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Petrigno, blues e rumore per parlare la Lingua del Santo

A fine aprile è uscito il primo disco di Marco Petrigno, cantautore, bluesman e pittore palermitano. Il titolo incuriosice, La lingua del Santo (via Vina Records), otto tracce che trasudano dolore, sofferenza, visioni apocalittiche. In effetti di un’apocalisse si tratta. Un’apocalisse personale dove il roots blues ci calza alla battuta. Chitarre stridule, resofonica metallica fino all’asprezza, synth che creano tappeti profondamente cupi, disegnando oscurità nel pentagramma. 

Può sembrare un ossimoro uscire con un lavoro così in un momento, come la primavera che prelude all’estate e alla voglia di sole e fancazzismo. Una risposta la dà lo stesso artista, consapevole di questa forzatura: «La lingua del Santo è un disco che principalmente serviva a me. Che mi mancava. È come se senza dolore fossi nulla. A volte mi sento come se ci siano dei posti dentro la mia testa dove non posso andare neanche io. Malessere ed irrequietezza. Sentirsi fuori posto, inesatti. Scomodi. Il disco è uno sfogo del mio malessere, la mia musica lo è solitamente», spiega Marco.

Un lutto pesante, la perdita di un amico, la caduta negli abissi, la difficile risalita, da Palermo a Tolfa, cittadina alle porte di Roma immersa nei boschi tra i monti omonimi, un cane per amico, il silenzio, il disegno e la musica. «Sono qui da tre anni. Ho conosciuto una persona che aveva questa casa che mi ha convinto a staccare un attimo, Palermo mi ricordava troppe cose, così sono andato». Un passo che andava fatto per elaborare un lutto e ritrovarsi, capire che solo grazie a se stessi si riesce a cambiare. Nella folla, secondo brano del disco, uscito in anteprima, Petrigno canta proprio questo «Dobbiamo stare bene da soli, inutile cercare il conforto degli altri. Solo noi possiamo salvarci da noi stessi» mi dice.

Con Marco ha collaborato un piccolo gruppo di amici, a partire da Valerio Mina, produttore, che in questo lavoro «c’ha messo l’anima», ma anche Andrea Manzoni, pianista e compositore che ha suonato nell’ultima traccia del disco Tu lo sai, solo piano e voce, l’elaborazione del lutto, la presa di coscienza del distacco e di sé stesso, brano che rimanda a Luigi Tenco, completamente  e volutamente diverso dal blues martellante della altre sette tracce.

Come hai incontrato Valerio Mina?
«Lo conosco da tantissimi anni. Anche se è di un paese molto lontano da Palermo, era spesso lì, studiava lì, bazzicavamo gli stessi posti, gli stessi ambiti musicali. Sia con lui sia con Angelo Di Mino proprietario del Blackstar Recording Studio di Milano dove abbiamo registrato, grande musicista, violoncellista, amico».

Hai costruito il disco a Tolfa?
«Anche se è il mio primo lavoro scrivo da sempre. Il posto e la solitudine hanno aiutato. La mattina mi alzavo, passeggiavo col cane, tagliavo la legna per il camino. Avevo tanto tempo a disposizione per scrivere e comporre. Avevo la casa piena di strumenti che ho usato tutti. Molti brani del disco sono fatti proprio qui».

Com’è stato il progredire del disco?
«Con Valerio ci abbiamo messo un bel po’ a decidere quali brani inserire. Sono uno che scrive tanto, anche troppo! Avevo una cinquantina di brani, che farò uscire in altri dischi. Ho massacrato Valerio, in un giorno gli mandavo anche tre brani! Lui, con molta pazienza, si è messo ad ascoltarli tutti e poi abbiamo definito una linea comune. Secondo noi questo otto brani sono quelli che bastavano per il disco. Ne avremmo potuti inserirei, dodici o quindici. Secondo noi erano i pezzi giusti per entrare in quel disco».

E cioè?
«Quel disco era una mia necessità, come quando hai una cosa messa lì e finché non la tiri fuori ti rimarrà sempre addosso come un fardello. Nel momento in cui l’ho registrato mi sono liberato di alcuni pesi. È stato come dedicarsi a una seduta di autopsicanalisi».

Avresti potuto esprimerti anche attraverso la pittura ma hai scelto la musica…
«In realtà ho disegnato e dipinto tantissimo. Sono stato contattato da un’associazione culturale che si chiama SLA (Sète Los Angeles) un movimento culturale che fa gemellaggi tra artisti francesi e di altre provenienze. Lo hanno fatto anche tra Sète e Palermo. Sono stato contattato per esporre almeno un quadro, ho proposto un trittico, e in più ho suonato sia a Palermo sia a Sète. Poi ho fatto altre mostre, ho aperto un sito per i miei dipinti, ho venduto molti quadri… Quindi, quello che succedeva a Tolfa nella musica accadeva specularmente nel disegno».

