Loris Al Raimondi: l’hip hop, Mike Stern e un disco per raccontare

Seguendo i lunghi sentieri della musica, mi sono imbattuto in un italo svizzero, Loris Al Raimondi. Quarantotto anni, vive nella parte tedesca, a Goldau, nel Canton Svitto. A fine gennaio ha pubblicato un disco interessante per molte ragioni, Passing Through Emotions. Innanzitutto per il sound, una interessante fusion tra jazz, beat hip hop, funk; e poi per il nutrito parterre di partecipazioni che ne hanno fatto un’opera sui generis. Loris viene dall’hip hop, da oltre vent’anni crea basi per artisti (svizzeri e internazionali), ed è la dimostrazione che nel linguaggio musicale, la raffinatezza, quel groove che ti entra lentamente e ti attrae, o ce l’hai o nessun conservatorio te lo insegna.

Collaborazioni illustri, grossi nomi del jazz e della musica in generale, da Mike Stern, a Nir Felder a Fabrizio Sotti (di lui ne parlai un paio d’anni fa…), tutti chitarristi di calibro; Alfredo Paixão, Gary Willis, Massimo Biolcati, bassisti, il primo brasiliano con residenza a Palermo, il secondo assieme a Scott Henderson fondò negli anni Ottanta i Tribal Tech, gruppo fusion d’avanguardia, il terzo, italo-svedese che suona in trio con Lionel Loueke e Ferenc Nemeth nei Gilfema. E ancora Kevin Field, Tom Tennedy, Ettore Carucci, Michel Cusson, Tony Grey, l’armonicista Giuseppe Milici

Passione, tenacia, intraprendenza sono le tre parole che hanno portato alla luce questo lavoro, che ricorda molto i grandi gruppi degli anni Settanta e Ottanta, quando la Fusion diventò un genere preciso, l’incontro “ufficiale” tra jazz, funk e rock. Dunque, tappeti vellutati di synth e  praterie sconfinate dove far decollare assoli di chitarra in congiunzione astrale con spericolate evoluzioni del basso, magie in movimento. Un mondo onirico che si ritrova oggi nei beat hip hop tanto cari a Raimondi. La musica come protagonista assoluta, non fredda compartecipe. E fin qui ci siamo.

Ma l’operazione di Loris non si è fermata a questo. Dalla sua casa di Goldau, seduto sulla sua poltrona di lavoro dove spende notti e notti è riuscito in una magia: coinvolgere i suoi artisti preferiti nel progetto. Un’avventurosa e meticolosa ricerca durata un paio d’anni, senza mai cedere un solo minuto. Conosciuti a un concerto da spettatore o attraverso occasioni fortunate via mail, ha inviato a tutti le basi del suo progetto chiedendo di lasciare il loro apporto esattamente dove lui aveva previsto ci fosse. Ecco il perché dei vari chitarristi, bassisti, pianisti e di un armonicista, Giuseppe Milici, messo insieme al bassista Gary Willis, due generazioni, due mondi distanti che hanno trovato una sintesi in The First Emotion 273. O come, in No One Dies Forever, brano che chiude il disco, dove Mike Stern alla chitarra, Alfredo Paixão al basso e Kevin Field al piano riescono a produrre una vera magia. Loris come un direttore d’orchestra, anzi, lui specifica, come un «allenatore di calcio!», ha messo in campo i suoi campioni giocando una finale di coppa del mondo…

È un racconto che vale la pena di leggere. Mettetevi comodi…

Un disco davvero interessante, per la qualità musicale ma anche anche per i musicisti che vi hanno partecipato. Fabrizio Sotti l’avevo intervistato un paio d’anni fa…
«Proprio Fabrizio mi ha dato una grande spinta. Mi ha fatto capire che, se hai la passione e la pazienza, arrivi dove vuoi, non importa quando!».

Lo conosci da molto?
«Come artista sì, lo ascoltavo da tempo. Per questo l’ho contattato spiegandogli il progetto. Mi ha chiesto di inviargli alcune demo. Dopo avermi studiato per bene ha aderito al progetto con entusiasmo. Con lui oggi è nata un’amicizia, ci sentiamo tutte le settimane. Abbiamo scoperto di avere passioni musicali in comune, come l’hip hop…».

Raccontami di te e del tuo amore incondizionato per la musica…
«Sono nato nel 1973. Da bambino, fino a sette anni circa, sono rimasto in Italia con i miei nonni, mi sento abruzzese (la mamma lo è), mentre papà è lucano. Poi ho raggiunto i miei genitori in Svizzera dove erano emigrati per lavoro. Ho resettato tutto quello che avevo imparato in Italia e ho iniziato a frequentare le scuole, la mia lingua madre è diventata il tedesco, anche se l’italiano lo parlo, non benisssimo, da uno che non l’ha studiato! Mi ricordo che da bambino, in Abruzzo, passavo le ore ad ascoltare musica su un mangiadischi, seduto in strada. In Svizzera, mio fratello di cinque anni più vecchio di me, anche lui appassionato di musica, aveva ricevuto una chitarra elettrica in dono da un insegnante, un rockettaro. Lui non sapeva come suonarla e nemmeno io…».

