Ed eccoli, son tornati… Dopo sette anni di silenzio dall’ultimo album pubblicato il 28 novembre del 2014, Rock Or Bust. Lì, a suonare la chitarra ritmica, non c’era già più Malcolm, ammalato e poi passato per sempre nelle praterie del Rock il 18 novembre 2017.
Gli AC/DC son tornati. Riapparsi plasticamente con Power Up, ve ne avevo parlato lo scorso ottobre, quando misero on air il brano di anticipazione del disco, Shot in the Dark, uscito, per una strana coincidenza, lo stesso giorno della morte di Eddie Van Halen. Oggi, 13 novembre ecco l’album in gran spolvero. In tanti lo aspettavano, anche il mio amico Andrea, avvocato di professione e collezionista seriale di vinili e cd di hard rock, punk e metal (17mila dischi e 14mila cd, mi inchino dinanzi a tanta potenza!).
A questo punto dovrei tentare una recensione. Fossi un critico, direi che i grandi maestri dell’hard rock ora sono dei ricchissimi pensionati pieni di acciacchi, sopravvissuti alle vicende di una band immolata al più puro istinto Rock. Brani più o meno simili e via discorrendo. Ma non voglio farlo, perché sarebbe sommamente ingiusto. La Young Family e i loro cari fratelli di palco sono degli strepitosi, potenti, onesti, indefessi lavoratori Rock. Si muovono all’unisono, non sono una band ma un uomo solo, un Mazinga perfetto, che esiste grazie al cuore e al sangue di tutti, anche di Stevie, nipote di Malcolm e Angus (detta così, può sembrare un ragazzino, ma in realtà il figlio di Stephen Crawford Young Sr, fratello di Malcolm e Angus, morto a 56 anni nel 1989, l’11 dicembre prossimo compirà 64 anni, uno in meno di Angus…).
Lo ha confermato più o meno così lo stesso Angus, il boss del gruppo: gli AC/DC sono un palazzo con fondamenta profonde, ben costruito che difficilmente crollerà. Brani nuovi e ripresi da vecchie canzoni composte anche con Malcolm. Angus ci tiene a dirlo al mondo. Malcolm era duro, critico con se stesso e gli altri. È così che si sono mossi anche per Power Up. Lo spirito di Malcolm aleggiava a Vancouver dentro lo studio di registrazione…
Questo nuovo lavoro suona forte e chiaro. L’ho messo in cuffia e ho chiuso gli occhi. Sono loro, gli AC/DC, inconfondibili. Angus risolve i brani con riff che riescono ancora a sorprendere, Brian Johnson il cui canto suona, come ricorda il critico di Rolling Stones nella review del disco, come il tubo di scarico di un camion incazzato, ce la mette tutta e, credetemi, non è facile fare quel falsetto all’acido puro, soprattutto se l’anglo-italiano annovera 73 primavere.
Sono loro, certo, Angus stretto nel suo costumino infantile, Brian con la coppola British, Cliff Williams, 70 anni, con i suoi jeans attillati e un basso che ha l’effetto del martello di Polifemo, Phil Rudd, 66 anni, la faccia da duro e la cassa simile a un metronomo. E poco importa che il riff di Code Red assomigli decisamente a quello di Back in Black (album storico di cui si sono festeggiati i 40 anni in luglio, il vero grande successo planetario della band scritto per ricordare Bon Scott, l’allora cantante della band,morto per eccessi d’alcol, ufficialmente), o che la potente Demon Fire ricordi particolarmente Whole Lotta Rosie (brano tratto dall’album Let There Be Rock del 1977). La musica degli AC/DC è questa. Non si pretenda altro.
Una macchina oliata che esegue alla perfezione quel Rock incazzato e battuto che, partito dal Blues è diventato Hard Rock e che è stato imitato da generazioni. Questi sono e questi rimarranno, consapevoli di essere, nonostante gli anni e gli acciacchi, sempre i migliori. Pochi possono permetterselo. Forti dei milioni e milioni di dischi venduti, della potente presenza sul palco e dei riff di Angus che hanno fatto studiare centinaia di chitarristi o aspiranti tali.
Ascoltare e – si spera – andare anche a vedere gli AC/DC è come entrare in un Luna Park dove sai quello che trovi, persino le emozioni che proverai. O come degustare un invecchiato e buon whisky delle Highlands. I sapori, i retrogusti, l’esplosione dell’alcol in bocca… tutto quello che ti aspetti. Anzi, meglio!