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Maurizio Solieri, Rock da… Resurrection

Tra le tante domande che mi pongo sulla musica, ce n’è una a cui decisamente dare una risposta è alquanto complicato: il Rock è morto? Se lo si chiede a chi lo suona da sessant’anni – vedi i Rolling Stones – ti risponderà lapidariamente con un “no” secco, senza replica, lo stesso dicasi per chi oggi lavora pensando di suonare rock che in realtà è qualcosa d’altro (sarebbe necessario aprire un capitolo su come viene fatta la catalogazione nella musica in streaming…). Se, invece, interroghi uno come me che vede il Rock come un genere temporale che ha avuto il suo apice tra gli anni Sessanta e i primi anni Ottanta, la risposta non può essere che “sì”. Quello che è venuto dopo, è figlio spurio di quel genere che rimane scolpito nella pietra come i dieci comandamenti. Come sempre, non tutto è bianco o nero, esiste una gamma di colori che ci passano in mezzo. C’è, dunque, della verità in entrambe le risposte. 

Mi è venuta in mente questa domanda ascoltando l’ultimo album di un grande chitarrista italiano, uno dei virtuosi del Rock nazionale (e non solo), Maurizio Solieri. Sì, proprio “quel” Solieri, legato indissolubilmente alla carriera artistica di Vasco Rossi, ma anche autore e protagonista della Steve Rogers Band e ora in missione per conto degli assoli con la SolieriGang.

Un mese fa, proprio con la sua band, ha pubblicato Resurrection, disco di grande impatto, galvanizzante e in un certo qual modo “puro” nella miglior accezione del termine. Un lavoro che passa in rassegna il grande Rock – e vedi che si finisce sempre là – con brani composti dallo stesso musicista, con la partecipazione di bei nomi del rock italico, da Maurizio Luppi a Lorenzo Campani. Alla batteria il figlio Eric, musicista che ha il suo ideale punto di riferimento nel segaligno Tom Aldrige, mitico batterista degli Whitesnake (e non solo).

Un omaggio al Rock, quello vero, con riferimenti espliciti alle passioni del chitarrista modenese. Per esempio, nel pezzo d’apertura Rock’n’Roll Heaven, brano nato di getto dopo la morte di Eddie Van Halen, scritto nello stile del mago di Jump, c’è spazio anche per un omaggio di poche battute ai Beatles di Twist and Shout… Nel brano Maurizio si immagina il paradiso dei rocker dove Stevie Ray Vaughan, David Bowie, Eddie Van Halen, Amy Winehouse, Janis Joplin, Jimi Hendrix, Chuck Berry e tanti altri se la spassano cantando, suonando e bevendo.

In Jimmy, scritto da Solieri nel 1996, una ballad in classico stile Dire Straits, il tocco alla Knoplfer si sente e si apprezza. In I Didn’t Know i passaggi “etnici” della chitarre richiamano i Led Zeppelin, mentre in While The Lights Go Down, c’è un assolo di Hammond da manuale, omaggio al grande Jon Lord dei Deep Purple… E mentre Resurrection è un esplosivo hard rock nella miglior tradizione, con una batteria che batte sempre appoggiata come se non ci fosse un domani, incisi melodici ricamati dalla chitarra di Maurizio, e la voce solida di Luppi, in Sei Già qui cantata da Lorenzo Campani si risentono le melodie “classiche” del periodo Vasco, quelle che Solieri ha profuso a piene mani, vedi Canzone, Dormi, Dormi, C’è chi dice no, Lo Show, Ridere di Te

Maurizio, ma il rock è morto?
«Niente affatto, è vivo e vegeto! Non certo in Italia, sui media passa poco. Il Rock e le sue declinazioni in generi vivono bene in tutto il mondo…».

Quindi anche i Måneskin sono Rock?
«Certo, fanno un Rock semplice che si rifà alle melodie di Iggy Pop e degli Stooges. Questi ragazzi non sono affatto stupidi! Hanno passato anni a studiare, a crearsi un’identità».

Cosa pensi delle dichiarazioni di Steven Wilson dei Porcupine Tree riguardo ai Måneskin?
«Steven Wilson è un nerd non un rocker. Sicuramente sul mercato c’è di meglio dei Måneskin, ma se Mick Jagger li ha voluti ad aprire un concerto dei Rolling Stones significa che hanno un peso, e sono contento per loro. Nel panorama musicale italiano attuale, lasciando da parte il Rock, ci sono personaggi che si rifanno ai grandi cantautori, per esempio a De Gregori. Musicalmente, però, non sono granché. Poi ci sono i ragazzetti tipo Tananai che piacciono alle quattordicenni e su Tik Tok hanno un gran successo…».

