I segreti di SirBone e dei suoi Mountain Sailors…

SirBone è Stefano Raggi, romano di nascita piemontese d’adozione

Oggi vi racconto, con l’aiuto del protagonista, una bella storia. Che ha i sentori dell’irrequietezza, dell’avventura, della riflessione. Il personaggio principale è un uomo che madre natura ha forgiato con un bel carattere, un solitario che ha cura degli amici, uno riservato che ama la compagnia, un amante perso per l’Odissea di Omero e la lingua inglese, iniziata a parlare da piccolo alle elementari… insomma, un gran bel tipo, d’altri tempi. 

È una storia che, ovviamente, ha a che fare con la musica. Per essere più dettagliati, il genere Americana, innesti di roots rock, di profondo blues, di country nostalgico. La musica può essere, e in questo caso lo è, il motore di tutto, la colonna sonora della propria vita, la ragione della propria esistenza. 

Al ritratto del nostro personaggio va aggiunto un altro dettaglio non da poco, una voce profonda, calda, che richiama bourbon e sigarette, serate e ballad ascoltate attorno a un fuoco. Una voce che ricorda l’incanto malinconico di Fabrizio de Andrè, ma anche la verve di Ray Wylie Hubbard e, soprattutto, la profondità di quel geniale bluesman che aveva il sacro fuoco nelle vene e il diavolo nelle corde vocali: John Lee Hooker. Boom Boom Boom Boom!

Stefano Raggi, 50 anni, romano, ha publicato il suo primo disco solista pochi giorni fa con il nome di SirBone and The Mountain Sailors. Questi ultimi sono i suoi compagni di viaggio. Lui, Ulisse, loro, i naviganti delle montagne, suoi amici e colleghi in questa incredibile avventura. Ve li presento: Gianmaria Giamma Pepi alla batteria, Davide Onida al basso, Roberto Bob Zisa alle chitarre, Andrea Dusty Ferazzi alla pedal steel, chitarre e mandolino.

Il titolo dell’album: Wicked Games. Un lavoro che ascolti tutto d’un fiato, quasi 37 minuti di atmosfere calde, dense, dove SirBone narra di giochi audaci (What you Say), di grovigli di spine, A Tangle of Thornes, che poi sono quegli intricati e pungenti della vita, delle confessioni di un bastardo (chissà mai chi sarà…), Confession of a Bastard, di una dolcissima ninnananna, Your Lullaby

Stefano, sei il protagonista di questa storia: quando ha avuto inizio?
«Praticamente in culla. Mia zia mi faceva da baby sitter. Allora aveva 17 anni e mi cantava in continuazione le canzoni dei Beatles e dei Bee Gees. Sono cresciuto ascoltando quelle melodie. Sarà per questo che la musica l’ho sempre concepita in lingua inglese, in italiano non ho ricordo di aver mai cantato…».

Un disco di Americana, con nuance mediterranee, un’evoluzione del genere?
«Amo il blues, il tex-mex, il country, sono una spugna che assorbe tutto. Non è stata una mia decisione, è questo genere che mi ha scelto. Fabio Ferraboschi, musicista e produttore, mi ha aiutato a editare il lavoro, registrato nei suoi Busker Studio, di Rubiera. Per il disco ho rispettato la mia filosofia di vita: tutto va come deve andare. Questo è il mio primo lavoro da solista, alcune canzoni sono nuove, altre le avevo già composte».

Uhmm… sei un tipo taciturno, vorrei sapere di più su di te, per esempio perché hai lasciato Roma e vivi nell’ultimo paesino in fondo alla Val Grande di Lanzo, a Forno Alpi Graie. Un posto decisamente tranquillo…
«Più che taciturno sono… riservato. Su Roma: non ho mai sopportato la città, anche se ultimamente mi sono riconciliato con lei. Avevo un amico che veniva dal Piemonte, con cui suonavo insieme. Trent’anni fa, nel ’92, mi invitò a passare Pasqua a Forno, dove aveva una casa di famiglia, così, mi disse, potevamo provare in pace – allora suonavo la batteria. Ci andai e mi innamorai del posto, un amore immediato, forte. Iniziai a fare la spola tra Roma e Forno, poi, nel ’96 mi trasferii in Piemonte, all’inizio ho vissuto tra Caselle e Torino. A Forno sono arrivato definitivamente nel 2001 e non sono più andato via. Si vive bene: siamo in nove abitanti…».

