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Luigi Grechi De Gregori – Foto Lucia Carenini
Tra poco meno di sei ore salirà il sipario sulla 75esima edizione del Festival di Sanremo. Comunque la si veda tutti più o meno, una sbirciatina dentro l’Ariston la daranno. Ormai sfiancati da una musica sfrontatamente commerciale e sempre uguale a se stessa le aspettative di un qualcosa di diverso, che rompa gli schemi, sono minime. Pronto e ben disposto a essere smentito! Sempre alla stessa ora, le 21, questa sera a Roma salirà un altro sipario, quello di Noi non ci Sanremo, a L’Asino che Vola, famoso club capitolino. L’organizzatore è Luigi Grechi De Gregori, sì, proprio il lui, il fratello maggiore di Francesco, l’autore, tra le tante sue composizioni, de Il Bandito e il Campione, pezzo che Francesco ha portato alla notorietà.
Artista libero, cantautore prezioso, amante del folk americano, instancabile viaggiatore, tre anni fa s’è inventato questo format che vuol essere, «una manifestazione garbatamente alternativa al festival di Sanremo», come la definisce. Una provocazione senza provocazione, piuttosto un invito a far riflettere con l’intento di guardare al mercato musicale con altri occhi. Va bene la musica commerciale, ma devono convivere anche gli autori non mainstream, gente seria e preparata che propone musica dal vivo. E, siccome i club in Italia ormai si contano sulle dita di una mano, in un momento di musica streaming e Intelligenza Artificiale, Noi non ci Sanremo diventa il modo per accendere un faro sull’arte e la musica nel nostro Paese.
Noi non ci Sanremo compie tre anni di vita. Un’iniziativa volta a far conoscere la musica d’autore al di là della musica commerciale sempre autoreferenziale?
«Mi fa piacere sentire che quello che penso viene condiviso da sempre più persone! Prima un po’ di storia: siamo presenti a L’Asino che Vola da 11 anni. Fui incaricato da Giancarlo Cesaroni, ultimo patron del Folkstudio, di organizzare, come direttore artistico, la domenica pomeriggio riservata ai giovani del Folkstudio, visto che lui andava a far correre i suoi cavalli all’ippodromo. Poi Giancarlo è morto, il locale è stato chiuso. Avendo sposato Daniela, la sua collaboratrice più stretta, abbiamo deciso di riaprire questa tradizione con un giorno a settimana, il martedì, a L’Asino che Vola, un bellissimo locale di Roma. E coincidendo con la data del primo giorno di Sanremo, ci è venuto in mente di creare Noi non ci Sanremo, in garbata polemica con il Festival, che ha avuto anche i suoi momenti gloriosi».
Infatti, all’inizio era il Festival della canzone italiana…
«C’erano solo tre cantanti che interpretavano i brani, era un festival degli autori, presentava uno speaker che, con voce bassa, intonata, radiofonica, annunciava il titolo della canzone, il suo autore, l’orchestra, il direttore d’orchestra e quindi il nome del/della cantante. Via via questo significato s’è perso, oggi non si sa nemmeno chi siano gli autori dei brani. C’è una messa in ombra degli autori che invece dovrebbero essere considerati con maggiore attenzione, e questo è uno dei motivi per cui ce l’ho sempre garbatamente con Sanremo. E poi, secondo motivo: è diventato un carrozzone che ognuno di noi sovvenziona ogni anno».
Venendo a Noi non ci Sanremo: stasera ci saranno tanti artisti da presentare…
«Non abbiamo i fondi del Festival però propongo una quindicina di cantautori di area per lo più romana, tutti bravissimi, persone non scodinzolanti dietro ai premi e ai festival, che hanno comunque tutti vinto qualcosa – oggi è difficile non vincere qualche premio in qualche rassegna – sono artisti che non strizzano l’occhio alla musica commerciale e sono felici di esibirsi davanti a un pubblico più ristretto, attento, interessato e silenzioso. Per me è una bella soddisfazione: abbiamo trasformato il martedì in un sabato, negli anni il pubblico s’è educato ad ascoltare con una certa attenzione. Oltretutto l’andazzo della musica italiana porta a rendere le persone così disattente, durante i grossi eventi si muovono, fotografano, registrano. Mi domando: a cosa serve andare a un concerto se non te lo godi?».
