Il 18 luglio del 1969, primo concerto della prima edizione del neonato Festival Internazionale del Jazz della Spezia, salivano sul palco Bill Evans con Eddie Gomez al contrabbasso e Marty Morell alla batteria. Un concerto, ammetto, che mi sarebbe piaciuto tanto vedere. Il 28 luglio prossimo, sempre sullo stesso palco, si potrà assistere a un trio che si riallaccia a doppio nodo a quell’evento di oltre mezzo secolo fa, quello composto da Dado Moroni al pianoforte, accompagnato, in un omaggio a Bill Evans, da Eddie Gomez e da Joe La Barbera, batterista che ha suonato con Evans prima del suo tragico epilogo. Gomez suonerà su quel palco dove si esibì nel ’69. E qui c’entrano ricordi, passioni, storie, che lo fanno diventare per forza un evento da non perdere, soprattutto per chi ha amato e ama ancora la creatività di Evans.
Quello della città ligure è il decano dei festival jazz del nostro Paese. Un grande e saggio vecchio che ha saputo intercettare nel corso degli anni le novità e le commistioni di cui il jazz si nutre avidamente. Se nel 1969 era Bill Evans che aveva dato un nuovo senso al trio jazz con una musica che avrebbe influenzato (e influenza tuttora) pianisti contrabbassisti e batteristi, domani, 24 luglio, la campanella d’inizio concerti nell’ormai tradizionale Piazza Europa, la suonerà il bosniaco Goran Bregović con i suoi Wedding & Funeral Band.
Scorrendo il programma troviamo Mark Stern and Randy Bracker Band (il 25), Irene Grandi (il 27), Paolo Fresu con Uri Cane (il 29). Chiuderà, il 30 luglio Russell Crowe & The Gentlemen Barbers. L’attore neozelandese con la sua band può sembrare anacronistico in un festival jazz di lungo cabotaggio. Perciò ho chiamato il direttore artistico del Festival, Lorenzo Cimino.
Cimino è un trombettista che ama sperimentare, i suoi dischi vanno tutti in questa direzione. A me aveva catturato il suo primo lavoro da leader, Mondo Volato, del 2018, dove la title track che dà il nome al disco è una fusion di rumori, tamburi, parole, grida, bisbigli. La tromba, elemento narrante e sommesso, interviene nelle ultime battute quasi a rassicurare l’ascoltatore. La ricerca del suono, sia esso melodia o rumore, silenzio o fragore, musica “analogica” o elettronica spinta, vedi l’ultimo suo Ep uscito quest’anno, State of Mind con il batterista Dario Carli, è la base della creatività del musicista. E il direttore artistico inevitabilmente ha portato il suo vissuto nel festival.
Lorenzo, sei uno trasversale!
«Mi reputo uno dei fortunati, non sono famosissimo, nei topliner europei, però riesco a campare suonando. Nella mia vita artistica ho scoperto che più cose sei in grado di fare, più possibilità di lavoro hai. Quindi studio molto, sono sempre alla ricerca di nuovi stimoli, sperimento: in questo Paese c’è una grande difficoltà nel proporre nuova musica, siamo tutti stereotipati».
Condivido. Il “nuovo”, l’uscire dai canali abituali non viene capito. Forse perché mancano le basi per comprenderlo. È tutto così banalmente semplificato, le complicazioni mettono paura, non trovi?
«Sono stato pochi giorni fa in Belgio perché mio figlio s’è laureato in chitarra jazz al Conservatorio Reale di Bruxelles. Lì mi sono ascoltato tutte le tesi. Lo studio della musica elettronica anche per chi ha scelto jazz è obbligatorio. C’è una varietà di sonorità, di sperimentazioni soprattutto nelle nuove generazioni che è incredibile. Infatti, attingo a mani basse da giovani musicisti sia in Europa sia negli Stati Uniti. Ci sono un sacco di proposte interessanti».
I ragazzi giustamente vanno a studiare in questi conservatori e poi rimangono all’estero…
«Mio figlio ha deciso di fermarsi lì. Ha finito il master addirittura due anni prima ed è considerato uno dei talenti della chitarra jazz. Lì avrà di sicuro più opportunità».
Perché?