Mi riallaccio ai tuoi ascolti, dunque, nessuna musica italiana?
«No, in genere non mi fa vibrare. Certo, ci sono artisti che mi piacciono molto, come Paolo Conte. Anche Lucio Dalla è un grande, credo che Caruso sia la più bella canzone italiana che sia mai stata scritta, ma non ascolterei mai un disco intero di Dalla. Non voglio sembrare spocchioso. Non mi piace proprio il canto in italiano. Per me la musica è in lingua inglese».

Quali artisti preferisci?
«John Lee Hooker, sicuramente. E poi i Beatles, anche se non li ascolto più da oltre vent’anni, ma con loro, come ti dicevo, ci sono cresciuto. Sono molto settoriale, molto Blues e Country, e poco rock. Per esempio i Lynyrd Skynyrd, gli Eagles, i ZZTop, Tom Waits, i Led Zeppelin…».

Jazz?
«Mi disturba il progressive perché non capisco cosa succede. Ascolto e apprezzo Billie Holiday. Mi piace capire la musica, sono portato ad ascoltare cose “semplici” che non vuol dire però banali. Negli anni Sessanta la musica dei Beatles era considerata “robetta”…».

Rock solo di un certo periodo, a quanto mi racconti. Quindi sei anche tu della corrente che il Rock tradizionalmente inteso non esiste più? Io ne sono piuttosto convinto…
«Sì, concordo. Il Rock ha avuto un sussulto post mortem con i Faith No More e i primi The Black Crowes».

Nella descrizione che fai di te, leggo testuale: boscaiolo dilettante, falegname improvvisato, monaco per caso, viaggiatore disorientato, incespicatore recidivo, sognatore seriale, musicista inconsapevole… Tanta roba!
«È il mio ritratto. Sono così, sono sempre stato un eterno dilettante, ho cambiato mille lavori, non ne ho fatto mai uno per più di cinque anni, mi stanco. Sono curioso, mi piace imparare sempre cose nuove, anche se ho una memoria inesistente. Boscaiolo perché quassù uso solo legna per scaldarmi, quindi ho dovuto imparare il mestiere. Quando c’è qualche albero difficile, però, chiedo aiuto al mio vicino, lui sì è davvero esperto. Si fa presto a farsi male con gli alberi… Viaggiatore disorientato perché non programmo mai nulla, vado all’avventura, alle volte ne esce un viaggio memorabile, altre no. Solo così riesco a incontrare e conoscere tanta gente che non avrei altrimenti visto se fossi andato con un viaggio organizzato. La sorpresa è la cosa più bella di un viaggio. L’unica volta che ne avevo uno mezzo organizzato è stato un disastro, ma ugualmente istruttivo! Ero con un amico in Irlanda. Avevamo con noi bagagli corposi perché pensavamo di noleggiare un’auto e girare il Paese. Avevo portato solo il bancomat e un po’ di contanti. All’autonoleggio non abbiamo potuto avere la macchina perché nessuno dei due aveva una carta di credito! Siamo stati dieci giorni in giro a piedi, con quei bagagli pesanti! Verso la fine del viaggio, arriviamo a Kilkenny, Mi accorgo di aver perso tutti i documenti a Galway, la meta precedente. Lascio il bagaglio al mio amico e ritorno, leggero, a Galway. Ovviamente, i documenti non li ho trovati, quindi sono rientrato a Kilkenny, con in tasca solo pochi spiccioli. Il mio amico non l’ho incontrato, in compenso ho passato la serata in un pub con un becchino ottantenne in pensione delle isole Aran. Aveva un dente sì e tre no, quando beveva mi sputava addosso, voleva insegnarmi a tutti i costi il Gaelico…Con il mio compagno di viaggio, poi, ci si siamo trovati a Dublino, all’aeroporto!».

