Vi siete mai chiesti, almeno una volta, come e quando sia nata la musica? Chi abbia cantato per la prima volta, chi, dei nostri antichi progenitori, abbia avuto l’intuizione di inventare un flauto, pizzicare una corda, far vibrare un tronco, insomma trasformare un semplice rumore in suono? Ultimamente sto leggendo alcuni libri che parlano proprio di questo. Uno in particolare mi ha colpito: si intitola Musica dal Profondo (Codice Edizioni) lo ha scritto un musicologo e musicista americano, Victor Grauer, nel 2011.
Nove anni fa fece molto scalpore per le ipotesi che lo studioso metteva a disposizione dopo anni di ricerca (Grauer ha lavorato anche con il famoso etnomusicologo Alan Lomax, con lui ha messo a punto la cantometrica, un sistema di codifica dei popoli in base ai canti): per riassumere velocemente la teoria dello studioso, sappiate che la musica per Grauer è nata in Africa, e questo è assodato da tempo.
Quando parlo di musica, però, intendo quella polifonica, costruita, pensata con uno sviluppo preciso dove anche l’improvvisazione libera era incanalata in una forma ragionata e condivisa. Una musica che forse risale a ventimila anni fa, creata da Boscimani e Pigmei, popolazioni che abitavano il continente africano in zone molto distanti tra loro. Alcuni erano raccoglitori, cioè vivevano dei frutti della terra, altri erano cacciatori. Proprio attraverso i canti tradizionali di questi due popoli, Grauer ha notato come ci fossero molte basi comuni, ipotizzando dunque una lontana matrice comune. Queste popolazioni, poi, hanno dato vita a migrazioni (la teoria dell’out of Africa) che nei millenni li ha fatti disperdere in molte aree del mondo portandosi dietro anche il canto, dote straordinaria, aspetto culturale e spirituale…
Chi ha scritto la prefazione di Musica dal Profondo per l’Italia è stato un musicologo, docente e musicista. Uno dei maggiori esperti internazionali di musica afroamericana, Stefano Zenni. Classe 1962, Zenni, titolare della cattedra di Storia del jazz e della musica afroamericana al Conservatorio di Bologna, dove insegna anche Analisi delle forme compositive e performative del jazz, è stato l’unico vero “addetto ai lavori”, pianista, jazzista, studioso di musica, ad aver scritto l’introduzione del libro a Grauer. Negli altri Paesi dove è stato publicato, il compito è stato affidato ad antropologi ed etnomusicologi… «Il sostegno di Zenni è stato di gran lunga il più entusiasta ed efficace…» confidava Grauer in un’intervista rilasciata allora al quotidiano Il Manifesto.
Dunque Stefano, da dove iniziamo? Partiamo dal libro di Grauer…
«Devo dirti che la teoria di Grauer, seppur continui a essere valida nell’intuizione primaria, è stata radicalmente sovvertita dai nuovi studi sul DNA antico. Anzi, tutte le teorie più importanti sulla nascita e la diffusione di homo sapiens sono state messe in dubbio dai nuovi approcci scientifici sullo studio del genoma attraverso le mappe genetiche ricavate da ossa millenarie. A una decina d’anni dalla pubblicazione di Musica dal Profondo, le cose sono cambiate molto. L’intuizione di Grauer, e cioè che la musica sia un’attività coltivata da ben prima di quanto si sia pensato finora, è giusta. Ma quello che s’è rivelato sbagliato è tutto il resto, soprattutto le ipotesi sulle migrazioni, che si basavano su studi come quelli del genetista e antropologo Luigi Luca Cavalli Sforza, poi superati proprio da un allievo di Sforza, David Reich, autore di uno splendido libro pubblicato lo scorso anno, Chi siamo e come siamo arrivati fin qui (Raffaello Cortina Editore) dove lo scienziato racconta i progressi enormi fatti sul DNA antico che hanno rivisto – e continuano a rivedere – la storia dell’uomo».
Grauer ha comunque avuto un grande merito…
«Con Grauer il tema di una storia “profonda” della musica è diventato un fatto assodato. Da tempo, grazie alla tecnologia e ai progressi nella genetica siamo stati in grado di estendere il concetto di storia dell’uomo retrocedendo di millenni. La storia “profonda” ha partorito riflessioni inevitabili sulla cultura che spesso sono ancora senza risposta. Per esempio: come e quando è nato il linguaggio? Cosa ci dicono i manufatti o le pitture rupestri scoperti negli anni? Sono segni simbolici, segni culturali? Si discute molto anche se anche l’uomo di Neanderthal manifestasse un comportamento simbolico. Ora il discorso si fa ben più complesso: le ricerche sul DNA hanno portato addirittura alla scoperta di popoli di cui non si conosceva l’esistenza, quelli che Reich nel suo libro definisce “fantasmi”, di cui abbiamo le tracce genetiche ma non archeologiche, sviluppati, cresciuti ed estinti nell’arco di pochi secoli».
Sulla musica cosa possiamo sapere o intuire?
«La musica è sempre stata estranea a queste riflessioni, per il fatto che non abbiamo tracce concrete, come le pitture rupestri, che impongono riflessioni e consentono una convergenza tra studiosi. Questo, secondo me, è accaduto per due motivi. Il primo, oggettivo: la musica lascia molte meno tracce di una pittura rupestre. La prova fattuale più antica della musicalità di Sapiens sono dei flauti d’osso risalenti a 35mila anni fa scoperti in Germania. Ma non sappiamo che tipo di musica venisse suonata con questi strumenti… ciò scoraggia i musicologi dal fare ipotesi. Il secondo è la chiusura culturale che la musicologia ha avuto verso le conoscenze delle discipline storiche. Il musicologo lavora su documenti scritti, l’etnomusicologo su culture esistenti. Nessuno si azzarda a fare ipotesi senza alcuna prova. È un modo di studiare tipicamente anglosassone: si rimane attaccati alle prove più palpabili ma si fanno poche ipotesi».
