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Antonio Faraò, con Tributes emozioni in jazz

La parola “tributo” porta in sé il concetto di corresponsione. In senso affettivo, più che un’azione materiale è un’offerta per qualcosa di bello e di positivo che si ha ricevuto nella vita e che merita, dunque, un atto di riconoscenza. Proprio in questa direzione va Tributes, lavoro firmato da Antonio Faraò, uscito il 14 giugno scorso, pubblicato dalla prestigiosa etichetta jazz olandese Criss Cross. Dieci brani per un’ora e quattro minuti di ascolto, otto originali e due standard, I Love You e Matrix, con i quali il pianista e compositore romano ha voluto ringraziare tutti quei musicisti (e luoghi) che hanno segnato la sua formazione artistica e umana.

Un lavoro complesso, d’altronde Faraò da sempre ci ha abituati a esperienze emotive e musicali mai banali, grazie a quel suo sicuro incedere jazz, dove il linguaggio conta, le dita volano e le note esplodono in mille fuochi d’artificio. Jazz da ascoltare, jazz fatto per emozionare, jazz usato per raccontare. 

Suoi compagni di viaggio, riuniti nel classico trio, sono due nomi “pesanti” del jazz mondiale, John Patitucci al contrabbasso e Jeff Ballard alla batteria. I tre si conoscono da tempo, sono praticamente coetanei, John classe 1959, Jeff 1963 e Antonio 1965, hanno suonato con il gotha del jazz internazionale del Novecento, hanno ascolti comuni e tra loro un rapporto comunicativo profondo che li porta a narrare storie che conoscono bene, in alcuni casi hanno contribuito addirittura a  scriverle, e che sanno raccontare con il cuore e con l’esperienza.

Tributes poggia saldamente su tre cardini, che poi sono il Faraò-pensiero: l’ispirazione viene dal ricordo personale di tempi fuggiti, innovare non significa necessariamente stravolgere, la trasmissione delle emozioni è fondamentale quanto la tecnica musicale. Lo spiega bene lui stesso nelle note al disco: «In questo nuovo progetto ho voluto rendere omaggio ad alcuni grandi musicisti che nel corso degli anni mi hanno regalato forti emozioni artistiche e umane, oltre che ad alcuni luoghi, come Calvì, dove ho avuto modo di conoscere altri formidabili musicisti della scena jazz francese, tra cui i grandi Didier Lockwood e Michel Petrucciani, a cui dedico Memories of Calvì. Sono entusiasta dell’opportunità di presentare questo album con due musicisti straordinari come John Patitucci e Jeff Ballard. È un progetto che ho sviluppato negli ultimi due anni e realizzato grazie a Christophe Besson che ha subito creduto nella mia musica, occupandosi con grande supporto della co-produzione con Jerry Teekens, proprietario della prestigiosa etichetta discografica Criss Cross Jazz Records, nonché, a mio avviso, uno dei pochi produttori autentici rimasti».

Ascoltare il lavoro di Antonio tenendo questi riferimenti è la chiave per entrare in connessione con l’artista fin dalla prima traccia che è quella che dà il titolo all’album, Tributes. 

Dalle prime battute è chiaro che siamo nel mondo post-bop e che gli artisti a cui è rivolto l’omaggio sono quei musicisti che hanno fatto della fisicità dell’esecuzione e dell’agilità dell’interplay il tratto più evidente. Si sente il tocco di McCoy Tyner, soprattutto nell’uso potente della mano sinistra, Patitucci e Ballard sono a loro agio in questa corsa libera nelle praterie dell’improvvisazione. E se in Right On Antonio esplicita la sua passione per Chick Corea, in Tender, una ballad struggente, melodica al punto da vederci bene una voce, magari quella di Dee Dee Bridgewater, il ricordo del piano vellutato di Bill Evans è immediato, ed è un’emozione rialimentata dal lungo solo di Patitucci mentre Ballard lavora di piatti con perfezione mistica.

Nel disco non può mancare, per quello che si accennava giusto qui sopra, l’omaggio a McCoy Tyner, MT, un jazz vitale per dipingere il pianista di Filadelfia, un blues veloce e gioioso. Come in Tributes anche qui la mano sinistra del pianista fa un grande lavoro “percussivo”, spingendo la destra a sviluppare l’incedere veloce e sicuro di Tyner, quel modo tutto suo di volare sui tasti “spazzolandoli”. C’è anche, come accento dallo stesso artista, il ricordo dedicato a Michel Petrucciani in Memories of Calvi: Antonio lo ha incontrato nel festival della città corsa e ne è rimasto affascinato. Atmosfere brasiliane, Jeff Ballard si diverte su un tempo samba, creando una ritmica che invita al ballo e all’ascolto. Procedendo verso le ultime “pagine” di questo personale e vivace ricordo in note si trova la splendida Syrian Children: in piano solo, il brano scritto guardando le atrocità commesse in Siria è di una chopiniana, ipnotica, profonda malinconia.

Song for Shorter, brano che Faraò ha pubblicato in Viaggio Ignoto, suo primo lavoro discografico uscito nel 1991 in quartetto, è un altro de suoi personali doni, indirizzato a Wayne Shorter. La trasposizione in trio, senza il sassofono allora suonato nel disco da Emanuele Cisi, punta sul linguaggio del geniale sax degli Weather Report, espresso dal preciso contrabbasso di Patitucci (che per inciso ha suonato nel quartetto di Shorter), dai ricami di Ballard e dalla elegante “voce narrante” di Antonio.

I due standard, infine, sono rivisti dal trio con consapevolezza filologica: per I Love You di Cole Porter Antonio s’è rifatto all’arrangiamento swingante di Herbie Hancock (suo amico di vecchia data), scritto nella prima metà degli anni Novanta, dove il pianista americano suonava con Craig Handy al sax, Dave Holland al contrabbasso e Gene Jackson alla batteria. In Matrix di Chick Corea, brano che il geniale pianista americano di origini calabresi pubblicò nel suo secondo lavoro di studio Now He Sings, Now He Sobs (1968) considerato uno dei riferimenti indispensabili per i pianisti jazz, c’è il tributo nel tributo: Patitucci e Ballard lo avevano suonato in trio proprio con Corea, degna conclusione di un album praticamente perfetto.

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