Mille euro. Tanto costa l’Ep di otto brani dal titolo Exagora messo il mese scorso su ebay dalla casa discografica milanese Attitude Recordz (c’è anche il repack digitale). Non è uno scherzo, anzi. È una cosa serissima. Provocazione? Sicuramente. Poi leggi una dichiarazione dei tre giovani fondatori di Attitude, Matteo, Yassa e Bongi, e inizi a capire: «Mai come in questo periodo storico abbiamo visto crescere il fenomeno di imitazione, scimmiottamento se non emulazione, del personaggio criminale e, anche se è chiaro che le responsabilità si stratificano a livelli distinti, non vogliamo comportarci come quelle label che sostengono e finanziano l’immaginario legato al crimine. I nostri artisti scrivono anche testi di gangsta rap, testimonianze di vita vissuta, ma noi lavoriamo quotidianamente a stretto contatto con adolescenti e adulti ai margini, che provengono da situazioni di disagio, quindi ci preme testimoniare quello che non si racconta a sufficienza, ossia che i criminali possono finire in carcere, un posto dove si soffre, ci si suicida, non è possibile coltivare gli affetti e si subisce ogni giorno il trattamento della violenza e della prevaricazione».
Avrete capito che siamo nel mondo rap.
Anzi, per essere più esatti, nella filosofia hip-hop, quello originario e leggendario del Bronx anni Settanta, dove tutto è cominciato. Lo “scimmiottamento” di cui scrivono i tre è quello del rap/trap mainstream. E la colpa non è tanto di tutti quei giovanotti/e che si dilettano a fare i duri, gangsta con l’autotune, piuttosto delle case discografiche che giocano pericolosamente col fuoco, “coltivando” adolescenti per trasformarli in “duri da operetta”, macchinette da soldi.
Matteo, che il carcere lo conosce davvero per un grave reato commesso più di dieci anni fa (oggi è in regime di semilibertà), rimarca: «Quei 1000 euro quotidiani per ogni detenuto (sprecati, nel caso tornasse a compiere reati o si rifacesse a modelli devianti) possono sovvenzionare chi, suo malgrado, conosce bene il carcere e fa di tutto, sempre tramite il rap, per costruire percorsi di vita sostenibili e non ricadere nell’illegalità, da cui vogliamo emanciparci. Mille euro per una copia di Exagora, quindi, rappresentano molto di più di un singolo disco».
Incontro Matteo e Yassa via Zoom.
Matteo è circondato da ragazzi che urlano, lo salutano, lui parla con me e con tanti altri contemporaneamente, me li presenta, dura fare un’intervista. Yassa, invece, se ne sta seduto tranquillo in un bar. «Il nostro intento è vendere il disco per andare a sostenere tutti quei costi che altrimenti sono insostenibili nella discografia che ha a che fare con la marginalità», approfondisce Matteo. E continua: «L’industria discografica pompa molto sulla marginalità, su storie di vita complesse, ma in realtà sta finanziando l’“industria” penale perché crea modelli di emulazione per adolescenti non ancora strutturati che poi davvero si ritrovano in situazioni terribili. Quelli che stiamo finanziando attraverso le views sui social non è gente che ha vissuto davvero tutta questa roba qui. Le storie di vita vere costano care!».
Yassa interviene e mi spiega: «Bisogna rompere quel circolo vizioso in cui c’è sempre qualcuno che riesce a guadagnare su una storia che in realtà ha danneggiato il protagonista che a sua volta si sente in obbligo di continuare a farsi del male, magari rifinendo in prigione, ancora più incazzato e cattivo».
Ritorno sui mille euro…
Sostengono che è il costo giornaliero di un detenuto per la collettività. Mi sembrano tanti. Ancora Matteo che nel frattempo è salito su un pulmino vociante. «È ancora poco, perché, oltre al costo giornaliero per la collettività che si aggira sui 150 euro al giorno a cui devi aggiungere – perché il 70% delle volte chi ha commesso un reato uscito dal carcere ci ricasca – tutti i costi aggiuntivi della recidiva, altro che mille euro, sono milioni di euro che tutti noi paghiamo. Mille euro sono pochi rispetto a quello che la società risparmierebbe se investisse in cultura, formazione, musica. Ovviamente, visto da questo lato, è una provocazione, ma io questi dischi li vendo te lo garantisco!».
