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Davide Van De Sfroos, 25 anni di folk, poesia e tanta grinta

Davide Van de Sfroos – Foto Alessio Pizzicanella

Sabato 23 novembre, all’Unipol Forum di Assago, salirà sul palco Davide Van De Sfroos con la sua Mader Band. Non sarà un concerto qualunque, ma la celebrazione dei suoi 25 anni di musica. Che lui ha raccolto in un cofanetto intitolato Van De Best, 49 canzoni che ripercorrono la sua vita artistica e di uomo, pubblicato l’8 novembre scorso, composto da cinque vinili, un taccuino del formato LP di 28 pagine con i suoi appunti, disegni, testi, e una stampa autografata e numerata di un disegno dello stesso musicista. C’è anche la versione Cd con tre dischi. 

Sul palco del Forum Davide salirà per celebrare un rito collettivo con tutti i suoi “adepti”, che sono migliaia. Conquistati in 25 anni, uno per uno, raro e certosino esempio di percorso dal basso: li ha riuniti con il passaparola, grazie alla capacità di trasmettere forti emozioni condivise. Certo, Van De Sfroos è Van De Sfroos! La prova che il folk, seppur rivisto in mille modi, e il cantare in dialetto comasco, il laghee, paga. El laghee a l’è un insema de dialett dela famiglia del Lumbard ucidental dela lengua Lumbarda che ienn parlaa süla riva ucidental del lagh de Comm, trovate scritto su Wikipedia. In un mondo globalizzato la gente cerca appartenenza, oggi a maggior ragione. 

«Sarà una grande festa nella quale vogliamo semplicemente cantare le canzoni che ci hanno sempre fatto andare in giro. Non stiamo tanto a fare i difficili perché in fondo il Forum è un posto da baraonda e non da canzoncine troppo confidenziali, per quello vanno meglio i teatri», parole estrapolate dall’intervista a Davide che potete leggere qui sotto. La riprova che il folk vivrà per sempre: «Sembra che non sia mai di moda ma non può passare mai di moda perché è antropologia pura», spiega. «Quando salta fuori una fisarmonica non puoi fare a meno di cantare. In una piazza se senti suonare un violino e una chitarra nasce spontanea una danza. Puoi essere nel tempo del rock, del punk, della dance, delle discoteche, della musica finta, del rap, della trap ma quando ti trovi in un contesto folk, gente, piazza, unione, ritorno alle origini, ti trovi a fare quello che facevano i nostri nonni. È una continuità culturale».  

L’appuntamento per l’intervista è alle tre del pomeriggio. Quando lo chiamo è in auto: «Sto girando tra i miei boschi, lo faccio sempre quando mi devono intervistare. Qui trovo l’ispirazione e la tranquillità per raccontare», esordisce.

Davide perché Van The Best?
«È chiaro che dopo tutti questi anni, al di là di qualsiasi paturnia dell’artista o momento nel quale si ha bisogno di un bilancio o di un ripensamento, c’erano dei pezzi che, fisicamente, di giorno e di notte, e anche in sogno, mi inseguivano dicendomi: “Forse è arrivato il momento di ricordarci. Siamo esistite anche noi, sono passati tutti questi anni e un po’ di strada insieme l’abbiamo fatta. Anche perché, Davide, con alcuni di noi sei andato a braccetto tutti i giorni – non potevano certo mancare da una scaletta – ma tutti gli altri? Quelli che ritornano fuori soltanto una volta ogni quattro, cinque anni? Avranno pure loro bisogno di essere spolverati, ripresi e riguardati!». 

E così hai fatto!
«Già, ma per farlo non è che puoi semplicemente ridurti a un copia/incolla. Infatti devi chiederti, arrivato a oggi, come interpreterai, vestirai tutte queste canzoni del passato che sono state così importanti allora. Quindi, ho deciso: l’unica cosa che posso fare è mettermi lì con un bel po’ di musicisti, con tre piattaforme distribuite su tre studi diversi e, durante l’estate e la primavera, dedicarmi a questo lavoro che è stato potente, proprio perché ho scoperto che mi calzano ancora, mentre non posso dirlo per alcuni abiti riposti nell’armadio! Mi sono messo veramente in gioco anche per rispetto di chi si compra i cofanetti con gli LP o iCd».

