Soundtrack: La Bella Estate di Francesco Cerasi

Francesco Cerasi – Foto Morena Firpo

Esce oggi nelle sale il film La Bella Estate per la regia di Laura Luchetti, tratto dall’omonimo libro di Cesare Pavese pubblicato nel 1949. In contemporanea è anche disponibile l’album della colonna sonora composta da Francesco Cerasi (Edizioni Curci). Il mondo delle soundtrack è uno degli aspetti più intriganti – a parer mio – della musica. Perché la creatività del musicista deve sposarsi con quella dello sceneggiatore, del regista, dei personaggi che si costruiscono emozionalmente insieme. Un mondo dove la cooperazione è indispensabile e dove, proprio per questo motivo, si possono dare forme concrete alle note che accompagnano il film…

Questo percorso Francesco Cerasi lo conosce molto bene, essendo un convinto assertore dell’unicità dell’Arte in tutti i suoi vari aspetti. Oltre al cinema, l’artista studia da tempo e produce musica per quadri – vedi Audioarte, sua creazione, primo progetto europeo dedicato alla composizione di opere musicali legate all’arte pittorica –  e per architetture. L’arte visiva, immutata nel tempo, può essere “vissuta” e fatta propria da chi la guarda grazie alla musica e alle sue emozioni. «Ammirare un quadro di Jackson Pollock ascoltando Bach non è come guardarlo con in cuffia un musicista contemporaneo del pittore americano», spiega Francesco. Con lui, uomo mite e schivo, che di colonne sonore per cinema e televisione ne ha composte oltre sessanta, ho fatto una lunga e interessante chiacchierata sul valore della musica applicata alle altre arti, sul suono del silenzio e sull’importanza della creatività.

Francesco perché ti piace scrivere colonne sonore?
«Per due motivi, uno artistico e un altro esistenziale. La colonna sonora è musica applicata, volere contribuire, unirsi alla creatività di una persona – in modo wagneriano l’idea del teatro totale – è un po’ il raggiungimento dell’equilibrio del senso dell’Arte. Nell’Arte non si è mai soli, la musica da film lo riassume benissimo. Devo indovinare l’immaginario di un’altra persona che non avevo visto prima d’ora. Qual’è il suono di una storia d’amore molto tormentata? Boh. Può essere il mio, ma chissà se sarà quello di chi ha scritto il film o poi lo girerà. L’appuntamento al buio creativo ha una sua parte esaltante. Il secondo motivo, molto importante per me, è avere un limite di tempo. La musica deve finire con il film. Ciò mi aiuta perché altrimenti scriverei all’infinito per ogni scena».

Veniamo a La Bella Estate
«Nel film di Laura ho dovuto indovinare un po’ meno. Ci conosciamo molto bene, ci vogliamo molto bene, l’ammiro tantissimo come regista, è un essere umano particolare con cui è molto facile andare d’accordo, ha le idee chiare e una grande maestria spontanea nel tirare fuori il meglio dai suoi collaboratori».

Dunque, come ha funzionato il lavoro con lei?
«Ho individuato – come è normale che faccia un compositore – delle aree emotive del film che poi dovevano essere un pochino trattate, alcune avvicinate altre allontanate. Laura è venuta in studio e abbiamo passato un pomeriggio a suonare. È corretto usare il plurale perché mi ha portato a suonare un certo tipo di musica piuttosto di un’altra, dicendomi poche cose, come sa fare un grande direttore d’orchestra. Dopo un paio di pomeriggi avevamo già il tema del film, l’omonimo La Bella Estate, da cui sono derivati gli altri brani».

La musica è un collante nelle Arti. Perché?
«È parte della natura del suono. Riusciamo ad ascoltare il suono perché è aria, sono onde sonore che si muovono. È l’arte più “portabile” da sempre – pensa a Clapping Music, brano di Steve Reich, che ha rifatto la musica con le mani prendendo spunto da forme antichissime – ed è un istinto. Come ascoltatori siamo diventati bravi a capire che intorno a noi c’è tantissima musica anche se non c’è nessun musicista che la suona: per esempio, dei passi che ritmicamente si collegano alla chiusura di una porta. Stiamo capendo che intorno a noi tutto è musica, se la vogliamo immaginare come un’organizzazione di suoni. Ed è automatico che quello che è attorno a noi è anche un po’ cinema, volendo possiamo inventare anche delle storie, è uno spettacolo continuo». 

