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La Buona Novella: De Andrè secondo i Perturbazione

I Perturbazione – Foto Luigi De Palma

Il 22 marzo scorso i Perturbazione hanno pubblicato un disco commovente. Il master di un concerto tenuto nel 2010 a Varallo Sesia in occasione dei 40 anni dall’uscita de La Buona Novella, concept album di Fabrizio De Andrè. 

Inutile dire che mi sono fiondato subito ad ascoltarlo. Cosa che mi ha fatto venire voglia di tornare a immergermi “nell’ellepì” originario, per me uno dei dischi dirimenti di Faber. In quel concerto dei Perturbazione c’è anche Nada con una versione dell’Ave Maria e di Maria nella Bottega di un falegname da brividi e ne Il Testamento di Tito, Alessandro Raina in Il ritorno di Giuseppe, Via della Croce e Il testamento di Tito e Dario Mimmo alla fisarmonica, bouzouki, tastiere e cori. 

Nel 2010 la band piemontese contava ancora sei elementi, Elena Diana al violoncello e cori e Gigi Giancursi alle chitarre e cori. Oggi che son rimasti in quattro La Buona Novella trova un’altra prospettiva grazie alla fantasia e agli arrangiamenti di Tommaso Cerasuolo, i fratelli Cristiano (chitarre e synth) e Rossano Lo Mele (batteria) e Alex Baracco (basso).

Il disco originale, a cui la band s’è attenuta con arrangiamenti filologici seguendo giustamente la modalità sonora dei Perturbazione, lo considero uno dei miei album irrinunciabili in una biblioteca sonora. E vicino ci metterò anche questa versione, intensa come la prima. Per quello che ha rappresentato ai tempi dell’uscita, erano tempi di dura contestazione a cui peraltro De Andrè non si è mai sottratto (intervenendo ovunque, tra studenti, lavoratori, oratori, comuni), e per la musica, un prog-rock latente a cui parteciparono oltre al mitico arrangiatore Gian Piero Reverberi, anche un giovane Angelo Branduardi come turnista, e I Quelli, band che pubblico un solo LP ma che vedeva, allora nella sua formazione, Franco Mussida, Franz Di Cioccio, Mauro Pagani, Giorgio Piazza, Flavio Premoli, la futura PFM, con cui Faber ebbe un legame speciale. 

Come si legge nelle note d’autore del disco scritte da De Andrè: 

«Da qualche parte troverete scritto “a cura di”, “arrangiamenti di” e qualche altra doverosa e professionale gratitudine stampata da una macchina disperata, senza amici. Io ho degli amici: Roberto Dané, che ha usato l’intelligenza per censurare e suggerire, l’affetto per stimolare e convincere e infine il forcipe, perché questo lavoro diventasse un lavoro finito, perché nascesse; Gian Piero Reverberi, che ancora una volta ha saputo vestire di musica la mia consueta balbuzie melodica; Corrado Castellari e Michele ai quali devo un’idea per la musica del testamento di Tito; Franco Mussida-chitarra, Franz Di Cioccio-batteria, Giorgio Piazza-basso, Flavio Premoli-organo, Mauro Pagani-flauto del complesso “I Quelli” ed il chitarrista Andrea Sacchi che dopo due giorni di distaccata collaborazione hanno dimenticato gli spartiti sui leggii e sono venuti a chiedermi “perché hai fatto questo disco, perché hai scritto queste parole”. Anche con loro la fatica comune si è trasformata in amicizia: da quel momento»

L’eredità di un lavoro così ingombrante l’hanno presa i Perturbazione facendone un disco altrettanto meraviglioso e nuovo. «Lo avrebbe voluto così De Andrè, era uno che tendeva a umanizzare il sacro, nella religione come nella musica», mi spiega Tommaso Cerasuolo, leader  e voce della band.

Perché l’avete pubblicato solo ora?
«Nel 2010 eravamo piuttosto attivi su un disco di inediti che avevamo pubblicato e che si chiamava Del nostro tempo rubato. La registrazione del concerto de La Buon Novella è finita nel cassetto. Se non ci fosse stata la pausa del Covid, un periodo di riflessione e ascolto, invitati dai fonici che ci consigliarono di riascoltarlo, probabilmente sarebbe rimasto dov’era». 