Le due arti in che modo si complementano?
«L’una alimenta l’altra. Può succedere che magari faccio un sogno, un incubo, mi sveglio prendo il taccuino e scrivo qualcosa o butto giù delle immagini. Per esempio il brano Il Bosco, è nato facendo entrambe le cose, componendo e dipingendo un trittico molto grande, che conservo a casa. Mi ispiro da ciò che vedo per strada, da storie che sento al bar…».

Raccontami la cover del disco: cosa rappresenta?
«Sono io seduto su una poltrona trafitto da tre frecce come San Sebastiano, per terra c’è Petrus il mio cane, c’è il corvo con sopra l’occhio a triangolo, simbolo di onniscienza. Poi ci sono i due uccelli neri, una scena a cui ho assistito tantissimi anni fa a Roma, un corvo a San Pietro che aggrediva una colomba bianca mentre il papa parlava, tengo in braccio un’oca con le ali chiuse…l’oca è ricca di simbologie».

Quindi riassume te stesso?
«Tutto il dolore che c’è all’interno, se noti c’è anche una bottiglia di un alcolico. Molte persone raccontano l’amore con le canzoni io canto l’Apocalisse all’interno dell’essere umano, quando tutto finisce, quando cominci a non sentire più niente. Qualcuno ci può vedere un po’ di luce alla fine di tutto questo, ma in realtà è il passaggio di una persona all’interno della sua Apocalisse. Poi alla fine del disco arriva un brano del tutto diverso dagli altri, Tu lo sai, solo piano e voce, suonata magistralmente da Andrea Manzoni, un amico. Lui stesso ha consegnato il mio disco a Dave della Vina Records e grazie a lui mi hanno preso subito nello loro etichetta».

In Fermati parti con questa armonica da blues trait e di dipana e ti ritrovi in un’altra dimensione…
«In realtà l’armonica è alla fine di Domani Partirò. C’è quest’armonica allegra, quasi country, e poi improvvisamente arriva la mazzata! È stato registrato in sequenza. Fermati è uno dei miei brani preferiti».

Perché hai scelto il blues per raccontare?
«Suono la chitarra da tantissimi anni, in realtà mi sono specializzato solo nel Blues! È quella musica che mi fa sentire più libero di raccontare qualcosa. Alla fine era questo il Blues delle radici: nei vecchi testi cantavano frasi del tipo “la mia donna mi tratta male”, in realtà stavano parlando del caporale che li bastonava. Il blues, l’hanno dimostrato alcuni grandi rapper, è gli albori del rap. Tutto quello che fanno oggi i rapper è raccontare i sentimenti. Certo, molti i sentimenti li stanno perdendo, presi a raccontare solo di troie e soldi, però il rap, quello vero, ti racconta la realtà, non è come il pop che ti fa credere che esista solo un mondo fantastico».

Se dovessi fare un altro lavoro terrai sempre questa impostazione dark, essenziale?
«I dischi dovrebbero raccontare quello che accade, fissare la nostra vita in quel momento. Certo nei brani che ho già scritto e in altri nuovi, la base è quella, ma qualche cosa cambierà perché sto cambiando io».

Esisterà un lieto fine?
«Non lo so! Siamo noi a crearcelo. Esiste un lieto fine ma solo per un periodo, la vita è un ciclo, va bene e va male. Dopo un momento scuro ne arriva di sicuro uno luminoso. Non siamo in un film, è la nostra vita e finché non moriamo dobbiamo assoggettarci a queste fasi cicliche».

Concludendo: un album che non parla d’amore ma del valore dell’affetto…
«Dave di Vina Records la prima volta che ha fatto un post su Instagram mi presentava più o meno così. In realtà lui nell’album sente molto amore e sentimento. Lo faccio decidere a voi, può essere!».

Concordo con Dave!
«Fermati, Tu lo sai,  Il Bar sono canzoni cupe ma in realtà dentro c’è anche tanta passione».

Con chi lo canti Il Bar?
«Con Gloria Tricamo, una cantautrice, ma anche con Anna Balestrieri. Entrambe hanno fatto i cori anche in altri brani. In Fermati c’è una sirena fatta con la voce sempre da Gloria. In alcuni cori c’è anche Valerio Mina. Il blues è coralità, potevo farle tutte io le voci, in realtà così ha reso di più. Valerio l’ha preso come se fosse un suo lavoro, come tutte/i coloro che hanno partecipato. Non è un disco facile di questi tempi…».

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