21 giugno, Festa della Musica. Come ogni anno, da quarant’anni a questa parte (se l’inventò l’allora Ministero della Cultura Francese diretto da Jack Lang con la dicitura Faites de La Musique), è una giornata dedicate al “fare” musica, Make Music Day per gli anglosassoni, poi diventato in Francia, Spagna e Italia, Fête, Festa (la pronuncia per Faites e Fête è praticamente la stessa). In Italia la si festeggia da 28 anni. Il tema 2022, come si legge sul sito ufficiale della manifestazione, è Recovery Sound Green Music Economy: ovvero, porsi l’obiettivo della ripartenza del settore Musicale attraverso una particolare attenzione e rispetto per l’ambiente…
Fare e festeggiare sono due “azioni” che vanno molto d’accordo. Perché, comunque, suonare implica voglia di ascoltare, divertirsi, ballare, emozionarsi, giocose declinazione del fare. Tra le numerose iniziative organizzate lungo tutta la Penisola, mi focalizzo su una, in Puglia, a Francavilla Fontana (Brindisi), dove, alle 21, in piazza Giovanni XXIII, salirà sul palco Nino Buonocore.
È uno di quegli artisti che ho continuato a seguire negli anni. Napoletano, classe 1958, è famoso per canzoni divenute hit nel mondo, vedi Scrivimi, Rosanna, E se qualcuno domani… Con la sua erre leggermente arrotata e soprattutto con quella raffinata capacità di comporre e arrangiare, ha seguito una strada che lo ha portato inevitabilmente, nel corso della sua lunga attività, dal pop al jazz.
Nell’album Una città tra le mani, uscito negli inizi del 1988, ha collaborato anche Chet Baker. Se andate in rete trovate le loro esibizioni in alcuni video dell’epoca. La naturale evoluzione al jazz lo ha portato a pubblicare lo scorso anno un gran bel lavoro, In Jazz (live), 14 brani, registrati il 27 Febbraio 2020 a Roma presso l’Auditorium Parco della Musica, tutti suoi lavori già ascoltati, rivisitati con sapienza, e un nuovo brano, Meglio Così.
Un live registrato d’impatto, grazie a un’intesa perfetta con i musicisti, Antonio Fresa al pianoforte, Antonio De Luise al contrabbasso, Amedeo Ariano alla batteria, Flavio Boltro alla tromba e Max Ionata, al sax.
Proprio la Festa della Musica mi ha spinto a chiamarlo e a parlare di musica, linguaggio, spontaneità, generi…
Nino, rispetto al pop anni Ottanta, noti anche tu un certo impoverimento-appiattimento nella musica mainstream?
«Niente di nuovo, siamo in linea con i mutamenti sociali. Il livello culturale si è abbassato tantissimo e le arti ne risentono, sono influenzate da questo nuovo stimolo».
Non sarà anche che, grazie alla tecnologia, non serve sapere suonare…
«Gli strumenti per fare musica oggi sono più semplici, se comparati alle altre arti. Se vuoi dipingere devi avere una certa formazione, lo stesso se vuoi scrivere o scolpire. Mancando questo approccio conoscitivo è ovvio che, grazie alla tecnologia, tutti ci provino. Poi è chiaro che per uno come me, che viene da storie di suono “analogico”, dove si imponeva la conoscenza del linguaggio musicale, questi sono percorsi difficili da capire».
Che concetto hai della musica?
«Molto rispettoso. Sono un autodidatta: vengo da una famiglia che non aveva le possibilità per farmi studiare. L’approccio spontaneo è liberatorio, ma poi arrivi a un punto che senti la necessità di approfondire. Ho dovuto farlo per forza, per poter dialogare con personaggi che non parlano la tua stessa lingua! La musica è un linguaggio condiviso, invece dell’inglese ho imparato quest’altro idioma…».
Con la musica non hai mai avuto ostacoli linguistici…
«Se conosci la musica parli la stessa lingua degli altri musicisti. Ci si capisce perfettamente così, non servono le parole».
È quello che hai fatto con Chet Baker?
«Sì, era un personaggio affascinante, un artista che mi ha molto emozionato».
Ha collaborato nel tuo album Una città tra le mani, giusto?
«Sì, in più brani. Il suono della sua tromba era perfetto per quel lavoro. Il mio staff riuscì a contattarlo. Ci siamo incontrati in un bar. La notte prima ero andato in paranoia, l’ho passata trascrivendo tutti i brani in modo dettagliato. Il giorno dopo mi sono presentato consegnandogli gli spartiti. Lui li ha guardati, li ha messi da parte (non sapevo che non leggesse la musica) e mi ha detto: “Fammi ascoltare qualcosa tu”. Dopo pochi minuti ha risposto: “Ok, lo faccio”».