Com’è nato il progetto?
Alberto Jona, musicologo di Torino, ci contattò, incaricato dalla scuola Holden: stava organizzando un evento per il quarantennale del disco di De Andrè, a Varallo Sesia, dove era stato appena restaurato il complesso di Betlemme (cappelle della Natività, dell’Adorazione dei Pastori e dell’Arrivo dei Magi, ndr) nel Sacro Monte. Alberto suggerì una cosa molto interessante, intelligente: “È un disco corale, nel senso che se è vero che Gesù Cristo è al centro è anche un grande assente centrale, nel senso che non parla mai, parlano gli altri di lui. L’ascoltatore poi si fa un’idea della complessità che c’è attorno a una figura così rivoluzionaria. Sarebbe bello che attorno alla tua voce, Tommaso, ce ne fossero altre, voci giovani e femminili, perché tanti personaggi di questa storia sono donne!”. Così abbiamo chiamato Alessandro Raina, degli Amor Fou, avevamo suonato insieme nei Giardini di Mirò, e poi Nada che aveva lavorato con noi a uno spettacolo chiamato Le città viste dal basso e che accettò con entusiasmo. Fu un grande regalo. L’intenzione fu quella di registrarci, la serata fu molto bella, ricca, con noi c’erano l’attrice Paola Roman che si dedicò alle letture dei Vangeli Apocrifi e don Carlo Scaciga che raccontò un lato molto interessante degli anni in cui De Andrè pensò e pubblicò quella storia. Scaciga era stato ordinato prete nel 1966, quindi aveva vissuto tutta la stagione del ’68: avevano invitato Fabrizio a un incontro con gli studenti del Verbano-Cusio-Ossola, a Verbania. De Andrè accetto dicendo quello che diceva sempre: “Vengo, parlo ma non suono, lo sapete non sono un uomo di spettacolo”. Poi, prese chitarra e coraggio e si mise a suonare. È buffo perché quando parli di personaggi come De Andrè, che fanno parte del DNA italiano, si tende a sacralizzarla perché ne vediamo tutta la complessità della loro figura. Dobbiamo immaginarlo in quel contesto, aveva già composto alcune delle sue ballate più importanti, aveva 30 anni, aveva già pubblicato i suoi due concept album, Tutti morimmo a stento e La Buona Novella, ed era stato criticato: “Ma come, con tutto quello che succede adesso, politicamente, tu ti metti a parlare di questa storia vecchia che non ci interessa?”, dicevano. Poi è stato capito da tanti. Era uno che sapeva parlare con tutti, sapeva creare ponti attraverso le domande. Era sempre interrogativo, alla verità ci arrivavi tu da ascoltatore».

Musicalmente La Buona Novella è stato un album di rottura. Possiamo definirlo un embrione del prog-rock italiano. Un lavoro all’avanguardia in quel momento grazie anche a Gian Piero Reverberi…
«In quegli anni si discuteva molto di questioni religiose. Nel ‘64 era uscito Il Vangelo Secondo Matteo di Pasolini, nel ’65 Dio è morto di Guccini, nel ‘74 Jesus Christ Superstar di Tim Rice e Andrew Lloys Webber, con l’idea di affermare che dietro a questi personaggi come Cristo c’erano delle persone, si volevano umanizzare delle figure sacralizzate. Musicalmente De Andrè è sempre affascinante perché il suo timbro ci arriva forte, chiaro, caldo. È stato un artista che si è messo molto nelle mani di chi ha collaborato con lui. Effettivamente, poi, l’incontro con la futura PFM avviene in quel disco e va avanti nel corso degli anni Settanta. Negli arrangiamenti di Reverberi in qualche modo c’è un taglio cinematografico, figlio sempre di quel periodo, con capofila Ennio Morricone, e tutta quella generazione di compositori che stava scrivendo per il grande schermo».

