Inizia oggi e fino a domenica 6 ottobre a Faenza (Ravenna) il Mei, il Meeting delle etichette indipendenti (info e programma a questo link). Sottotitolo: tre giorni di concerti, forum, convegni, fiere e mostre nelle principali piazze della città, la più importante rassegna della musica indipendente ed emergente italiana, ideata e coordinata da Giordano Sangiorgi. Sangiorgi è il “patron” della musica Indie italiana. In questi ultimi anni non ha esitato ad esprimere Tuttle le sue perplessità senza mezzi termini sulla necessità di liberarsi dai gioghi della musica streaming retta da una creme di signori digitali che alla qualità e alla cultura preferiscono la moneta frusciante e per farlo propongono una musica di facile presa, masticando e sputando i presunti artisti in una pazza corsa all’imbarbarimento musicale.
Ho sentito Il fondatore del Mei per fare il punto sulla situazione attuale del mercato musicale italiano e internazionale, abbiamo parlato di musica e musicisti, di algoritmi e monopoli, di musica popolare e… di Liscio!
Evoluzione del mercato e della musica italiana. Non trovi sia una discesa agli inferi?
«Credo che tutto ciò sia stata una scelta di mercato molto chiara e precisa delle multinazionali: quando la scena indipendente, con il supporto fisico circa 25 anni fa, è riuscita a entrare nel mercato commerciale (quindi senza alcun compromesso e senza dover passare da loro), e a far distribuire il mainstream nelle classiche ufficiali delle produzioni indipendenti, portandole addirittura in testa alle classifiche, il cambiamento del digitale è stato fondamentale per le multinazionali che hanno potuto concentrare in poche piattaforme non solo un mercato nazionale ma uno internazionale, omologando il mercato e i gusti. Tant’è che oggi ci troviamo di fronte a piattaforme che compiono un abuso di potere dominante abbastanza evidente: non ci sono concorrenti, visto che manipolano attraverso gli algoritmi orientando un certo modello di consumo che è quello di canzonette che costano pochissimo, fanno ottenere il massimo profitto e sono continuamente intercambiabili, espellendo da questo mercato tutti coloro che, invece, fanno musica di ricerca e di innovazione».
Una discesa programmata…
«Orientata dall’alto. C’è una narrazione che ci dice che tutti i giovani oggi fanno un certo tipo di modelli di canzone, la trap per capirci, ma non è assolutamente vero. Ogni volta che partecipo a un festival, a un contest, a una sfida tra gruppi di artisti di base, quelli che fanno rap o trap li conti sulla punta delle dita. Ci sono cinque donne su 100 nelle top 100 delle classifiche italiane, ma quando vado a fare i contest c’è almeno un 40 per cento di donne. Non ci sono più le rock band nella classifiche perché la major hanno stabilito che costano troppo, mentre, invece, è più facile gestire i singoli. Nei contest, invece, almeno la metà di quegli iscritti sono rock band, una delle forme tornata più in auge tra i giovani. È evidente che ci troviamo di fronte a una manipolazione dall’alto di un mercato che è più facile da influenzare, visto che il digitale è in mano a grandi concentrazioni multinazionali e monopoliste. L’unica salvezza di un mercato che invece vuole fare cultura con la musica è quella di crearsi strade alternative, com’è stato con il supporto fisico trent’anni fa, ma ciò può avvenire solo se c’è l’appoggio degli enti che sostengono il patrimonio culturale di un Paese, dal ministero della Cultura alle Regioni ai piccoli comuni, ma con un grande ruolo anche dell’Unione Europea che deve limitare il dominio di queste piattaforme digitali».
Cosa rappresenta il Liscio oggi?
«Il Liscio è il punk odierno. È la musica fatta dai giovani che studiano canto, sanno suonare gli strumenti, lo fanno con passione, sacrificio e competenza, imparando i grandi brani evergreen. Giovani che sono totalmente contro il modello mainstream commerciale ufficiale attuale che presuppone artisti che non sanno né cantare, né suonare, dove si fa tutto con basi banali, testi banali che durano al massimo due minuti dove i musicisti sono espulsi. Il Liscio contro il sistema musicale delle multinazionali, che fa solo musica di intrattenimento».
In effetti il mainstream è solo intrattenimento!
«Siamo di fronte in modo evidente a due mercati musicali: uno è la “musica da villaggio vacanze” che ha la sua dignità, è giusto che esista ed è quella dove ci si ritrova filmandosi con gli smartphone e si cantano le canzoni tutti insieme in coro. L’altro, l’80 per cento, è la musica prodotta dagli artisti indipendenti ed emergenti della scena nazionale dei nostri paesi».
Nel paese reale cosa sta succedendo alla musica italiana?
«Purtroppo il virtuale è, oggi, il paese reale».
