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Daniele De Gregori pubblica “Bolla Occidentale”, il disco-manifesto dei Millennial

Daniele De Gregori – Foto Eleonora Maggioni

Bolla Occidentale, l’ultimo lavoro autoprodotto di Daniele De Gregori uscito lo scorso 11 aprile è un disco da ascoltare con attenzione, soprattutto dalla Generazione Y, i Millennial, quelli nati tra la metà degli anni Ottanta e i primi dei Novanta. Arrivato a un’età che richiede una riflessione sul cosa farò d’ora in poi della mia vita in relazione al rapporto con gli altri, con la figlia che tra poco nascerà con i problemi comuni degli amici più stretti, il cantautore romano, classe 1985, ha affidato alle parole e alla musica un disco-manifesto di una generazione che s’è trovata nel passaggio dall’analogico al digitale con tutti gli annessi e connessi sociali, lavorativi e psicologici.

Nella sua vita Daniele è stato anche taxista. Mi racconta: «L’ho fatto per quasi dieci anni, un gran bagaglio antropologico e umano, fin troppo, mi ha fatto vedere una gran fetta di umanità reale, nel bene e nel male». Negli ultimi anni vive della sua musica. Un’eccezione in quel mondo di mezzo perché, «quelli della mia fascia d’età, dovrebbero essere i creativi e i musicisti sulla cresta dell’onda, però nei fatti a essere premiati sono solo o il dinosauro o la nuova leva».

Nel tempismo perfetto imposto dai nuovi modi di vivere, Daniele sta diventando anche padre. Bolla Occidentale ha a che fare anche con quest’attesa: «Ho scoperto che avrei avuto una figlia poco prima dell’inizio delle registrazioni dell’album. Il disco mi ha aiutato a fotografare la realtà, proprio perché ora non posso permettermi svarioni, come leggere la realtà in una maniera troppo contingente o troppo filtrata. Devo essere il più lucido possibile per capire dove sto. Sapere dove ci si trova è un buon punto di partenza per andare da un’altra parte». 

Il 24 maggio De Gregori presenta Ombre Occidentali al Monk di Roma: «Sul palco saremo in cinque, alla chitarra Francesco Forni, io, chitarra e voce, Lorenzo De Angelis al basso, Fabio Giandon alla batteria e Gabriele Conti al piano. Ci saranno anche, ospiti, l’organettista Alessandro D’Alessandro, e il chitarrista e cantautore Luca Carocci».

Un disco manifesto, accennavo prima. Che si dipana – lo spiegherà qui sotto lo stesso Daniele – in una sorta di viaggio introspettivo dove al generale si alternano momenti personali e racconti che hanno come protagonisti donne e uomini, tutti quarantenni, suoi amici. Da Bolla Occidentale, la prima canzone, a Daniele va a Scuola, l’ultima degli undici brani per 35 minuti d’ascolto totale, passando per Le morti indolori del Tamagotchi, di cui vi allego qui sotto il testo, è un album che scorre veloce, denso, sereno nel racconto, bene arrangiato grazie anche agli arrangiamenti del cantautore e producer Francesco Forni.

Quelli che hanno la mia età
Li hanno fregati tutti quanti
Tra Berlino e i cinesi
Le morti indolori dei Tamagotchi
Jovanotti e Nintendo
E poi non c’è stato più tempo
Pezzi di ingranaggi e Novecento
Rimasti in mezzo
E intanto salutano il mondo
È già andato
“Madonna che ti sei perso”
Lungo i pendii dell’attesa
L’acqua non corre in salita
Si può imparare a non fare rumore
Anche tutta la vita
Lascia stare la faccia amichevole
Di questa luna
Non è mica la sola
Che ti nasconde qualcosa
E leggi Kafka in ritardo
Sogni in economica il nuovo mondo
Che poi nemmeno c’è stato
E New York non è l’America
“Prenditi il vino della casa”
Ti dice l’oste questa sera
Non era mica qui la festa
Da quanto ti perdi
Nei giorni corti di ottobre?
Da quanto sei fermo?
Lungo i pendii dell’attesa
L’acqua non corre in salita
Si può imparare a non fare rumore
Anche tutta la vita
Lascia stare la faccia amichevole
Di questa luna
Non è mica la sola
Che ti nasconde qualcosa
Un ragazzino con gli occhiali
Accovacciato sui calcagni
Dà da mangiare ai gatti
Quelli che hanno la mia età
A quest’ora sono grandi