Come vi siete approcciati all’arrangiamento della Buona Novella?
«Abbiamo lavorato facendo nostro il pensiero di De Andrè, che odiava sacralizzare, facendo suonare quelle sue sonorità con le nostre corde. Per noi, come eravamo allora, era più facile restare nel solco della parte più acustica. Avevamo il violoncello di Elena Diana che è stato davvero prezioso, era con noi Dario Mimmo polistrumentista di Torino che suonava bouzuki e fisarmonica. Tutta la prima parte del disco, quella dell’infanzia di Maria, dove ci sono tutte le domande di De Andrè, su chi siano gli adulti che vedono nascere e crescere Gesù, quale fosse la loro vita, è molto più “filologica”. Nella seconda, quella della passione, i nostri suoni, mano a mano che arrangiavamo e prendevamo il coraggio, occupavano più spazio, per far cantare Fabrizio con le nostre voci e le nostre personalità».

In effetti Via della Croce è quella che ha avuto l’arrangiamento più “pesante”!
«Sì, in alcuni brani ci siamo presi più licenze. La cosa importante era rispettare la linea narrativa del disco, conservare integro l’impianto ma non sacralizzare Fabrizio De Andrè, perché questo è un lavoro sulla desacralizzazione dei personaggi del Vangelo. Immaginare l’artista canonizzato non gli fa un gran favore visto che ha sempre cercato di tirare giù dagli altarini tutti i protagonisti delle sue canzoni! Nella misura tra personaggi e persona c’è tantissimo della sua narrazione. Cosa peraltro attualissima, se pensi a tutta la distanza che c’è tra la nostra quotidianità e gli schermi attraverso i quali ci descriviamo. Ci sono domande interessanti in questo lavoro ancora oggi».

Chissà come Faber avrebbe cantato i social!
«Avrebbe continuato a fare quello che ha sempre fatto. La sua è una musica aperta. Lo dimostra il fatto che a 14 anni di distanza lo stiamo suonando ancora, riadattandolo alla nostra attuale formazione. Per esempio, facciamo ricorso alla chitarra baritona con degli accenti un po’ più tex-mex, western, armonica a bocca, cose più cinematografiche. Ci siamo gustati il fatto di suonarle in questo modo, sempre con la volontà di non sacralizzare. Magari qualche volta Nada ci farà il regalo di cantare con noi…». 

L’Ave Maria cantata da Nada è un gioiello, invece dell’orchestra avete usato l’organo e il violoncello! Così come Maria nella bottega di un falegname… Nell’originale di Faber ci sono dei cori che secondo me Lloyd Webber ha preso per il suo Jesus Christ!
«Vero! Quel modo di scrivere era nell’aria. Se guardi il cinema di quegli anni si arrangiava in quella direzione. Ci sono cose che ritornano da un lavoro all’altro».

Come vi orientate nella musica attuale?
«Ci disorientiamo, vorrai dire! (dis)amore, ultimo disco di inediti, è uscito a maggio 2020 in piena pandemia. Il periodo del Covid è stato di arresto e di ascolto, anche perché siamo in un’età anagrafica – sono del 1972 – in cui ci si prende cura dei propri genitori… Quest’ansia dei numeri, di dover sempre toccare la spalla di qualcuno per dire ci sono, ci sono, ci sei?, mi mandi un cuoricino, non ci appartiene. Ci siamo detti: in fondo quest’epoca ci ha fatto bei regali, artisti come i Radiohead o Matt Johnson, che ogni tanto pubblicano una ristampa, fanno un post lo annunciano e poi non li senti più. Ma perché non si può fare così, cosa abbiamo da perdere? Godiamoci il presente, cerchiamo di viverlo appieno, qui e ora, senza dover sempre inseguire o rimpiangere un passato che non rimpiangiamo, come abbiamo fatto con La Buona Novella nel 2010 e stiamo rifacendo ora adattandolo a noi, ed è un piccolo regalo del tempo, possibilmente senza guardare per forza così in avanti, al prossimo lavoro, al prossimo disco. È difficile essere nella contemporaneità e capire che cosa rimarrà nella storia come è successo alla Buona Novella». 

Quale sarà la colonna sonora del nostro tempo?
«Magari l’autotune che ci restituisce esattamente, al di là di chi canta, la cifra di questo momento, il brivido – non per forza positivo – di che cosa significhi vivere oggi. È sicuramente un tempo estremamente frammentato e anche, visto quello che sta succedendo a livello geopolitico, purtroppo molto inquietante. Lo dico da genitore, essere ragazzi oggi non è semplice, quello che ti sta raccontando il presente è che il futuro a venire non sembra essere volto a un progresso ma a una sorta di reversione collettiva. È spaventoso, però bisogna appellarsi a tutte quelle che sono le storie come quelle della Buona Novella, metafore che ci aiutano a capire il potere che sempre strumentalizzerà l’uomo e le sue storie personali per farne una narrazione che è dottrina, propaganda. Ecco perché i classici rimangono classici!».

