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Agnese Contini: «La chitarra canta la mia musica»

Agnese Contini – Foto Chiara Vantaggiato

Agnese Contini ha 35 anni, è salentina, di mestiere fa la musicista e la logopedista. Nell’ottobre scorso ha pubblicato un singolo Desert Earth, che segue a un suo primo album pubblicato nell’ottobre del 2023 intitolato Dinamiche di Volo.

Agnese ha una caratteristica: compone solo musica strumentale con la chitarra che suona da quando aveva 12 anni. Ha studiato la classica poi si è abbandonata ad artisti che ama da sempre, a partire da Mark Knoplfer, suo idolo assieme a George Harrison, Nick Drake, John Butler e Jimmy Page, imbracciando anche l’acustica. Blues roots, fraseggi rock unplugged, niente voce. Alla domanda del perché non la usa pur sapendola gestire, si schernisce: «L’ho fatto, ma per ora preferisco parlare attraverso la mia musica», mi dice. 

Dei suoi brani che potete trovare sulle piattaforme streaming vi consiglio di ascoltare Grandpa Cloud, singolo uscito nell’aprile scorso, dedicato al nonno a cui era molto affezionata. Note che emozionano e stupiscono per il loro intersecarsi tra accordi che hanno le dissonanze latine e la costruzione della ballad Americana. E se Dinamiche di Volo è suonato con una band, basso, batteria, pianoforte e la sua chitarra, Desert Earth ha, oltre alla sei corde, l’uso del violoncello, suonato da Ester Ambra Giannelli, usato come basso e armonizzatore.

Agnese perché hai scelto di comporre solo musica strumentale?
«Per risponderti parto dalla logopedia, professione a cui mi sono avvicinata dopo l’università, sai, quelle scelte che fai per un qualche motivo? Sin da piccola ho sempre sofferto di problemi di voce, la perdevo, avevo dei piccoli noduli alle corde vocali. Questo problema mi creava molto disagio perché ero una bambina piena di energia, cantavo, urlavo, ero vivace. Mi bloccavo quando ero in mezzo agli amici, perché non riuscivo a cantare. Tutto questo mi ha spinto a capirne le motivazioni, a scavare in quello che sono. Quando mi sono iscritta a Logopedia non avevo idea del mondo che c’era dietro, è un ambito molto vasto. In parallelo ho coltivato la musica. Ho studiato chitarra classica fin da quando avevo 12 anni, quando mi sono iscritta all’università l’ho dovuta accantonare, con mio grande dispiacere. A un certo punto l’ho dovuta per forze di cose riprendere perché era una cosa per me molto, molto forte, importante. Così ho ricominciato a suonare, creando un punto di contatto tra logopedia e musica che mi ha fatto specializzare in logopedia artistica».

Quindi non canti perché temi di rifarti male?
«In realtà lo faccio ancora. Da bambina cantavo e, non potendo conoscere tutte le dinamiche dell’uso della voce, mi sono fatta male da sola, visto che mi sforzavo tantissimo. In passato ho scritto alcune canzoni che non ho mai pubblicato, anche se le ho cantate in pubblico qualche volta. È un discorso un po’ particolare, forse inconsapevole, c’è la volontà di percorrere anche la strada del canto, ma la cosa che sento di più in assoluto è l’aspetto strumentale: è nelle mie corde, mi sono sempre sentita a mio agio. Mi viene più facile esprimermi così».

Ritorno alla logopedia: cosa significa “applicata al campo artistico”?
«È la gestione riabilitativa della voce utilizzata nell’arte. Da me arriva l’attore, il cantante, il doppiatore che, ovviamente, si è fatto già male e deve curarsi».

Credi che la tua musica possa essere cantabile?
«Me lo chiedono in tanti… No, secondo me, no».

Infatti è una musica piuttosto… “fitta”!
«Esatto, cerco di raccontare qualcosa già con la musica, metterci le parole mi suonerebbe stucchevole. La penso così, probabilmente non lo è. Siamo talmente poco abituati ad ascoltare soltanto la musica! Le parole sono una necessità umana. Non lo dico come vanto di quello che faccio, credo invece sia una ragione molto profonda dell’inconscio umano».

