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Pierangelo Pandiscia racconta Mistiche Ribelli: la musica spirituale degli EntenHitti tra estasi e dissenso

Musica e spiritualità. Un tema complesso e delicato, che parte da quel bisogno dell’uomo di entrare in connessione con un mondo che sta da un’altra parte rispetto al mondo terreno. Una delle porte d’ingresso più usate per raggiungere quella dimensione è la musica: canto e ritmo sono da sempre parabole potenti per sondare l’universo, collegarci con un’entità che dia un senso al nostro cammino. 

C’è chi, tra i musicisti e compositori, dedica la propria vita artistica alla ricerca di connessioni. È il caso di un ensemble nato negli anni Novanta, gli EntenHitti, fondato da Pierangelo Pandiscia e Gino Ape. Il 23 marzo scorso il gruppo ha pubblicato un nuovo lavoro intitolato Mistiche Ribelli via Lizard Records. Un titolo forte che racchiude dieci brani per 42 minuti d’ascolto composto per lo più da mantra. Non solo quelli orientali, ma tutti quei canti e brani, fatti da cellule musicali ripetute già volte. Ribelli in questo senso: «Il cercare un contatto diretto con la spiritualità è un atto che non porta profitti terreni ad altri uomini o associazioni religiose che si assumono il compito di mediare tra l’uomo e il sacro. È un atto puro, senza secondi fini, guarda caso mal tollerato nei secoli», spiega Pierangelo. 

La ribellione può sembrare una contraddizione se applicata al misticismo. In realtà i punti di contatto sono molteplici. Il mistico si distacca dai valori dominanti e, in questo senso, è un ribelle contro il conformismo spirituale. Tende, come il ribelle, a superare i confini dell’ordine stabilito, per cercare una verità personale e interiore. Entrambi cercano autenticità: uno attraverso la trascendenza, l’altro attraverso la rottura. In questa “ribellione mistica” gli EntenHitti si sono ispirati a diverse correnti mistiche (sufi, essene, tibetane, cristiane, occitane), ricorrendo a testi tratti dagli scritti di Rumi, il filosofo persiano, del Mantra del Sutra, del Canto della Notte degli indiani Navajo, da antichi testi occitani di autori sconosciuti, dai Manoscritti del Mar Morto e anche da San Francesco di Assisi, di cui sono stati celebrati nell’ottobre dello scorso anno gli 800 anni dalla morte.

Le musiche sono tutte di Pandiscia e Ape, a eccezione di Our Needs of Consolation, brano scritto anche da Francesco Paolo Paladino e Dorothy Mosocowitz Falaski, e di Evren Mantra, che vede, sempre oltre a Pierangelo e Gino, anche Theo Allegretti.

Vale la pena citare tutti i componenti dell’Ensemble e gli strumenti usati, altro tassello per comprendere l’album: Gino Ape (oboe, flauti, xilofono, pianoforte, santoor, voce), Pierangelo Pandiscia (liuto, gong, conchiglie, tromba, salterio ad arco, percussioni), Giampaolo Verga (violino), Carmen D’Onofrio (voce), Jos Olivini (fisarmonica, hulusi, pianoforte, arpa celtica, table tubes). Tra i musicisti ospiti, oltre ai già citati Dorothy Mosocowitz Falaski e Theo Allegretti, Gianfranco D’Adda e Vicky Ferrara alle percussioni in L’uomo di Dio e Carne della stessa carne, Nicolò Pandiscia alle percussioni in L’uomo di Dio, Vincenzo Zitello alla viola e al violoncello in Carne della stessa carne, Ilaria Drago voce narrante in Oreade e Mantra delle Onde, Samatha Cinquini voce narrante in Mantra delle Ombre.

Ho chiamato Pierangelo per approfondire Mistiche Ribelli. Qui di seguito la nostra lunga e proficua chiacchierata. Buona lettura!

Perché un lavoro così particolare?
«È un progetto nato un paio d’anni fa, quando avevamo appena pubblicato Via Lattea, disco uscito nel 2022 dedicato al sacro femminile. Nel cassetto c’erano già alcuni brani ma non sapevamo come indirizzarli, c’erano paste sonore e testi molto diversi. Col passare dei mesi abbiamo costruito un filo rosso cercando una serie di composizioni che, dal punto di vista musicale, fossero molto cicliche, basate non su una modulazione armonica ma su una frase melodica ritmica mantenuta costante dall’inizio alla fine, su cui potevano essere preinseriti, come colore, altri timbri, micro melodie a incastro e quant’altro».

Una soluzione musicale basata sulla ripetizione, praticamente un mantra…
«È il principio di tutti i mantra, sia di quelli tradizionali legati al mondo orientale, sia di altri che esistono in Africa, America, Australia, caratterizzati da una cellula che si ripete facilitando uno stato ipnotico, che può consentire l’accesso a una dimensione più meditativa, in qualche caso addirittura di trance. Abbiamo ripreso l’idea della ripetizione rendendola attuale, nel senso che non c’è nulla di filologico nel lavoro, le cellule ritmiche non hanno quasi mai a che fare con mondi geografici precisi, ma sono presi come spunto di una ripetizione melodica, ritmica che va avanti, conducendo l’ascoltatore in uno spazio in cui perdersi». 