Qual è la tua opinione in proposito?
«Se posso, io sono ancora più audace di Grauer. Fare musica implica determinate capacità cognitive, per cui possiamo parlare di musica anche dove non ci sono manufatti a supportarne l’esistenza. Pensa, ad esempio, a un un nostro progenitore che migliaia di anni fa ha concepito una pietra tagliente bifacciale. Progettare e realizzare un simile manufatto implica il riuscire a concepire ragionamenti complessi, avere in testa un set di operazioni ben precise, un progetto e una finalità… Perché mai, quindi, un essere dotato di queste capacità progettuali e cognitive non avrebbe potuto fare anche musica?».
Cioè mi stai dicendo che era impossibile che un nostro progenitore capace di progettare utensili complessi non facesse anche musica…
«Ti faccio un esempio: hai presente le tavolette di Blombos? Un tesoro ritrovato in una grotta a 300 chilometri da Città del Capo negli anni Novanta. Oltre a vari manufatti (punte di pietra finemente lavorate, gusci forati per farne collane, N.d.R.) ci sono, appunto, due tavolette di ocra rossa incise con decorazioni geometriche risalenti a 75mila anni fa. Osservale: pensare ed eseguire incisioni così perfette che danno vita a figure geometriche è esattamente l’espressione di quanto sostenevo prima: per concepire un simile manufatto questi individui dovevano essere dotati di un principio combinatorio, su una base di linee astratte hanno creato il concetto di angolo per poi formare un rombo… Se 75mila anni fa erano capaci di questo, certamente potevano anche combinare un set di altezze musicali, cioè cantare e suonare delle melodie».
La genetica sta rivoluzionando l’idea che gli studiosi si erano fatti della diffusione dell’uomo e del suo sviluppo.
«Alcuni mesi fa ho letto un interessantissimo articolo pubblicato sulla rivista Internazionale, dove in sostanza si dice che sulle origini di Sapiens la scienza sta facendo passi talmente veloci che spesso studi e libri freschi di stampa sono già sorpassati. L’affascinante è che in pochi anni le lancette del tempo per lo sviluppo cognitivo dell’uomo si sono spostate indietro in modo drastico. Il DNA antico ha evidenziato molto altro, ad esempio che c’erano molti più gruppi di ominidi, alcuni più sviluppati di altri, gruppi che si sono formati, sviluppati, incrociati con altri, e poi estinti… l’unica cosa chiara è che le vecchie teorie sull’evoluzione umana sono fatalmente cadute. Dopo il libro di Grauer la storia dell’umanità è stata profondamente ridisegnata, soprattutto quando si parla di migrazioni».
Quindi non possiamo più sostenere un’evoluzione dalla pietra al computer!
«No, questi studi hanno sparigliato le carte. Non è più così chiaro come e quando sono avvenuti certi sviluppi cognitivi. Inevitabilmente anche la musicologia dopo 150 anni di certezze comincia a scontrarsi con l’evidenza. Dovremmo tutti guardare un docufilm illuminante su questi argomenti. Si tratta di Cave of Forgotten Dreams di Werner Herzog, pellicola sugli splendidi disegni trovati nelle grotte di Chauvet in Francia (tra l’altro, splendida la colonna sonora di Ernst Reijseger!). Disegni spettacolari fatti da mani esperte e da menti capaci di elaborare concetti moderni: vedi ad esempio il bufalo in corsa dipinto con molte zampe per simulare, come in un’immagine cinematografica, il movimento… In quel film c’è anche un accenno alla musica che è molto suggestivo. Quello attuale sulla ricerca dell’origine dell’uomo è un momento esaltante, una fase di sviluppo tumultuosa, anche frustrante perché non abbiamo ancora tante risposte, ma in sé straordinaria».
Veniamo a oggi: la musica che ben conosciamo secondo me ha subìto come una improvvisa decelerazione. Mi sembra che ci si appiattisca su modelli oliati senza cercare nuove frontiere, ovviamente le eccezioni ci sono sempre, ma sono poche…
«La musica oggi è frutto della globalizzazione del gusto. All’occidentale, però. Mi viene da pensare alla Cina, con cui intratteniamo rapporti continui. L’Occidente ha influenzato la musica pop e classica in Cina ma non sta succedendo il contrario. Ciò significa che un modello di gusto occidentale si è imposto e uniforma altri possibili modelli, complice la tecnologia: gli strumenti a disposizione sono gli stessi in tutto il mondo e il mercato detta le sue regole globali. Questo inevitabilmente impone a chi è creativo sfide diverse. Il problema della musica oggi non è la qualità ma la possibilità di farla emergere. Il fatto, poi, che grazie alla tecnologia sono venuti meno gli intermediari (produttori, case discografiche, ecc) amplifica il problema.
Cioè una massificazione che si porta dietro una mediocrità costante?
«Non tanto una mediocrità, quanto uno scollamento dalla realtà. È una mia sensazione, ma rispetto ad altre forme d’arte, come il cinema, il teatro o la letteratura, la musica oggi mi sembra sia meno in grado di raccontare quello che siamo, le nostre inquietudini, le nostre insicurezze. Mi riferisco a tutti i generi, con l’eccezione forse dell’hip hop. Il cinema, ad esempio, racconta le domande che oggi si pone la nostra società, sa tradurle in forme artistiche anche innovative. È come se invece i musicisti fossero disconnessi dal mondo… in questo non vedo segnali di cambiamento a breve termine».