«Intanto perché c’è un’impostazione dei Governi volta a sostenere queste attività in maniera più efficace. Se ascolti una tesi di un conservatorio italiano ti rendi che conta che, quasi quasi, ha più importanza il bidello del giovane musicista. Fuori dai confini, invece, percepisci una professionalità immediata: a disposizione dei ragazzi che sostengono la tesi ci sono dei professionisti che ti registrano il video e il disco, percepisci che c’è un investimento di risorse con un livello di organizzazione predominante. Stesso discorso per come ricercano gli insegnanti a certi livelli. Devi essere bravo, prima di contrattarti vogliono sentire quello che fai. In Italia devi essere per lo più fortunato. Lì c’è uno standard di qualità che si riverbera su tutto. Lo studente è già trattato da professionista».
Insegni al Conservatorio?
«No, in un liceo musicale, ma solo per comodità perché ho sempre preferito stare vicino a casa piuttosto che girare i conservatori italiani. Ho vinto il concorso a 23 anni e sono sempre stato nel raggio di dieci chilometri da casa. Il dover trasferirmi solamente a Genova, sono appena cento chilometri da La Spezia, mi fa dire: “Ma chi me lo fa fare!”! Ammetto, pigrizia e comodità, alla fine è un discorso di qualità della vita. Per me ovviamente».
Veniamo al festival, da quanto tempo sei il direttore artistico?
«Sono quattro anni, dal 2020».
Qual è la tua impronta? Quest’anno ci sono tanti “outsider” del jazz, vedi Russell Crowe…
«Parto dalle mie frequentazioni internazionali. Non mi piace definire un genere, mettere in una scatola solo jazz, rock, pop, funk. Prendiamo la musica afroamericana, la base del jazz: nasce dalla mescolanza e dal confronto di tutte le culture che in quel momento facevano capo agli schiavi africani. Che cosa è accaduto perché questo genere nascesse? Quei popoli ridotti in schiavitù avevano i loro ritmi, la loro cultura, ma per compiacere chi li soggiogava per evitare ulteriori sofferenze, hanno cercato di renderli fruibili, mescolandoli con la musica d’estrazione classica, europea. Sto semplificando molto, ovviamente. È quello che è successo negli Stati Uniti, in Brasile in tutti i posti dove ci sono stati fenomeni di schiavitù. Tutto ciò ha portato a un nuovo modo di concepire la musica, a creare nuovi generi, a partire dal Blues. Dare oggi una rappresentazione di cosa sia successo nella musica partendo da quella genesi è fondamentale. È necessario uno sguardo rivolto alla tradizione (che poi è stata chiamata jazz), ma altrettanto importante è anche capire come questa “fusion” abbia condizionato tutti i generi musicali».
Quindi anche Russell Crowe fa parte di quell’anima afroamericana da cui deriva tutto?
«Sì, anche lui ha questa matrice, viene da questa storia, che poi è stata declinata in una maniera diversa, chiamiamola più pop. Però secondo me è interessante».
Il festival lo costruisci ogni anno partendo da queste basi?
«È il mio modo di operare: vedere cosa c’è in giro, capire quali sono le cose che possono destare curiosità e costruire, sulla base di queste intuizioni, un programma che possa raccogliere consensi del pubblico».
Spingerti sui giovani è sempre un rischio per i festival?
«Bisogna fare sempre a attenzione a quelli che sono “i luoghi”. Noi abbiamo una piazza molto grande dove trovano posto quasi mille spettatori, abbiamo dunque la necessità di avere musicisti che siano in grado di reggerla. Mi piacerebbe poter avere un festival diffuso con location anche più piccole dove far suonare musicisti emergenti. Far suonare musicisti poco noti in una piazza da mille posti non rende loro un buon servizio. È fondamentale capire il contenitore in cui stai programmando. Se se in una piazza grande dove c’è un grande flusso turistico è quasi d’obbligo avere un tipo di programmazione riconoscibile, le sperimentazioni andrebbero invece costruite in un contesto più protetto».
Ultima annotazione: i prezzi dei concerti mi sembrano più che ragionevoli…
«Cerchiamo di lavorare perché ci sia il maggior coinvolgimento possibile del pubblico, abbiamo previsto anche un ingresso studenti a 5 euro».
Il famoso prezzo politico!
«È giusto, sia per i giovani che si avvicinano a sonorità diverse da quelle che ascoltano oggi, sia soprattutto per chi studia in un liceo musicale o al conservatorio: in questo caso va visto come un importante step nel percorso formativo».