione di un progetto. Con Paolo Fresu suoniamo da 17 anni, insieme abbiamo fatto tante cose, a partire da Mistico Mediterraneo, la nostra prima collaborazione con il coro A Filetta, ma anche la colonna sonora del film Torneranno i Prati di Ermanno Olmi. Oggi saliamo sul palco e suoniamo senza metterci d’accordo, ci conosciamo perfettamente. Ora, per esempio, sto preparando un lavoro per bandoneon e contrabbasso con Arild Andersen…».

Con quali altri strumenti musicali si sposa il bandoneon?
«Il pianoforte e la chitarra perché sono complementari. Se mi trovassi a suonare con un quartetto d’archi farei inevitabilmente il solista! Comunque, non sono tanto gli strumenti che si combinano quanto i musicisti che li suonano».

A proposito di musicisti, non trovi che, in generale, la musica si stia impoverendo?
«Sì, e la responsabilità è anche delle scuole che sono diventate dei modelli di riproduzione. Insegno bandoneon al conservatorio di Pescara e lo vedo. Se si formano musicisti per modelli ripetuti all’infinito la creatività verrà sempre meno. Oggi stiamo vivendo un problema di identità, sotto ogni aspetto, non voglio fare il vecchio che dice “ai miei tempi…”, però i ragazzi non si guardano più allo specchio, non si mettono in gioco, trovano in rete tutto fatto, spartiti, esecuzioni… finiscono per copiare perdendo l’autenticità, la propria individualità».

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