Mettiamola così: nel Paese reale ci sono tanti bravi musicisti, giovani straordinari…
«Come accennavo prima, c’è un grosso movimento di giovani che formano rock band perché hanno riscoperto i pionieri del Rock e si rifanno a loro, c’è anche un movimento di cantautrici eccezionale che sta portando una grande ventata di novità nel mercato musicale. E ancora, c’è un grande ritorno in molte aree regionali di giovani che si riappropriano delle musiche dei territori. Diciamo che in un certo senso la vitalità c’è, ma non interessa in alcun modo alle piattaforme digitali che sono quelle che dettano legge e assegnano dischi di platino come se fossero caffè al bar».
Come stanno le etichette musicali indipendenti?
«Quelle che hanno resistito – e oggi ce l’hanno fatta – sono uno step indispensabile per la crescita di un artista emergente. Sono delle crew di tre persone al massimo che ti danno quella professionalizzazione che tu, come artista, se hai 18, 20 anni e sei bravo, riesci a emozionare e hai delle cose da dire, naturalmente non conosci, come per esempio entrare nel mercato dei live, esibirti in regola e metterti a posto con il sistema dei diritti. E ancora, consigliano in che modo poterti fare conoscere attraverso i social media, poter partecipare a festival, quale il percorso migliore da fare per te… Diciamo che che quelli che lavorano positivamente – ci sono anche etichette storiche che si sono modificate in questa nuova veste – hanno fatto e fanno un lavoro importante, perché permettono all’artista di affermarsi. Il problema è che non ci sono le risorse adeguate per la filiera, mentre una volta c’erano. Lo dichiara il fatto che le piattaforme di streaming digitale hanno fatto un’indagine dichiarando con una certa baldanza che sono ben 1500 gli artisti italiani che fatturano col digitale oltre 10mila euro. Ovviamente l’anno e lordi: si parla di artisti, autori di testi e musica, editori, produttori, realizzatori di video clip, promoter, organizzatori live, uffici stampa… una paga da fame! Purtroppo il tema è che si fa fatica ad avere queste crew perché difficilmente si trovano le risorse per poterle avere e far crescere un artista. Ecco perché molti tentano la scorciatoia di arrivare direttamente alle major, facendo un passaggio verticale«.
Quante etichette indipendenti si contano in Italia?
«Uno degli ultimi database di produzioni che ho visto della Siae, parla di diecimila produzioni in un anno. Quindi, secondo me, tenendo per buona questa cifra, possiamo parlare di circa 2000 marchi indipendenti, a occhio e croce. Questo perché oggi, essendoci un mercato non più fisico ma anche digitale, si fa più fatica a monitorare qual è la realtà e poi queste etichette sono molto dinamiche, nascono e muoiono nel giro di un breve periodo. Comunque penso che siano legate solo all’uscita di un artista».
Le etichette indipendenti usano ancora i vecchi metodi dei Talent Scout?
«Sì, quelle serie che ti fanno fare un salto di qualità fanno scouting, ascoltano in modo serio, vanno in giro, frequentano festival e contest, magari gli capita di farlo perché sono in giro con l’artista principale, però utilizzano questo metodo, non lo fanno solo ed esclusivamente on line».
Oltre alle rock band e al cantautorato femminile di cui accennavi prima cosa si sta muovendo in Italia?
«La musica popolare è il terzo braccio che vedo tornare vitale e che ripropone alcune cose interessanti che attrae una nicchia della nuova generazione».
Nel mio piccolo osservatorio di musica not mainstream incontro parecchi artisti che percorrono questo genere…
«Sì confermo, e io sto lavorando su questi infatti!».
Quanto ha influito il Mei su questa diffusione attraverso i premi?
«Sicuramente molto nella prima fase, perché col mercato fisico addirittura i premi permettevano che si vendessero tantissime copie di dischi. Oggi con il digitale il ruolo è drasticamente ridimensionato dal punto di vista economico ma è ancora più importante da quello del messaggio: in un mercato mainstream della globalizzazione omologante come questo, dove la musica europea è in mano a quattro grandi marchi della multinazionale social come Spotify, YouTube, Instagram e Facebook e che questi determinano i consumi e gli orientamenti di questo settore, sapere che ancora esiste un presidio come questo, sicuramente dà un segno di speranza per chi si muove in questo campo. È una resistenza all’omologazione. Quest’anno ho seguito il progetto dei Santa Balera, diciottenni che hanno portato a Sanremo il suono originale di Romagna Mia di 70 anni fa, per omaggiarla. Hanno fatto un tour iniziato il primo maggio che termina stasera, circa 50 date tutte con un sacco di gente: hanno registrato più 30mila spettatori. Questo è un segno di ottimismo, con ciò non possiamo certo dire che il mercato non sia preoccupante, ma è comunque indice di speranza».