SirBone con i Mountain Sailors

Monaco per caso?
«Vivo come un eremita, ma non lo sono! L’impressione per chi non mi conosce è che sia una specie di monaco. Invece, anche se siamo solo in nove abitanti è difficile che passi una serata a casa da solo. Ceniamo insieme praticamente tutte le sere da uno o dall’altro, poi ho tanti amici in Valle, ci sono i villeggianti… Mi sono solo innamorato di questo posto, non ho considerato le conseguenze future. Tutta la Valle, lunga una ventina di chilometri, è una grossa famiglia».

Suoni e canti per loro?
«No. Ho una band del posto con cui suono, ma è molto goliardica!».

Incespicatore recidivo?
«Definizione criptica, ma il fatto è che faccio sempre gli stessi errori, inciampo sugli stessi punti. Ormai dovrei sapere come muovermi, ma è tutto inutile».

Sognatore seriale?
«Sogno sempre, anche a occhi aperti. Di delusione ne ho avute tante, brutte, ma non voglio smettere di sognare, sarebbe triste. Conosco gente che non ha sogni…non vorrei essere in loro».

Musicista inconsapevole…
«Non ho uno strumento che ho perfezionato in modo professionale. Li suono un po’ tutti e tutti un po’ male. Me la cavo con il dobro. Quando vedo un nuovo strumento sono curioso, mi attrae, voglio capirlo… Non sono un virtuoso, piuttosto un inconsapevole, perché tutto è arrivato per caso. Quello che so è che mi piace raccontare».

Scrivi musiche e arrangiamenti?
«Arrangiamenti che mi cucio addosso in base alle mie capacità. Come le linee melodiche del canto. La mia è più espressione che capacità tecnica…».

Per i testi in inglese hai avuto problemi?
«No, fin da piccolo ho avuto la fortuna di studiarlo, è una materia che ho sempre affrontato con attenzione. Comunque, per il disco volevo essere sicuro, quindi ho chiesto la supervisione di Andy Penington (con lui, nel 2010, Stefano ha fatto un disco, A Bottle or a Gun, allora si chiamavano Wild Boars, ndr): siamo molto amici, Andy è un terzo irlandese, un terzo scozzese e un terzo inglese, e di un suo amico che lavora a Roma nel mondo dello spettacolo, Adam Nixon”».

La cover ti vede in mezzo a due fanciulle…
«La cover non doveva essere questa. Me l’ero immaginata come Ulisse all’incontro con le Sirene: su una roccia che sovrasta il paese con dietro gli alberi, io legato a un tronco, i Mountain Sailors intorno a me e le due giovani, che poi una è Floriana Nuzzo, torinese, ricercatrice genetica e corista, l’altra Eleonora, una ragazza di Saluzzo con una bella voce – la coinvolgeremo! – nei panni delle Sirene.Volevo rappresentare un dubbio: siamo così sicuri che non dobbiamo fuggire le tentazioni? Possono portarti in un’altra direzione, essere una via di salvezza… Bella l’idea ma difficile la realizzazione. Quindi, abbiamo scelto per questa cover, dove le donne rappresentano la dualità: vista di fronte la scena fa credere che una sia buona e l’altra perfida. In realtà, la stessa scena vista dal lato opposto mostra esattamente il contrario».

Manca poco, prometto! Ma che lavoro fai oltre al musicista?
«Faccio scale e balconi in legno».

Cosa ti aspetti dal disco?
«Nulla, ho fatto quello che volevo, cioè pubblicarlo. Vorrei invece cominciare a presentare le mie canzoni dal vivo, con la band. Mi aspetto di più, invece, dalle colonne sonore. Collaboro con Alan Brunetta, musicista torinese (salì agli onori delle cronache tre anni fa perché si sottopose a un’operazione al cervello per un tumore e, per non perdere le conoscenze musicali, d’accordo con l’equipe medica, mentre veniva operato suonò la chitarra e il tamburo, ndr). Alan mi ha chiesto di cantare un suo brano commissionato da una regista texana per un film, dopo che lei aveva ascoltato la mia voce».