Ma di sostanza artistica ce n’è poca…
«I giovani fruitori dei social entrano in simbiosi con i loro beniamini e capiscono che possono diventare così anche loro. Puoi diventare una star in sei mesi».

Per questo sono meteore, spesso non sanno né cantare né suonare…
«Per emergere ci vuole talento e applicazione. Con Vasco ci abbiamo messo anni e anni. Avevamo un pubblico che ci seguiva, all’inizio qualche decina di persone, c’era la curiosità di sapere chi fossero quei strani tipi lì sul palco. Per farti una cultura musicale devi aver l’interesse, tanta voglia».

Vieni da una famiglia “musicale”?
«La mia è una famiglia tradizionale, mio padre era medico, ho frequentato il liceo classico, ho seguito all’inizio quella che per i miei doveva essere il mio lavoro, fare il medico. Sono stato l’unico che ha fatto, invece, una carriera diversa: volevo suonare, fare il musicista. C’è stato l’incontro con Vasco nella sua radio a Zocca, dove lavoravo per pagarmi l’affitto, vivere. Ricordo che mio fratello nei primi anni Cinquanta era stato mandato a studiare negli Stati Uniti e, quando tornò, portò con sé i dischi di Chuck Barry ed Elvis, bellissimi! In casa si ascoltava molto Mina, Celentano: ai tempi in Italia c’era un buon Rock».

Foto Raffaele Godi

Poi negli anni Sessanta c’è stata la British Invasion…
«Che ha raggiunto anche l’Italia. Dall’Inghilterra partivano vagonate di musicisti diretti negli Usa. Quando il mercato negli States cominciò a saturarsi, arrivarono qui in Italia. A 16 anni a Riccione ho ascoltato molte band inglesi, tutte molto brave. Spesso non sapevamo nemmeno come si chiamassero. Ho scoperto titoli di canzoni ed esecutori anni dopo. In quegli anni mi sono visto grandi concerti, Deep Purple, Jethro Tull, Jimi Hendrix a Bologna quando avevo 15 anni, i Cream».

Quindi, Resurrection è un po’ tutto questo…
«Ho voluto omaggiare vari generi del Rock e tanti artisti, Van Halen, Knopfler, Clapton, Jeff Beck, numeri uno al mondo ancora oggi, a 80 anni!»

Il brano omonimo è bello tirato!
«Lo avevo nel cassetto, scritto durante la pandemia, lo stile è quello degli Aerosmith. Quando sono finiti i lockdown e i concerti sono tornati negli stadi, ho deciso di cantare la “resurrezione” della musica».

L’Emilia Romagna è un’officina musicale, rock, pop, cantautori. La vedo come la capitale del rock italico…
«In verità il Rock è nato in Lombardia, ai tempi in Emilia Romagna c’erano molti gruppi che facevano musica popolare. A Milano, invece, c’erano Eugenio Finardi, che si ispirava a un jazz-rock stile Weather Report, Alberto Camerini, un grande! Il rock in Emilia è arrivato dopo Lucio Dalla e Vasco, dopo che nacque la Fonoprint a Bologna (1976, ndr). Non c’era, insomma, quel fermento che si vedeva a Milano, qui piacevano i Queen, Bruce Springsteen, quando in Lombardia si ascoltavano Frank Zappa, il Rhythm and Blues, il Soul… Qui eravamo ancora degli schitarratori!».

Cosa ascolti oggi?
«Di tutto, molto Rock, Blues, Jazz, crossover, da Lenny Kravitz ai Led Zeppelin agli Allman Brothers Band. Ascolto chi fa bella musica, anche giovani, l’importante è che ci sia professionismo in quello che si propone».

Porterai in giro Resurrection?
«Lo spero proprio! Per ora è uscito solo in digitale, tra qualche settimana uscirà anche in Cd e vinile».

Dopo il tuo libro autobiografico scritto a quattro mani con Massimo Poggini, Questa sera Rock’n’roll: La mia vita tra un assolo e un sogno, senti l’esigenza di scrivere altro su di te?
«C’è un libro che mi piacerebbe fare, sulle mie chitarre, amplificatori, pedali. Lo ha fatto anche Jimmy Page parlando delle sue prime chitarre, un libro molto bello che ho a casa. Vorrei raccontare la mia vita artistica attraverso i miei strumenti. Ho avuto 40 chitarre, alcune le ho vendute, quelle vintage anni Cinquanta che non tenevano più l’accordatura. Molte, che uso tuttora, risalgono agli anni Settanta».

Le tue preferite?
«Sono tante! Quando suono ora porto con me una Gibson SG Custom Bianca, la Fender Stratocaster, la Gibson Les Paul. Joe Perry, chitarrista degli Aerosmith, negli anni Settanta si portava in tour settanta chitarre, muri di Marshall, pedaliere pazzesche…».

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