Vi siete mossi così anche  per i testi?
«Ne avevamo alcuni nostri, miei e di Gino (Ape, ndr), abbiamo pensato poi di raggrupparne alcuni tradizionali che contenessero l’idea di una poetica mistica, in senso molto largo. Nessuno di noi è un fervente religioso di una corrente precisa, però ci interessa la dimensione del sacro, di una spiritualità molto personale, tra me, individuo, e l’universo. Suggestioni che personalmente ho trovato da tanti anni attraenti: abbiamo attinto alle opere di Rumi, il più grande poeta mistico persiano del 1200, inserendo il testo in un giro, in questo caso sì, armonico, di Sol, Re minore, La minore e Do, molto classico, arricchendolo di timbriche e suoni che non appartengono strettamente al mondo occidentale, usando per esempio il santur, strumento di origine persiana».

È il brano che apre il disco?
«Esatto, L’uomo di Dio. Il testo è di Rumi al 99 per cento, a parte l’ultimissima frase che dice l’uomo di Dio danza come un uragano a tempo di valzer, una mia licenza! In altri casi, come per Carne della stessa carne, basato sul Mantra del Sutra, conosciuto anche come Mantra del cuore, uno dei più noti nella traduzione buddista Mahāyāna, abbiamo preso letteralmente il mantra tradizionale e io ho suonato un gigantesco gong nepalese che ha un diametro di 1 metro e 60…».

Un pezzo che mi è piaciuto molto è Le consolazioni delle Ninfee
«E basato sul testo di un anonimo occitano del XIII secolo, ambientato nel Sud della Francia al confine con la Spagna, nel periodo dell’eresia catara. Qui ho immaginato una melodia eterea ricordando una visita che avevo fatto durante una visita turistica al castello di Montségur, di fatto l’ultima dimora degli eretici prima che la crociata contro gli albigesi li sterminasse completamente. I catari predicavano un rapporto diretto tra la singola persona e Dio, senza l’interposizione della Chiesa, dunque completamente scevro da qualunque ricchezza materiale».

In Our Needs for consolation Dorothy Moscowitz Falaski presta la sua voce. Come l’avete conosciuta?
«L’abbiamo incontrata tre anni fa per un progetto discografico il cui titolo è Under an endless Sky Sotto un cielo infinito, uscito per la Tompkins Square, etichetta americana che ha voluto omaggiare una ricorrenza storica: Dorothy è stata la cantante di una band psichedelica che si chiamava The United States of America, che nel lontanissimo 1968, quando io ero un bambino e giocavo col trenino, ha pubblicato un disco diventato una sorta di pietra miliare del rock psichedelico (ascoltate The Garden Of Earthly Delights, ndr). Di fatto è considerato uno dei migliori dischi del genere, fra rock, psichedelia e musica sperimentale, diventato leggendario perché la band diede alle stampe solo quello. Dorothy oggi ha 83 anni ed è un’artista vivace, entusiasta e anche molto creativa: è stato un incontro fervido, abbiamo suonato con lei, con Francesco Paladino e altri musici, al Festival Angelica di Bologna l’anno scorso. Durante le prove per il concerto è uscito questo scheletro di brano in cui abbiamo deciso di asciugare molto la parte musicale per dare una preminenza assoluta al testo e alla sua voce. L’idea era di guardare alle cose della vita e dello spirito con gli occhi di una persona non più giovane, che dà una maturità e un’esperienza diversa, riuscendo a distinguere ciò che è una consolazione per la propria vita, per i propri affanni quotidiani, da quello che è una via di ricerca del proprio destino. Il brano è nato così, su questo cantato di Dorothy e su un arrangiamento minimale fatto con salterio, violino, viola e violoncello, tre note di pianoforte e null’altro».

Musiche Ribelli, perché questo titolo?
«Non sono un esperto filologo, però quello che sicuramente posso dire è che in tutte le correnti mistiche c’è un rapporto diretto fra persona e spiritualità. Non esiste l’intermediazione di una istituzione, di una chiesa. In qualche modo, dunque, il mistico, per sua natura, è uno che va contro qualunque istituzione, qualunque forma di verità che viene definita da altri, perché la verità la cerca in prima persona. Ed è proprio questa ricerca non intermediata che ne fa un ribelle. Ciò è molto evidente in periodi come questi, in cui ci sono istituzioni, enti di comunicazione che propongono una narrazione, ma non è detto che questa sia la verità».