Quindi l’uomo vive di musica?
«Mi interrogo spesso sul perché non ci debba essere musica intorno alla visione di qualcosa. Sempre più spesso la gente visita i musei ascoltando musica con gli auricolari: è un ascolto personale, non più comunitario. Vale anche nel tragitto casa lavoro: tutti indossano cuffie perché così trovano nuove emozioni lungo un percorso che è sempre lo stesso. Compongono la loro personale colonna sonora tutti i giorni. Per questo credo che  l’aiuto della musica dia tanto nella fruizione di un quadro, che è un’opera immobile, fissa, sempre uguale. Non si possono fare esibizioni live ma esistono delle prospettive. Possiamo ammirare una quadro di Pollock ascoltando Bach o guardarlo di nuovo ascoltando un contemporaneo di Pollock: sarà diverso, è dimostrato. Questa attenzione tra musica e immagini per me è universale».

Nelle tue composizioni usi molto il silenzio. Poche note, studiate per raggiungere un’emozione…
«È una mia attitudine. Il silenzio – o meglio la mancanza di suono – è il suono del mondo, la nostra tela. Ci vuole una bella responsabilità a occupare il silenzio, perché di per sé è già un suono bellissimo, ma è una responsabilità a volte sottovalutata. Non significa fare come Cage e il suo famoso brano la Musica del Silenzio: voglio rassicurare che nella colonna sonora de La Bella Estate si troverà musica, note cantabili. Il silenzio, però, è molto emozionante. Mozart diceva che “la musica è l’infinito tra le note”, è quello che succede tra una nota e l’altra, quel momento di attesa in cui noi non sappiamo cosa succederà dopo. Potrebbe venire un “sol”, un “fa” o una grancassa che cambia tutto. È il nostro procedere in avanti, un po’ come nelle nostre vite. Un’altra delle mie passioni è la musica applicata all’architettura: se ci pensi, il Barocco in architettura non è molto distante da quello in musica. Non so dirti oggi in che epoca siamo e, sinceramente, non so nemmeno quanto sia interessante. La mia è un’attitudine, non ingolfare, non dare troppe informazioni. Ora sto parlando con te e penso di avere esaurito il 70 per cento delle parole che di solito pronuncio in una giornata».

Secondo te l’Intelligenza Artificiale applicata alla musica può essere positiva?
«Tecnicamente la usiamo da anni e ci può portare ottimi risultati. Dal punto di vista creativo non so quanto sia intelligente. Uso una metafora provocatoria: l’IA si venderà come si vendono le bamboline gonfiabili. Poi ognuno decide se ha più piacere nel passare del tempo con la propria partner in carne e ossa o con la bambolina. Per i musicisti è un po’ la stessa cosa: se tu preferisci che il tuo lavoro lo faccia un altro bene, a me piace suonare, creare. Se la userò, lo farò per aiutarmi, non per sostituirmi. La musica è uno scambio di emozioni tra esseri umani, non so quanto sia interessante affidarla a una macchina. Bisogna capire cosa vogliamo far fare a questa Intelligenza Artificiale, è come per gli Nft, tutti ne parlavano ma nessuno sapeva effettivamente cosa fossero».

Ultima domanda: quali sono ora i tuoi ascolti?
«In questo momento i Depeche Mode. Ho visto il loro concerto a Roma con Laura, e ora sono nel “periodo Depeche”. Ascolto tutti i remix degli anni Novanta che stanno pubblicando ora. Poi mi dedico molto alla musica africana. Ne La Bella Estate invece dell’arpa volevo mettere una kora, musicalmente avrebbe avuto un suono molto più femminile, vicino all’anima delle donne presenti nel film. Per problemi di intonazione e accordatura con il nostro sistema armonico però sarebbe stato molto difficile, quindi ho desistito. Mi piace la kora perché è uno strumento che non ha bisogno d’altro ed è molto più dell’arpa perché ha una sua ritmicità».

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