Oportet 475, la ricerca estrema di Ze in the Clouds

La scansione della vita di un uomo tradotta in suono. Tristezza allegria, depressione eccitazione, incubi sogni, lavoro ozio, giovinezza vecchiaia. Per tutti questi opposti che convivono in ognuno di noi c’è un suono che può diventare angelica melodia o secco rumore, o entrambi contemporaneamente. Riflessioni che si impongono all’ascolto di Oportet 475 di Ze in the Clouds uscito lo scorso 27 gennaio. Dietro il moniker si cela un ragazzo di 23 anni, Giuseppe Vitale di Mortara, provincia di Pavia. Il disco è uscito per la Tŭk Music, etichetta di Paolo Fresu (il musicista è presente anche in un brano, Fame Usque Mortem assieme a Uri Caine), e già solo questo impone un ascolto attento del lavoro.

Tredici brani dove gli ossimori della vita vengono “tradotti” in musica. La scansione umana viene sottolineata con interruzioni, rimarcata con forza e interrotta da scariche di noise che cambiano l’ascolto. E spesso sono fulmini senza gentilezza, com’è la vita. Il suono diventa melodia attraverso un piano acustico per trasformarsi in rumore e atterrare in tappeti di pad o di archi sinfonici, merito anche della produzione affidata a LNDFK, Linda Feki, musicista italo-tunisina che lo scorso anno, proprio in questo periodo, ha pubblicato un interessantissimo disco intitolato Kuni, del quale vi consiglio l’ascolto.

In Oportet 475 tutto si tiene in un apparente disordine creativo. Attimi sublimi di interpretazione concertistica e altri di puro inferno dove le lacerazioni si avvertono fisiche. Un percorso nella storia della musica erudita che parte da Carlo Gesualdo principe di Venosa, nipote del cardinale Carlo Borromeo, madrigalista e omicida (uccise la moglie e il di lei amante) quello che Franco Battiato nella sua omonima Gesualdo da Venosa dall’album L’ombrello e la macchina da cucire, cantava I madrigali di Gesualdo, principe di Venosa/ Musicista assassino della sposa/ Cosa importa?/ Scocca la sua nota/ Dolce come rosa, come rosa, alle fughe di Bach alle sinfonie di Beethoven.

Un disco che va “letto” molte volte e che si svela a ogni ascolto. Buffering Poem richiama i “disturbi elettronici” che tanto piacciono alla tunisina Emel Mathlouthi, una delle mie artiste preferite (ascoltate Houdou’on), la stessa Fame Usque Mortem dove la tromba di Fresu e il Fender Rhodes di Uri Caine vengono rielaborati, volutamente distorti, interrotti, suoni distopici, deliri semicoscienti, cortocircuiti cerebrali in contrasto con i battiti sussultanti di un cuore senza più energie… decostruire il suono di tromba e piano per renderli altro da sé… Mortara – una catena di gesti appiattiti e monodimensionali, in appena 43 secondi di brano riesce a citare i Jethro Tull nella famosa Bourée e lo stesso Bach (Suite per liuto n° 1 BWV 996), da cui Anderson aveva ricamato uno dei brani più importanti del prog fine anni Sessanta.

I dualismi, dunque, convivono e rafforzano questo lavoro che viene “riassunto” in contemporary jazz, ma che in realtà è molto di più. Un disco particolarmente interessante, poetico, provocante, intimista. L’ho salutato con piacere perché, in un periodo ormai troppo lungo dove la complessità è vista come una bestemmia, Sanremo docet, e la semplicità è una falce che tutto pareggia, la musica di Ze è una finestra che si apre all’improvviso grazie a un folata di vento.

Al disco oltre a Zen e LNDFK e ai già citati interventi di Fresu e Caine hanno partecipato due batteristi, Edoardo Battaglia e Gianluca Pellerito, e il chitarrista Francesco Fabiani. Vitale è stato coadiuvato dal producer e fonico Suorcristona, mentre il mix è di Dario Bassolino e il mastering di Kelly Hibbert.

Detto ciò, Giuseppe, veniamo a noi: disco complesso…
«È musica in esplorazione. Mio padre mi ha dato una formazione culturale e musicale solida, mi ha iniziato all’arte, alla scultura greca, alla musica, mi sono appassionato agli Steely Dan, ai Beatles, a Steve Wonder».

Hai fatto questo disco con Linda Feki, artista che trovo originale oltre che brava!
«Con Linda condivido la passione per un certo tipo di visione dell’arte. Di base lei funge da filtro su tutto quello che esce dalla mia testa».

Sei un creativo compulsivo?
«Ho sempre amato l’arte, disegnare, andare al cinema, ascoltare musica. A 14 anni mi sono focalizzato sullo studio della musica. Ho studiato per tre anni con Stefano Bagnoli (batterista jazz), Paolo Fresu mi ha insegnato un sacco. Con Stefano abbiamo suonato in trio, io pianoforte e tastiere, lui batteria e Stefano Zambon contrabbasso. Abbiamo inciso anche due dischi, Brakeless e Dali come We Kids Trio nel 2019. In tutto questo non so leggere la musica, non ho mai imparato».

Suoni seguendo il tuo istinto?
«Beh, sì di base suono quello che mi fa stare bene. Poi capirò strada facendo. Sono uno che ha difficoltà a relazionarsi con gli altri, soprattutto dove vivo. Soffro la massa, stare tra la gente. Sono perennemente in lockdown!».

Sei un pianista?
«Sono anche un pianista. Compongo, arrangio, produco».

Perché Ze in the Clouds?
«Zé Pequeno era un bandito protagonista di Cidade de Deus, bellissimo film brasiliano. Era uno che si faceva rispettare. E poi Zé in portoghese è il diminutivo di Giuseppe. Mi ha sempre protetto chiamarmi così. In The Clouds perché vivo nel mio mondo».

Parliamo di Oportet 475, dentro c’è un compendio di musica.
«Di base mi sono ispirato a Beethoven, ma anche a Gesualdo da Venosa che mi ha fatto conoscere un amico fraterno: lui era più avanti di tutti, un grande musicista… È un passaggio tra varie epoche musicali filtrate da quello che ho vissuto».

Nel disco hai anche la collaborazione di Fresu e Caine…
«Paolo mi ha dato carta bianca, non mi ha messo alcun paletto. Mi hanno mandato il brano, che ho stravolto totalmente».

Quello che mi ha stupito è che un giovane di 23 anni abbia deciso di pubblicare un disco così difficile…
«Fare musica seguendo il mainstream non serve proprio. Bisogna fare ricerca estrema mi rendo conto che il mercato non è fatto per persone come me. Siamo in un’epoca scura. Abbiamo bisogno di un nuovo Rinascimento!».