I tuoi genitori si erano resi conto del vostro amore per la musica?
«In casa c’erano delle priorità: i miei erano emigrati con il solo pensiero di lavorare, risparmiare, costruire una casa, darci un futuro, dunque non hanno capito davvero la nostra passione. Così, ci siamo arrangiati iniziando a mixare con vinili e cassette gli artisti che ascoltavamo, Matt Bianco, Shade, Bronski Beat, Depeche Mode. Da bambino e adolescente vivevo di calcio e musica. Sentivo, forte, il desiderio di creare qualcosa ma mi rendevo conto che non avevo nessuna possibilità, perché di musica non sapevo nulla. Sono andato avanti così per anni».

Poi cos’è successo?
«A fine anni Ottanta, dopo la morte di mio fratello (aveva 17 anni quando se ne andò), in Italia su Raidue una sera a D.O.C. Club, il programma presentato da Renzo Arbore, Gegè Telesforo e Monica Nannini, sono rimasto letteralmente colpito da Toots Thielemans con la sua armonica a bocca, in quartetto con Bruno Castellucci alla batteria, Michel Herr al piano Fender e Michel Hatzigeorgiou al basso. Che musica pazzesca, meravigliosa! Ho, dunque, deciso di ampliare i miei ascolti e dedicarmi alla scoperta del jazz iniziando con Charlie Parker, Dizzy Gillespie, Billie Holiday, il Modern Jazz Quartet. All’inizio ho fatto fatica a capire, ma poi, quando trovi il codice per ascoltare, vai avanti. Quindi, sono passato al jazz rock: Mike Stern, mi faceva impazzire».

Quindi hai deciso di studiare musica?
«Una volta finiti i miei studi di tipografo, avrei voluto dedicarmi alla chitarra jazz, ma papà mi disse: “Loris, con la musica non si guadagna, devi lavorare, fare quello per cui hai studiato”. Così, per aiutare papà ho lasciato perdere, ma per sopperire a questo desiderio, ho cercato di fare musica arrangiandomi: poco per volta mi sono comprato il materiale necessario, qualche drum machine…  Nei primi anni Duemila sono riuscito a produrre dei release per i miei MC fino a quando non m’è venuta la crisi di mezza età e ho deciso che dovevo fare i conti con la musica e la mia vita».

Come?
«Facendo un disco!».

Dunque l’album raccoglie tutto quello che è stato il tuo percorso artistico e di vita? Paura d’invecchiare?
«No, è nato tutto con il Covid: a casa in quarantena correvo sul tapis roulant, di fronte, appeso alla parete, fissavo un quadro di Jon Van Zyle, raffigurante tre lupi in un paesaggio invernale dell’Alaska, vicino a una casa riscaldata. L’artista l’aveva chiamato Passing Through. Ho iniziato a pensare alla mia vita. Cosa mi rimane di tutto quello che ho fatto finora?, riflettevo. La musica mi ha sempre aiutato nei momenti belli e tristi, lo ha fatto anche quando è morto mio fratello… mi passavano per la testa tante emozioni che, in qualche modo volevo mettere insieme. Così è nata l’idea di racchiudere in un disco tutto quello che avevo vissuto, chiedendo l’aiuto ai musicisti che  erano una parte di me perché li ascoltavo da anni».

Come hai contattato Mike Stern?
«(ride, ndr). L’ho visto nel 2017 a Zurigo in concerto. Con lui suonava il bassista Tom Kennedy. Mike Stern era una leggenda, Tom Kennedy, invece, non l’avevo mai visto suonare dal vivo. Non sono riuscito a staccargli occhi di dosso. Pensavo: “Ma come cavolo può suonare in quel modo, fare cose così incredibili e stare sul palco con una faccia così tranquilla, serena, come se non fosse lui lì, al basso». Volevo a tutti i costi che Tom partecipasse al mio lavoro, Mike per me era irraggiungibile. Quando sono riuscito a coinvolgere Tom inviandogli il materiale, vista la confidenza, gli ho chiesto: “Tom, che chance ci sono di coinvolgere nel progetto anche Mike Stern?”. La sua risposta è stata una mail con l’indirizzo di posta elettronica di Stern. Non c’era scritto nient’altro!”».

Così non ti è rimasto che scrivere al mitico chitarrista…
«Esatto, una mail in cui mi presentavo, spiegavo il progetto e chi stava partecipando, con allegate le demo. Sono andato a dormire. All’una e mezza del mattino mi vibra il cellulare. Era un messaggio di Stern che iniziava così: Hi Loris I would love to do this! Mi spiegava che aveva bisogno di un ingegnere per fare il tutto, più altre cose tecniche. La notte successiva alle due mi suona il cellulare: era lui. Non ho avuto il coraggio di prendere la telefonata, sono andato in ansia. Mi sono dato del deficiente, gli ho inviato subito un messaggio e lui mi ha richiamato immediatamente. Voleva sapere come creavo i beat, gli interessava molto, gli ho parlato del brano No One Dies Forever, raccontandogli che era dedicato a mio fratello ma che voleva essere anche un messaggio di speranza, doveva celebrare la vita. Mi ha mandato un assolo da brividi».