Sono d’accordo, devi vivere il momento…
«La canzone d’autore nasce in locali ristretti, i più grandi hanno le dimensioni di un teatro concepito per la musica, come la Scala o più piccoli, progettati da un architetto di Foligno, dove abito, che si chiamava Giuseppe Piermarini che inventò questo modello di teatro. A Bevagna, dove ho abitato, ce n’è uno da cento posti, fatto come la Scala, ed è la dimensione che acusticamente risponde meglio al canto. Quindi, secondo me la canzone, che deve mettere in luce il testo, le parole, la storia che racconta, non può essere goduta più che da qualche centinaio di persone. Ecco, quello è il pubblico ideale. Il Folkstudio, dove ho cominciato a fruire della musica, conteneva 50 persone, se si stringevano arrivavano a 80. Stavano tutte in silenzio come se fossero a messa. E lì è nata la canzone d’autore romana. Lì ho messo sul palco per la prima volta mio fratello Francesco, che ha sette anni meno di me, allora era giovanissimo. Lì ho sentito Antonello Venditti, Stefano Rosso, Giorgio Lo Cascio, Mimmo Locasciulli, Rino Gaetano… era la fucina della scuola romana dei cantautori e il pubblico era limitato. Ogni tanto si affittava un teatro esterno per gli eventi più grossi, ma erano teatri come l’Olimpico a Roma al massimo da mille posti».
Perché siamo arrivati a una musica così superficiale, deve essere scritta in base a dei canoni che fanno vendere…
«Esatto, dietro a tutte le cose c’è l’economia, giustamente funziona così anche l’arte ha il suo mercato, ma una volta questo era dominato da persone che avevano sì l’obiettivo di guadagnare, si chiamavano Ricordi, Melis, insomma i discografici allora conoscevano bene la merce che vendevano. Oggi invece i gestori delle grosse case discografiche sono o dovrebbero essere, degli esperti di marketing e basta, poi è indifferente quello che vendono».
Non esistono più i talenti scout…
«Vero, al loro posto esistono i corsi dove si insegna – secondo loro – a scrivere canzoni, mentre per scrivere bisogna prima imparare a leggere… Insomma è tutta una catena di meccanismi sbagliati che portano a questa situazione. Mentre io girando l’Italia prima per suonare e poi per mio piacere ho incontrato tantissimi cantautori che valgono la pena d’essere ascoltati, che hanno cose da dire e che fanno però un altro mestiere non sono professionisti della musica, sono dilettanti ma con la D maiuscola, che sanno scrivere, eccome! Ogni tanto questi due mondi si incontrano, è il caso di quest’edizione di Sanremo dove si esibisce un certo Lucio Corsi che ho avuto la fortuna di portare a suonare per giovani del Folkstudio l’estate dello scorso anno. Esistono per fortuna dei personaggi che uniscono questi due mondi».
C’è anche Brunori quest’anno!
«Sì, non ascolto quelli che sono sulla cresta dell’onda, ma la nicchia, so che di Brunori si parla molto… ho dei criteri molto rigidi e fortunatamente facciamo una sola serata al mese, perché se fosse una a settimana mi troverei in imbarazzo su chi far cantare. Non ho dei criteri che si possono spiegare facilmente, dovrei scrivere un libro sulla canzone d’autore, ma una volta ce n’erano di più, per radio, nei media c’erano personaggi come Carosone, Buscaglione, cantanti e scrittori di canzoni che facevano dei veri successi, Oggi le classifiche sono dominate da pezzi che mi sembrano l’elenco della spesa».
È un guaio. La musica intercetta la società, e qui siamo arrivati!
«In Italia non esistono i luoghi fisici dove ascoltare della musica spontanea, che sarebbero i locali, i pub, e spesso si esibiscono musicisti che fanno cover, la gente neanche si accorge che ci sono persone vive a suonare, non fanno attenzione a chi suona ma alla musica. Questo genere di locali non ci sono quasi più perché costano troppo, con le leggi di oggi a un gestore di un locale costa molto meno far ubriacare la gente che proporre musica».
Niente club, si fa largo la musica in streaming…
«Sì, social che poi, attenzione!, per avere tanti ascolti basta passare, pagando, per alcune ditte che, con trucchi informatici o persone fisiche che magari stanno in Cina chiuse dentro un capannone a schiacciare bottoni, si decide su chi puntare… E poi stanno arrivando “le musiche artificiali”… Per questi motivi credo che ci sarà ancora di più una rivalutazione dell’ascolto della musica dal vivo. Diventerà merce rara, preziosa e tornerà a essere ascoltata con venerazione da pochi, magari».
Sono rimasti praticamente solo i jazz club…
«La musica Classica sta andando benissimo, per esempio. Perché, non essendo la leggera un obiettivo gradevole, ci si rivolge ad altro. È un pubblico abituato ad ascoltare in gran silenzio, con attenzione, sa valutare la bravura dei musicisti. Quindi è senz’altro più soddisfacente andare a sentire un concerto a Santa Cecilia che un evento di ventimila persone».
Non ci resta che aspettare tempi migliori e magari, da convinto musicista live quale sei sempre stato, sperare in una nuova vita per la musica dal vivo…
«Lo spero, perché si può guadagnare bene anche vendendo buona merce!».