La cover del taccuino ideato da Davide, parte del Cofanetto

Troverà anche uno dei tuoi mitici taccuini!
«Su questa cosa ho spinto tantissimo. Mi son detto: “Se uno affronta una spesa del genere non può trovare solo tre foto dal vivo, dovrà avere qualcosa di mio, va bene l’autografo, ma vorrei che trovasse quello che uso per arrivare poi a una canzone, quaderni con ritagli, fotografie, appunti. Ho creato 28 pagine, una per una su cartoni grandi quanto un disco che, mano a mano, portavo dal grafico che le componeva. Vedevo profilarsi ciò che avevo sempre sognato: fare un libro così, ma gli editori, alla mia richiesta, hanno sempre arricciato il naso perché “i libri illustrati costano tanto e vendono poco”. Cioè, mille balle! Ora so che, a costo di pagarmelo io, lo devo fare esattamente così, perché è quello che l’ascoltatore vuol vedere per capire fino in fondo una canzone. Per me è stata una grande spinta e ho avuto un feedback pazzesco. Molti mi hanno detto: “Non ho nemmeno il lettore di vinili ma, pur di avere questo oggetto, l’ho comprato”. Ti fa capire che il collezionista, quello che desidera ancora qualcosa di tangibile nel mondo liquido dell’ascolto odierno, ha bisogno di aggrapparsi a queste cose. La maggior parte delle persone che mi seguono sono “dei miei tempi”, usmatori di vinili. Poi, la comodità della musica liquida è una pacchia, ma ti toglie tutto il rituale, la fisicità emotiva che avevi».

Che cosa hai pensato mentre rivestivi queste 49 canzoni?
«La prima, anche con un po’ di soddisfazione, che le canzoni, per tematiche e personaggi trattati, non avevano scadenza, la gente le vuole riascoltare all’infinito perché sono nate per ricordare dei momenti. Poi mi sono reso conto ancora una volta – io, che non sono un autore che passa per radio e che non fa un prodotto pop di massa – che tutto quello che è successo è sempre avvenuto in tempo reale, su palchi reali, con dischi reali e persone reali che hanno regalato il disco ad altri, in uno straordinario passaparola. Non è stato uno sforzo da niente: dal punto di vista della popolarità nessuno ci ha regalato niente, abbiamo dovuto scavare con l’aratro di luogo in luogo, di paese in paese, fermandoci a parlare con la gente, specialmente quando eravamo molto lontani da casa e non ci conoscevano e avevano tante domande. Questa è la forza che poi ritrovi nel taccuino e nel disco fisico». 

Forse oggi sarebbe stato più semplice con i social e gli streaming…
«Certo, se avessi avuto la musica liquida ai miei tempi probabilmente sarei andato fuori di testa, ne avrei fatto un abuso, conoscendomi. Però, sai che ti dico? Non farei cambio! Quando, ragazzino, arrivavano le diecimila lire dallo zio e tu, a trenta chilometri da Como dicevi: caspita ho ancora valido l’abbonamento scolastico della corriera! Così ti facevi 60 chilometri, andata e ritorno, per comprare il nuovo disco dei Van Halen, perché avevi letto su Ciao2001 che era uscito, e non vedevi l’ora di ascoltarlo! Il viaggio di ritorno te lo ricordavi, incominciavi a fantasticare, a leggere il libretto e tutti i risvolti nascosti del disco. E poi finalmente lo mettevi sul piatto, chiamando gli amici che, con il registratore, ne facevano una cassetta. Non è feticismo, ma era qualcosa che prendevi in mano, solida. Era come avere in mano una pepita d’oro invece di un bonifico di migliaia di euro, che fa molto comodo ma non lo puoi toccare. Siamo cresciuti con questa tangibilità della musica, senza parlare della qualità, dell’analogico, degli impianti fatti in un certo modo, di come ti posizionavi ad ascoltare. Ora c’è chi ascolta con cuffiette, cuffiotte, lo faccio anch’io mentre corro o cammino. Lì invece c’era un qualcosa d’altro, il luogo fisico diventava un tempietto dove si consumava il rito dell’ascolto».