Daniele, qual è stata l’idea da cui sei partito? Crisi da Millennial?
«In realtà tutto parte dalla condizione di volersi fermare. Sentivo di star correndo, come poi succede a tutti quanti. La vita ti obbliga ad andare veloce in questo modo ti perdi i dettagli, come quando sei in treno, guardi il paesaggio dal finestrino e non riesci a cogliere i particolari. Nel mio caso è stata una necessità per fare un piccolo resoconto, geolocalizzarmi, soprattutto per capire che tipo di persona fossi il caso di diventare nella seconda parte della mia vita. Così è nato un disco che somiglia un po’ a un album di foto, essendo io, appunto, un Millennial che vuole toccare, conservare, vedere». 

Non transigi sulle fotografie stampate…
«Le foto, in fondo, uno le fa per farsi compagnia e per archiviare ricordi senza avere la sensazione di averli persi completamente. Così ho pensato per il disco: ci teniamo un pezzo di passato a cui non vogliamo dire addio, però l’abbiamo chiuso da qualche parte. L’album è un punto di riferimento, come una mappa che ti dice dove ti trovi in un centro commercialei! Avevo bisogno di capire dove stavo e, per capirlo, è stato necessario fermarsi. Contemporaneamente mi sono reso conto che non ero l’unico in questa condizione, così l’album ha preso anche una piega osservativa antropologica, perché comunque io sono un semplice quarantenne Millennials bianco occidentale, niente di speciale».

Un lavoro che riassume quello che sei stato e ciò che sarai da qui in avanti?
«Sì, esatto, cerco anche di farci un po’ la pace. È una soggettiva parziale, un report. La nostra generazione è quella di mezzo, cuscinetto fra l’analogico del Novecento e il digitale del nuovo millennio. Quelli nati vent’anni prima della fine del secolo sono cresciuti con una formazione profondamente novecentesca, sia per valori, sia per strumenti tecnologici, e poi già in età scolastica, universitaria o comunque appena ci si è affacciati al mondo del lavoro, la società già chiedeva tutt’altro e l’ha chiesto molto in fretta… Siamo rimasti spiazzati e invecchiati molto presto, nel senso che non siamo totalmente contemporanei alla tecnologia. Tipicamente e come valori, questa è una cosa che non era mai successa in questi termini. Probabilmente accadrà sempre di più. Oggi un quarantenne è escluso da alcune dinamiche sociali, molto di più di un quarantenne degli anni ’60 o ’70 del secolo scorso. Nell’Ottocento, per esempio, il quarantenne era perfettamente dentro la situazione. La mia generazione è la prima ad aver sofferto questo andare “fuori modello” prima del tempo, perché si parla di essere inadeguati quando ancora si sta costruendo la propria vita esistenziale, affettiva, emotiva ed economica. Quindi è una difficoltà che va riconosciuta, non negata».

Sei vecchio pur non essendo vecchio?
«Bisogna distinguere tra la vecchiaia biologica e quella sociale. È una grande differenza che non c’era mai stata prima in questi termini. Ho quarant’anni, non sono giovanissimo, non sono però vecchio. Vecchio non vuol dire nulla, però di solito è un’accezione che si dà a qualcosa che è stata sostituita da altro di più attuale. Sono inadeguato per proprietà, capacità e forma mentis in molti campi dell’attuale società, che siano i social, la comunicazione, il linguaggio, l’adattamento, l’aspetto valoriale di come un uomo e una donna si debbano realizzare. Passiamo da una società in cui la realizzazione era lavorativa e familiare a una nuova in cui si comincia a parlare della non necessità del lavoro, ad esempio, del reddito universale, della riproduzione in termini molto più larghi, tutte cose che abbraccio ma sento di non esserne completamente pervaso, c’è qualcosa di me che mi lega al secolo precedente, lo percepisco».