Un pezzo come Grandpa Cloud non ha certo bisogno di parole…
«Mi fa piacere sentirmelo dire, grazie! È un brano al quale ci tengo moltissimo, se mi dici così vuol dire che funziona».

Com’è il tuo modo di comporre?
«Se ho un motivo che mi gira per la testa, cerco di riproporlo subito sullo strumento, o se non ho la chitarra vicina, me lo appunto o lo registro con la mia voce. Oppure, mi metto a suonare la chitarra fino a quando mi imbatto in qualcosa che mi piace e su cui inizio a lavorarci. Quindi passo a smussarlo e definirlo. Una volta concluso, cerco di fare mente locale sulle emozioni che provavo nel momento in cui la musica è scaturita. C’è sempre un motivo per cui mi metto a suonare».

È quello che poi, banalmente diventa il titolo del brano!
«Sì, soprattutto per la musica strumentale decidere il titolo di un brano è sempre un grande lavoro di ricerca».

Ti piace suonare da sola?
«Non è detto, pian piano mi sto aprendo alle collaborazioni. Quello che sto facendo è un progetto strumentale con la chitarra che ho messo su da sola, nato durante il Covid. Il mood era quello solitario per tante motivazioni, non solo per la pandemia. Ciò non vuol dire che non voglio collaborare con altri musicisti. È molto difficile trovare persone che lo facciano in modo attivo con te: è come vivere una storia d’amore, se non funziona bene è assai difficile portare avanti un progetto. Ci devono essere motivazioni molto forti da parte di tutti i componenti. Ora sta a me espandermi un po’, conoscere quante più persone possibili».

In Desert Earth suoni con una violoncellista… Il brano è il primo passo per un album?
«Il violoncello fa da basso e da cassa armonica. Quanto al disco, quello è l’intento. Lo scorso inverno è stato abbastanza fruttuoso, ho registrato nuovi brani e sto continuando a comporre con l’idea di far confluire il tutto in un nuovo lavoro che, piano piano, sta cambiando anche nell’approccio con lo strumento. Spero di pubblicarlo il prossimo anno, chi lo sa!»

Desert Earth è un titolo che implica bellezza e pericolo, il deserto è spettacolare ma non dà scampo…
«Intendo rievocare la solitudine, il fascino del deserto ma anche la sua desolazione. È un brano nato da una serie di riflessioni sul pianeta e sull’ambiente che sta cambiando. Osserviamo tutti questi cambiamenti in maniera passiva, e questo mi ha fatto pensare. Il senso di malinconia e di desolazione fa venire spontaneo chiedersi: “dove andremo a finire se tutti quanti non ci diamo una regolata?”. La musica vuole lasciare uno spazio a queste riflessioni, visto che non si tratta di un cambiamento che avverrà tra cent’anni, ma lo stiamo subendo ora. Pensare di rimanere così impassibili e disillusi è tragico».

Usi sia la chitarra classica sia l’acustica. Predilezioni?
«In questo brano ho usato l’acustica. E poi adoro la chitarra elettrica, la suono molto poco, mi interessa approfondirla. Sto lavorando a fasi, ora è il momento dell’acustico, poi ci sarà quello dell’elettrica che, a dirla tutta, è il mio primo amore: sono cresciuta con quel mito, la suonava mio padre, la custodisco gelosamente e l’ho rimessa a nuovo».

Quanto occupa la musica nella tua vita di ogni giorno?
«Abbastanza, ma non tanto quanto vorrei. Faccio un lavoro che mi prende tempo ed energia, cerco però di ritagliarmi lo spazio necessario per suonare tutti i giorni, anche perché ora sto studiando anche il banjo».

Perché proprio il banjo?
«Mi è sempre piaciuto fin da piccola, da quando ascoltai per la prima volta la colonna sonora del film Deliverance – Dueling Banjos (film del 1972 di John Boorman, ndr): mi sono innamorata. Da allora l’ho identificato come il suono che più mi piace per eccellenza, caratteristiche timbriche e ritmiche».

Come utilizzeresti il banjo nella tua musica?
«È uno strumento che può benissimo accompagnare la chitarra acustica, va a fortificare il ritmo. Il mio intento è proprio quello».

E la chitarra resofonica?
«La adoro, amo tutto quel mondo, la steel guitar. Sono questi gli strumenti che mi appassionano, che mi fanno ribollire il sangue!».

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