Così avete registrato…
«In sala d’incisione è stato lapidario: “Tu canta che io suono”, la riprova che la musica è un’entità libera, dove basta saper parlare la stessa lingua per realizzare cose fantastiche».
A Sanremo ci sei stato più d’una volta… Oggi ci andresti?
«In quegli anni il Festival era un grande trampolino di lancio anche per chi faceva una musica di livello diverso. Portavi una canzone che, se al pubblico non piaceva, attirava però l’attenzione della critica. Oggi è cambiato tantissimo, è più votato allo spettacolo, un grandissimo show in cui la musica non è l’elemento essenziale. All’epoca, ci si metteva a studiare mesi e mesi prima per trovare la canzone giusta, quella che riuscisse a rappresentare il tuo repertorio, un brano che dovesse durare nel tempo».
Torno alla musica come linguaggio: sei una persona molto riservata, che parla poco, non certo un presenzialista!
«I musicisti veri hanno dentro un bisogno che esprimono scrivendo canzoni. Credo che tutto sia partito da un disagio verso un modo tradizionale di comunicare. Quelli come me che vengono da una scuola cantautorale sanno che la musica è importante, ha cambiato persino gli Stati, è un forte volano culturale. Oggi non c’è questa urgenza di esprimere contenuti sociali, che comunque ci sono, piuttosto condizioni personali. Non è più pilota di cambiamento».
Come ti sei avvicinato al jazz?
«Non amo fare catalogazioni estreme, per me la musica è una sola. L’unica suddivisione è in bella o brutta! La musica ha bisogno di libertà espressiva: dopo anni alla ricerca di una tua precisa identità, il jazz ti permette di prendere strade più… avventurose, diverse».
Un punto consapevole di arrivo e non una partenza…
«È un percorso naturale legato anche alla crescita artistica, c’è da aspettarselo. I musicisti che suonano con me arrivavano tutti da varie estrazioni, rock, funk, blues… Il jazz non è un punto di arrivo ma una delle tante fermate di questo treno meraviglioso che è la comunicazione musicale».
Per suonarlo devi avere però molti strumenti culturali a disposizione…
«È una forma di grande libertà espressiva, la differenza che c’è tra un amico e un conoscente. All’amico dici tutto, puoi aprirti, mentre con un conoscente sei portato a essere più riservato. Il jazz è un amico».
Al concerto di domani sera a Francavilla Fontana suonerai jazz?
«Se vado in un posto dove il pubblico sceglie di venire perché è consapevole di quello che faccio, posso permettermelo. Altrimenti, in un luogo dove sono stato invitato e le persone arrivano non solo perché ci sono io a suonare, penso sia giusto fornire una proposta più fruibile. È una questione di rispetto».
Giusto. Nei tuoi ultimi lavori stai puntando all’essenziale, forme più ricercate prive di sovrascritture…
«Sì, credo che spogliarsi del superfluo sia una necessità. Ho un progetto parallelo dove propongo canzoni per voce, chitarra e fisarmonica. Il fatto è che inizi a scavare, arrivi all’osso, ti appassioni per una piccola suggestione, appena appena… quello!».
Un suono più vicino al tuo essere artista oggi?
«È una condizione di grande intimità. Prima ero molto legato agli arrangiamenti, ora mi interessa più l’etica della musica piuttosto che l’estetica».
Etica in che senso?
«La musica ti insegna a vivere, a stare in questo mondo. Non è soltanto volta al divertimento. È denuncia, protesta, un’altra visione, come giustamente veniva considerata negli anni Settanta».
Sei di Napoli, cosa pensi dei neomelodici?
«Li considero un po’ come il liscio per la Romagna, una musica popolare. Sono una degenerazione della musica popolare, in tempi dove c’è tanta meno cultura».
Te l’ho chiesto perché Eduardo De Crescenzo ha appena pubblicato Avvenne a Napoli, passione per voce e piano, un libro e un Cd con i quali ha scavato nella prolifica canzone napoletana dall’Ottocento ai primi del Novecento…
«Un bellissimo lavoro! Ed è vero: l’aria di un’Operetta è una canzone; la musica napoletana l’ha presa a modello, rigenerandola. Ha migliorato sicuramente l’impostazione della musica “leggera” prima del Ventennio fascista, con strutture armoniche e melodiche importanti».
In Jazz (Live) è stato un esperimento?
«È il mio unico disco registrato dal vivo e al netto di prove, dove c’è stata la massima libertà per i musicisti. Una sorpresa molto formativa, da quel concerto ho imparato molte cose che applico oggi nei miei concerti».
La cover del tuo lavoro è un camaleonte non a caso…
«Sì, quel camaleonte mi rappresenta, la copertina l’ha disegnata mia figlia Nadia, che è una brava illustratrice…».