Cosa ti hanno dato 25 anni di musica come uomo?
«Sicuramente la consapevolezza del fatto che l’emotività e la poetica delle cose che attraversi sono un ottimo quaderno su cui fissare i momenti della vita, anche quelli un po’ più depressivi, drammatici, periodi di pace, di guerra, di pandemia, dove sei giovane e forte e altri in cui non ti senti molto bene ma devi trovare la forza per restituire energia a chi te ne ha data tanta per continuare. Usare i dischi come totem come oggetti nei quali vai a interpretare il tuo tempo, può essere un’opportunità importante perché ti permette di essere un vero e proprio navigatore».

E della musica cos’hai capito dopo 25 anni?
«Che le canzoni sono come le foglie, appena nascono devi dar loro un po’ di tempo per farle sbocciare, per farle crescere. Appena arrivano non te ne accorgi, poi diventano più vecchie, ruggini, gialle, rosse. Il loro apice lo raggiungono quando vengono conosciute. E, quando si staccano dal ramo, diventano poesia pura, non le dimenticherai mai più. La musica è come i serpenti o i pesci del lago, un animale sfuggente. C’è una musica che ti entra e ti nuota dentro e un’altra che non ti entrerà mai perché emotivamente non ti arriva, ma farà stare benissimo qualcun altro! Se qualcuno mi dice che è innamorato di questo o di quell’artista mi fa solo commozione. Non mi piacciono i Savonarola dell’ultima ora che si ergono a parlare male di tutto quello che è il nostro tempo della musica. Non è vero che c’è solo spazzatura – che purtroppo spesso sentiamo! Ci sono musicisti grandiosi che non hanno quelle visibilità. E sono molti di più oggi di allora. È pieno di geni, solo che sono talmente tanti da non riuscire ad ascoltarli tutti. I ragazzi oggi ascoltano poesie metropolitane, anche lì ci sono veri e propri geni e poveracci che ci stanno provando. Com’era ai nostri tempi. Andiamo a ripescare certi dischi e guardiamoci allo specchio per dirci, sinceramente, che grosse cazzate abbiamo acquistato nel corso della nostra vita solo perché le radio le trasmettevano. Come dicono i vecchi, Zucche e meloni le loro stagioni!».

A proposito di vecchi: per te ha senso ancora cantare in un dialetto come il laghee in un mondo così globalizzato?
«Proprio perché il mondo sta sfuggendo di mano su tante cose, molte delle quali mi fanno sentire un alieno, ed è colpa mia lo ammetto, mi attacco fortemente a tutto quello che mi ha esaltato da giovane e che continua a rimanere il mio rifugio. Ti basti capire che vado al bar dove posso trovare gli ultrasettantenni e ultraottantenni che sono i miei amici. Se vogliamo, oltre a essere una cosa anacronistica, strana, è anche pericolosa perché quando hai degli amici che cominciano ad avere più di novant’anni non sei neanche così sicuro di ritrovarli il giorno dopo… ma vale lo stesso anche per noi: la vita non è una scienza esatta, quello che vale per loro vale anche per noi. Io ho bisogno di loro e loro lo capiscono».

Cosa dicono di te?
«Mi trattano come una persona che li frequenta spesso e, da vecchi saggi ridono, scherzano, prendono in giro. Quando salta fuori la chitarra cantiamo le canzoni del loro tempo, non le mie. Qualche volta le suono, quando me lo chiedono. Non voglio andare lì con la mia corazza di Van De Sfross, ma per tornare a quando loro erano “i grandi” e io il bambino. Questo lo capiscono e lo rispettano».

Cosa dicono invece i tuoi tre figli?
«Sono abbastanza misteriosi in quello. Hanno sempre ammirato il fatto che faccio un lavoro un po’ fuori di testa, insolito. Amano tutti la musica, uno suona molto bene la batteria ma solo, nascosto in taverna; un altro ama il cinema, s’è cimentato nel girare video musicali. Tutti hanno sempre una cuffia in testa. Non è che ascoltano me, però qualche volta accade, con il passare del tempo vanno a curiosare, a sentire cos’ho inciso, lo fanno per conto loro, com’è giusto che sia. Per quello che mi riguarda hanno un temperamento artistico e una visione abbastanza psichedelica e libera della vita, quella che ho cercato di insegnare loro. A casa hanno sempre trovato tutta la musica che volevano. Il più grande, Pietro, è andato a vedere tanti di quei concerti che io in 60 anni non ne ho visti nemmeno un quarto. Gliel’ho fatto notare e lui mi ha risposto: “Sì ma tu i concerti li hai fatti!”».

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