Con quale criterio hai messo insieme i musicisti?
«Sono andato in base all’emozione che volevo comunicare. Li ho disposti come un allenatore di calcio. Dentro c’è anche il pianista Kevin Field, mi sono innamorato di un suo album Soundtology, del 2020 dove suonavano Nir Felder e Mike Moreno. Bellissimo, ogni brano è un capolavoro. È interessante far uscire, soprattutto i jazzisti, dal loro mondo, stanarli. È difficile per loro stare su quei beat molto hip hop. In After All There’s A Star, Mike Stern mi ha chiamato chiedendomi se la sua chitarra mi fosse piaciuta, altrimenti cambiava… Mettere Giuseppe Milici e Gary Willis insieme in The First Emotion 273 è stata una pazzia. Ma la sfida è proprio questa. E tutti i musicisti hanno capito le mie intenzioni e apprezzato il lavoro».

Componi usando vari strumenti?
«Sì ho sintetizzatori, chitarre…».

Quindi hai imparato a suonare?
«Non so suonare, non so leggere la musica, mi arrangio, parto dagli accordi, imbastisco la melodia, faccio le progressioni, creo gli arrangiamenti. Ma solo perché li ho tutti in testa non perché abbia studiato.  Quello che so fare è creare musica. Mi succede, forse, per la passione che ho coltivato fin da bambino. Così, prendo la chitarra o la tastiera e penso a cosa voglio comunicare. Poi butto delle base line, sintetizzatori o plug in, e compongo. In questo caso ho inviato il tutto agli artisti dicendo: tu intervieni qui, tu fai questo assolo, cercando di trasmettere quelle determinate sensazioni. Così è successo con Fabrizio Sotti, ma anche con Nir Felder, e con tutti gli altri».

Nessuno ti ha mandato a quel paese! Vuol dire che il progetto era interessante. Una curiosità, Felder lo conoscevi già?
«No, a Zurigo avevo invece conosciuto Massimo Biolcati durante il concerto dei Gilfema, il trio di Loueke, e siamo diventati amici. Con la famiglia sono andato a trovarlo a New York e lui mi ha invitato la sera ad ascoltare un suo concerto: suonava con Nir Felder. A Nir allora feci solo i complimenti… Poi ci siamo scritti, ha giudicato positivamente il mio progetto, ma essendo sempre occupatissimo, è stato difficile, i tempi si sono dilatati, comunque ha voluto esserci. Quella sera al concerto incontrai anche Matthew Garrison (il bassista americano che suonò con Pino Daniele, ndr). Mi avvicinai, gli feci i miei complimenti in inglese e lui mi rispose in italiano con un accento romanesco, ma perché me parli in inglese, Parliamo italiano, dai! Poi scoprì, dal braccialetto che portavo, che ero come lui un tifoso della Roma… finimmo la serata a bere chiacchierare di calcio, musica, Pino Daniele…».

Torniamo a Passing Through Emotions: l’hai mixato tutto tu?
«Sì è stata un’altra grande sfida. In alcuni brani mi ha aiutato Alfredo Paixão. Alfredo è una persona pazzesca, è talmente diretto… Mi ero appassionato a un suo album, Iris. Parlando del disco gli dissi che era un gran bel lavoro, almeno per me, anche se non ero al suo livello musicale. Mi rispose: “se hai capito quello che volevo trasmettere, allora siamo allo stesso livello!”».

Tutto fatto da casa tua?
«Sì, incredibile vero?»

Quanto tempo hai impiegato?
«Quasi due anni, perché non vivo di musica. Ho passato tante notti insonni, a lavorare».

Cosa ti aspetti dall’album?
«Premetto: voglio fare musica fino all’ultimo giorno della mia vita. Ho un’opportunità di farla anche attraverso BeatClub, sito che gestisce la produzione di beat in tutto il mondo. Sono entrato da poco come member, bella opportunità. Sto lavorando da un anno con Fabrizio Sotti per produzioni hip hop negli States. Questo disco è il mio manifesto, come intendo la musica, il mio biglietto da visita».

La tua famiglia cosa dice?
«I miei genitori hanno cominciato a capire che non era uno scherzo, quando hanno visto che mi chiamavano per interviste, interventi, ecc. Mia moglie mi ha sempre sostenuto, stiamo insieme da ragazzini, sono contenti».

E al lavoro?
«Sono nel mondo della grafica, hanno capito che è una faccenda seria per me, così il mio capo mi permette di prendere qualche giornata libera in più per dedicarmi alla musica».