Segnatevi in agenda: domani è la Giornata Internazionale del Jazz! Un genere musicale che, nonostante l’apparente – e ingiustificato – elitarismo, ha la capacità, proprio per essere alla continua ricerca dell’altro, di unificare, raccordare e fondere culture e popoli. Così hanno pensato 13 anni fa la Conferenza generale dell’Unesco, che l’ha istituita, e l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, che l’ha riconosciuta.
Quest’anno, prima volta per il Continente africano dalla nascita del Jazz Day nel 2011, l’All-Star Global Concert, viene celebrato a Tangeri, in Marocco, nel nuovo Palazzo delle Arti e della Cultura, e trasmesso in streaming sulla pagina Facebook dedicata, all’indirizzo jazzday.com, dove trovate anche news e partecipanti, e sui siti dell’Onu e dell’Unesco.
Il mattatore/organizzatore nonché Ambasciatore di Buona Volontà dell’Unesco è il mitico pianista americano Herbie Hancock, che ha convocato con lui sul palco l’eccellenza del jazz mondiale sotto la direzione musicale di un altro pianista, John Beasley. Uno di questi musicisti, unico italiano presente, è Antonio Faraò, ormai alla sua terza partecipazione all’evento. «Mi ha chiamato lo stesso Hancock, ed essere lì è un grande onore», mi racconta. Insieme ad Antonio parteciperanno, tra i tanti, gli americani Dee Dee Bridgewater, Marcus Miller, Lakecia Benjamin, Shemekia Copeland, Kurt Elling, il camerunese, Richard Bona, il brasiliano Romero Lubambo, il giapponese Yasushi Nakamura, il libanese Tarek Yamani, il coreano JK Kim, lo svedese Magnus Lindgren e il marocchino Abdellah El Gourd, maestro della musica Gnawa, fondatore di un etno-jazz tutto particolare.
Ho fatto una veloce chiacchierata con Antonio alcuni giorni fa. Aveva appena fatto un concerto a Piacenza, uno di quei ritorni inaspettati: «Ho suonato con Claudio Fasoli, ed è andata molto bene, ci siamo ritrovati, dopo 40 anni che non suonavano più insieme», mi dice. Faraò è uno dei pochi jazzisti italiani riconosciuto nel mondo, ha suonato – e suona – con il gotha della musica jazz ma anche con giovani musicisti che lui segue, incentiva e promuove. Suona un piano limpido e riconoscibile, fisico, ritmico, potente, ama le cascate di note, le allegorie fantastiche, il correre libero sulla tastiera. Il suo modo di vivere la musica rilascia endorfine ed emozioni, incantando l’ascoltatore e inchiodandolo alla poltrona. Forse sarà per questo suo stare nel mondo del jazz che ha attirato la stima e l’amicizia di Hancock.
Antonio, per la terza volta unico italiano in questo parterre di musicisti incredibili!
«Per me è un grande onore partecipare a questo evento incredibile con il cast di musicisti che hai visto. È stato un grande onore ricevere l’invito direttamente da Hancock».
Cosa porterai?
«In realtà nulla. Lì si creeranno delle band composte dai diversi musicisti partecipanti. Al momento non so ancora con chi suonerò».
Digressione: devi pubblicare un disco quest’anno, o sbaglio?
«Esce a fine maggio per l’olandese Criss Cross Jazz, storica etichetta. L’ho registrato a fine luglio 2023 con John Patitucci al contrabbasso e Jeff Ballard alla batteria. Si chiama Tributes, tributi a musicisti che purtroppo non ci sono più e con i quali ho avuto a che fare a livello professionale e che umanamente mi hanno dato tanto, parliamo di gente come McCoy Tyner, Chick Corea, Wyne Shorter».
Cosa sta cambiando nel jazz attuale?
«Non sono molto aggiornato su quello che succede. Quello che sento e che vedo sui social è che viene spinto il solito discorso commerciale, visto che tutto ruota intorno al numero di follower. Se devo essere sincero ascolto la musica degli anni Sessanta e Settanta, c’è ancora molto da imparare da quei periodi. Oggi ci sono i mezzi, le scuole, c’è un livello artistico nettamente superiore, ne parlavo proprio con Claudio (Fasoli, ndr). Il problema è che manca tutto il resto, cioè una solida cultura musicale, spesso i giovani jazzisti sanno chi sia Michael Brecker ma non John Coltrane. Studiano, arrivano a livelli molto alti, sono in grado di suonare qualsiasi brano ma, se parliamo di jazz, non è soltanto quello l’imprinting necessario: ci deve essere uno spessore dentro che va oltre allo studio, alla preparazione sullo strumento. Ti faccio un esempio: Emmet Cohen (giovane pianista americano, ndr), ha una preparazione pazzesca, il suo suono rimane sull’hard bop. Così percepisci mille stili, ma non senti che suona lui. Ascolti una cosa fatta all’Art Tatum, un’altra alla Erroll Garner, un’altra ancora alla Oscar Peterson ma nulla che esprima di fatto la sua personalità. Quindi, tu mi chiedi: cosa c’è di nuovo? Ti rispondo che purtroppo lo standard è questo qui».
C’è anche un altro “problema”: oggi quando parli di nuovi progetti jazz, questi sono in gran parte incanalati nel cosiddetto “contemporary”…
«Ascolta quello che faceva Miles Davis negli anni Sessanta: è moderno adesso, e lo sarà anche tra 20 o 40 anni. Per quello che ti dico che il jazz lo percepisco ancora in quei periodi lì, poi certo, lo vivo in modo attuale. Vengo dalle influenze di Miles e Coltrane. Davis me lo sono “masticato” bene! E lui era molto influenzato da certa musica classica alla Bartók, Debussy, lo avverti nelle loro composizioni e in quelle di Wyne Shorter, per esempio. Quello che oggi è definito attuale, contemporaneo, per me è vecchio, non trovo nulla di innovativo».
Cioè non c’è fantasia? Si rifanno a quello che suonavano altri prima di loro?
«Magari lo facessero, non c’è proprio la cultura del passato. Non so quali musicisti abbiano ascoltato però… ecco, diciamola così, manca l’anima, la capacità di emozionare».
L’artista che mi sta emozionando di più oggi è Amaro Freitas… Uno che ha sudato per riuscire a studiare ed emergere, visto che viene da una umile famiglia di Recife, in Brasile.
«Certe cose belle, emozionanti, arrivano anche dalla sofferenza, vivere agiati sicuramente non aiuta un artista. Solo con la “gavetta” raggiungi certi risultati artistici. Quando hai tutto “comodo”, facile, quel lato emozionale, toccante, fondamentale per essere un grande artista, spesso non c’è».
International Jazz Day: che senso vedi in queste ricorrenze?
«Il jazz è una delle poche musiche al mondo dove non ci sono frontiere. Anzi, più questa musica è influenzata e più diventa affascinante, più le culture si mischiano, meglio è. È forse l’unico genere musicale in cui succede ciò costantemente. Questo modo d’agire dovrebbe valere anche per altre questioni, politiche e culturali, parlo soprattutto di razzismo; pensa che bello sarebbe se si applicasse lo standard jazz a tutto ciò che coinvolge la nostra vita. Una musica senza frontiere, senza differenze di pelle o di idee, anche se alcune volte non è così persino tra noi artisti. Per quanto mi riguarda, il jazz dovrebbe essere un confronto continuo con l’altro, tendere all’unione. Dovrebbe essere utile soprattutto in questi momenti tristi che stiamo vivendo, il jazz è un messaggio di pace».