Applicando quello che stiamo dicendo alla musica, che ruolo ha il cantautore oggi?
«È una domanda da un milione di dollari. Non mi fermerei solo al cantautore, ma direi che ruolo ha l’artista oggi. Di sicuro non ha più quello di attivista sociale, perché non si riesce più a raggiungere le masse come erano capaci i cantautori negli anni ’60, ’70, ’80. Erano mainstream e quando si è tali, secondo me, si ha anche una responsabilità civile. Su questo tema s’è parlato molto, io sono sempre stato per la responsabilità, non sono mai dalla parte di chi si sottrae ai propri obblighi. Quindi è chiaro che oggi è molto diverso, non raggiungerò mai quel tipo di uditorio, non ci riesce praticamente nessun cantautore. Va da sé che il ruolo è cambiato: dovremmo essere in qualche modo custodi di piccole sacche di bellezza, letteraria, poetica, musicale. Non che tutto il resto sia meno bello, ma in qualche modo bisogna cercare di non far dimenticare ciò che è stato creato negli ultimi cinquant’anni derubricandolo al peggio. Il bello non va mai fuori moda».

Apri con Bolla Occidentale per passare a Le morti indolori dei Tamagotchi, per poi proseguire con Poitier e chiudere con Daniele va a scuola. Uno spaccato della generazione Y…
«Mi piace partire dal generale per finire al particolare: Bolla Occidentale è una geografia dei sentimenti occidentali in difficoltà, lo stare male anche quando si ha tutto, perché onestamente abbiamo il necessario per la sopravvivenza e per la felicità e molte volte non siamo contenti lo stesso. Bisogna interrogarsi se tutto quello che ci hanno detto che ci avrebbe fatto felici era veramente necessario per essere tali. L’evidenza dice di no. Poi proseguo facendo un passo nella mia storia individuale e in quelle di altre persone. Poitier parla di un mio amico innamorato della storia e dell’insegnamento di Barbero, Marta parla delle donne, mie coetanee, che mi circondano, Ecco e signorsì, di padri e figli che conosco e che hanno rapporti complicati. Quadricipiti invece di un mio amico scrittore che ha avuto una grave perdita. Sono tutte storie di quarantenni che si intersecano con la mia storia, raccontata in Hanami, Enza e Rocky, Qualcuno ha visto la mia vita? e, infine, in Daniele va a scuola, un flashback di quando ero bambino, perché in fondo, come ti dicevo il disco è come un album di foto e poi volevo darmi una pacca sulle spalle da solo e dirmi che sta andando bene. Chiudo, saluto le persone di cui ho parlato nell’album, mi volto e ricomincio a camminare».

Cosa ti ha legato alla collaborazione con Francesco Forni, cantautore e produttore?
«Con Francesco, che stimavo e seguivo già prima di conoscerlo, c’è un grande feeling umano già da due o tre anni. Quando s’è trattato di cercare un produttore artistico per l’album avevo già in testa di rivolgermi a un cantautore, perché penso che i cantautori abbiano un’intuizione maggiore rispetto ai musicisti propriamente intesi. Avevo una visione fin troppo definita dell’album e temevo di andare a finire in uno standard di genere troppo marcato. Forni è il musicista che ha la formazione più eterogenea e profonda tra quelli che conosco. Gestisce bene vari generi e linguaggi. È stato naturale rivolgermi a lui».

Da osservatore privilegiato, del famoso cantautorato romano degli anni che furono c’è ancora traccia?
«Difficile vederlo. Attualmente percepisco un’enorme fame performativa, muscolare, dei giovani artisti under 25: ancora lontani dal trovare un loro percorso, rischiano di perdersi, perché in questa società omologatrice che richiede alcune caratteristiche, tutti cercano di replicare le stesse cose visto che “funzionano”. Non so dirti di più perché per me è difficile valutarli. L’artista deve maturare come il vino. È la mia visione personale. Quindi, i fenomeni di 18 anni mi lasciano quasi sempre perplesso, sono più performer che artisti. Mentre poi, appunto, gli artisti che hanno avuto dieci, venti, trent’anni per raccontare e raccontarsi, invece vivono un momento di grande scoramento, proprio perché non riescono più a raggiungere un numero di persone sufficienti per costruire una carriera adeguata. E poi ci sono quelli che il successo lo hanno avuto tra fine anni Novanta e i primi del 2000 che reiterano, un po’ grottescamente la loro cifra all’infinito. Una visione un po’ triste…». 

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