Cosa significa EntenHitti?
«È una lunga storia: tra il 1994-95, ci trovavamo in una cantina per suonare cose più o meno nostre, he si rifacevano, in parte, anche al post New Wave, al post Punk di quel periodo. Una delle persone che veniva spesso ad ascoltarci, visto che non avevamo ancora un nome, suggerì di chiamarci I Tipurgo. Non era affatto un nome molto poetico. Il nome è stato storpiato in Itti Purgo e, dopo circa un anno, nel ’96, quando abbiamo iniziato a fare un po’ più sul serio, prima di avere il contratto che sarebbe venuto dopo qualche mese con Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni per produrre il nostro primo disco, abbiamo deciso che Itti ci piaceva, aveva un non so che di esotico, mi ricordava il mondo degli Ittiti, quindi qualcosa di un’area geografica (l’Asia Centrale) anche vagamente misteriosa che aveva a che fare con le origini. Proprio in quel periodo stavo leggendo un libro del filosofo danese Søren Kierkegaard, intitolato Enten-Eller, in italiano Aut-Aut. Parlava della tensione fra etica ed estetica e quindi ci sembrava una buona combinazione usare l’inizio del titolo in danese, quindi Enten, con Hitti, questo mondo delle origini, di una civiltà di cui si sa molto poco, ma che sembra avesse una raffinatezza molto particolare anche negli aspetti esoterici».

Avete sempre coltivato il rapporto tra musica e spiritualità. Per te, dunque, cosa significa fare musica?
«È costruire qualcosa che sia un ponte. Non accade sempre, anzi, molto spesso non succede proprio. Ma talvolta capita che facendo musica si stabilisca un ponte fra l’ordinario quotidiano e lo straordinario non quotidiano. È un accesso per una dimensione diversa, che chiamo senza problemi spirituale, qualcosa che va oltre la materia. Sono energie sottili. Quindi talvolta accade che si inizi a suonare e magari dopo 10, 15, 20 minuti si entri in una dimensione dove le mani si muovono e le note vengono fuori da sole, in una sorta di jazz cosmico. E qui davvero entriamo in contatto con qualcosa che va oltre l’ordinario».

La tua idea di musica si scontra con ciò che è anche la musica, un’attività commerciale. Lo vediamo nitidamente oggi, dove vige il principio del non-pensare, della pigrizia intellettuale, dovuta ai social, alla velocità che obbliga tutto a essere più superficiale. Cosa pensi in proposito?
«Bella domanda! Non demonizzerei troppo il contesto attuale, nel senso che sicuramente quello che si fa sentire di più, ahimè, lo trovo veramente di basso livello, però ci sono molte proposte interessanti, delle vie alternative ostinate e contrarie. Il problema è che non trovano spazio di contatto con il pubblico. A noi capita abbastanza spesso quando facciamo concerti dal vivo, visto che non è detto che chi viene ad ascoltarci già ci conosca. In alcuni casi sì, e allora più o meno sanno cosa aspettarsi, in qualche altro caso no. Tra questi ultimi, spesso ci sono persone che, dopo il concerto ci dicono: “Ci avete colpito molto, ci siamo commossi, abbiamo avuto sensazioni strane…”. Secondo me esiste un’esigenza da parte di una certa fetta di potenziali ascoltatori di entrare in contatto con musiche che non rispondono al canone del mainstream, ma non sanno che esistono, così subiscono quello che c’è, che passa nelle televisioni, nelle radio commerciali e nella maggior parte dei social. Per cui da un lato abbiamo tutto il mondo trap-rap, che pure ha un suo motivo di essere, per lo meno storico, al di là del gusto, che non è il mio. Alcuni testi rap hanno una loro dignità, una forma di protesta che ha un suo interesse. Poi c’è il mondo della musica leggera che, vedi Sanremo, segue la logica dell’usa e getta per una stagione, preferibilmente quella estiva. Esiste anche un mondo di “vecchietti” amanti della musica classica e questi restano nel loro contesto, non hanno contatti. E ancora, il mondo del jazz che magari 25, trent’anni fa era più presente e adesso è un po’ da rivedere, nel senso che l’idea dell’improvvisazione è assolutamente stupenda – anzi, noi spesso iniziamo a costruire brani improvvisando senza nessuna guida – però che senso ha riproporre nel 2025 canoni nati ed elaborati in un certo contesto storico e geografico, negli anni ’30, ’40 e ’50 del secolo scorso rischiando di diventare la colonna sonora in ristoranti vagamente chic?». 

E dunque…?
«Noi non amiamo la musica da sottofondo, qualunque essa sia. Crediamo che la musica sia un veicolo, un mezzo per entrare in una certa dimensione, quindi richiede un’attenzione e una dedizione particolare. In questo senso va anche Mistiche Ribelli rispetto alla modalità di fruizione. È un disco difficile da piacere per alcuni brani in sé, dovrebbe essere ascoltato e apprezzato dall’inizio alla fine, visto che è stato concepito come se fosse un’opera di musica classica: ho 40 minuti di tempo e li dedico all’ascolto, vediamo cosa succede. Esattamente l’opposto di come ci hanno abituato oggi, dove spesso non solo si ascolta un unico brano, ma addirittura soltanto i primi 30-40 secondi, poi si cambia e si va diretti su altro».

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