«È pure un modo per riflettere su come intendere l’arte», interviene Yassa. «Il 90 per cento degli artisti non viene ascoltato per quello che dice ma per quello che fa, per come si presenta, si veste, si muove. Noi cerchiamo invece di presentarli per quello che valgono e in questo modo far uscire delle persone da situazioni svantaggiate».
La domanda è doverosa: che ruolo ha la musica rap, visto che siete dentro l’industria discografica di questo Paese?
Matteo: «Terapeutico. Ti fa appartenere a una cultura pacifista. D’altronde l’hip-hop è nato da una cultura inclusiva». «Quando stai facendo musica», ribatte Yassa, «non c’è un giudice, né una madre, né un amico che sta lì a giudicarti. Ci sei solo tu e quello che hai bisogno di dire, anche se magari è una cosa sbagliata». «E tutto questo non ha prezzo», irrompe Matteo. «C’è un approccio esistenziale, l’aggancio di uno scopo, il lavoro quotidiano nella produzione di una pubblicazione, c’è l’interfacciarsi con varie figure dell’industria musicale». «Non è una musica che guarisce ma che ti dà l’opportunità di gestirti. Sei tu che decidi di governare quest’opportunità», rincara Yassa.
Discorso molto interessante. Anche perché i tre giovani in questione stanno pagando o hanno pagato il loro conto con la giustizia e hanno avuto la capacità di mettere a frutto un’esperienza durissima. Hanno aperto la casa discografica a Milano nel 2020, prima in zona San Siro a casa di Yassa, poi, grazie a un bando comunale, a Corvetto. «In due anni abbiamo messo gratuitamente a disposizione la nostra vita e il nostro studio a 150 persone, preparando loro dei provini, permettendo di entrare in un vero studio di registrazione, di esprimersi», dice Matteo.
Di qua, insomma, passano ragazzi “difficili” che hanno passati molto simili a quelli dei tre fondatori. Lo scopo dei tre, oltre a un lavoro che produca un reddito (è ovvio!) è quello di dare un’alternativa tramite la musica a persone che sono passate dal carcere, dalle comunità penali o psichiatriche, dalla tossicomania, da situazioni di disagio e violenza, che sanno cosa sia la povertà assoluta. Aggiunge Yassa: «Nel nuovo studio facciamo gli open day: sono giorni in cui arrivano tanti ragazzi; con alcuni di loro entriamo in sintonia, si crea una famiglia. L’album pubblicato è fatto tutto da giovani passati da Attitude, che conferma la sua missione, di essere una casa discografica a vocazione sociale.
Viene da chiedersi se, nelle loro vita sarebbero arrivati comunque dove si trovano ora senza aver attraversato l’inferno.
Matteo sorride, ci pensa un po’ e poi mi dice: «Questo bisogna chiederlo a Dio. Che ti posso rispondere? Penso che la vita sia fatta di universi paralleli, in qualche maniera noi siamo legati a destinazioni che possiamo scegliere solo imboccando degli incroci che troviamo lungo la strada della vita. Di vite già predestinate ne abbiamo tante, miliardi, ma di queste scegliamo sempre da che parte andare. Di incroci Matteo ne ha imboccati tanti dal più terribile e profondo a una laurea in educazione e pedagogia, un master in accelerazione d’impresa e un master (lo sta frequentando) in project management.
Una storia che vale la pena raccontare. Di musica e riscatto, di impegno ed espiazione. Penso a tutte le cose che fa l’esuberante e iperattivo Matteo: Dove trovi il tempo?, chiedo. Mi risponde con una domanda: «Da quante ore è composta una settimana?». Boh, non so, non me lo sono mai chiesto. E Yassa: «168 ore». «Ecco – conclude Matteo – ti abbiamo risposto…».