Il problema nella musica che tu hai riassunto in un’unica parola, autotune, è lo sfruttamento immenso di presunti artisti e una solitudine autoreferenziale anche nei testi. Siamo in un tempo di passaggio dove l’Intelligenza Artificiale è l’unico argomento…, Spotify ha aperto un canale di musica fatta solo con l’IA…
«Con gli amici ne parlo spesso. Siamo esseri umani e ci copiamo sempre, se ascolti la radio, nove canzoni su dieci non sono buone, però una sì! Quindi è facile che le macchine che ci copiano generino nove canzoni su dieci che non saranno buone. È tutta roba che nutriamo noi con le nostre piccole noie e pigrizie. Dobbiamo cercare di essere meno pigri e di essere “più insieme”, meno “individui” più “società”. L’Italia è specializzata nel partorire solisti, individualità e individualismi. Essere stati in gruppo, per esempio nel contesto di Sanremo, è già una sfida. Noi siamo ancora qua. Quando due anni e mezzo fa sono andato in palla ho detto agli altri: “Purtroppo le cose che facevo e che mi sembrava funzionassero non funzionano più, sono dei meccanismi inceppati. Ho bisogno di fermarmi, ma non voglio strumentalizzarvi. Vi va se ci fermiamo?”. Così abbiamo fatto, uniti. Rimanere insieme così tanti anni e lavorare in modo collegiale, anche con inevitabili conflitti e scoraggiamenti, però cercando di stare sempre uniti, senza lasciare nessuno indietro, è una sfida sociale nel fare musica. Chiaro che l’intelligenza deve entrare in campo, e allora non so quanto ti serva quella artificiale: hai a che fare con degli esseri umani con i loro limiti e le loro imperfezioni».

Le imperfezioni sono fondamentali nella musica, come dice bene Mirco Mariani
«La cosa che mi piace di questo lavoro è che, essendo una performance live, si sentono tutte le sporcature, le imprecisioni che ti restituiscono l’emozione della musica. Sicuramente nell’Intelligenza Artificiale staranno lavorando su dei plug-in che simulano l’imperfezione umana. Perché dobbiamo complicarci sempre la vita in questo modo? Sono uno che ha bisogno degli altri, suono nei Perturbazione ma mi dedico anche a tanti altri progetti tra l’artistico e il sociale che hanno a che fare con l’inclusione. È necessario partire sempre dai nostri limiti per farli diventare punti di forza».

Foto Luigi De Palma

Ha un senso fare musica impegnata oggi?
«Servono delle metafore che ci aiutino a comprendere il nostro presente. Quindi, secondo me, ha ancora moltissimo senso. A patto di uscir fuori dalle camerette e fare musica nella società. Ora sto andando a fare una piccola performance nell’ambito di un progetto che ci siamo inventati io e un altro musicista, Orlando Manfredi, e che si chiama Coro senza dimora, iniziativa supportata dal comune di Torino. Lavoriamo con tutte le marginalità che frequentano i bagni pubblici della Casa del Quartiere Barrito. Cerchiamo di coinvolgere queste persone facendole cantare insieme a noi. Tanti di loro ci dicono che sono stonati ma noi rispondiamo che non importa, quello che conta è stare insieme. Il nostro coro è così imperfetto ma così potente! Non hanno casa, lavoro, cibo ma nemmeno più un’identità e tutti abbiamo bisogno di esprimerci. Alcuni di noi hanno delle corde che sanno vibrare meglio di altri per catturare un sentimento collettivo. Che poi penso sia ciò che faceva Fabrizio De Andrè: La Buona Novella non è uno sparo nel buio ma cattura tutte quelle domande che c’erano attorno alla lettura dei Vangeli. Anche se non mi riguarda come credente mi interessa come individuo, perché ci sono cresciuto dentro. Facciamone, dunque, una metafora per parlare di cosa fa il potere all’uomo, soprattutto in questo momento con quello che sta succedendo»…

Comunque Tommaso, Perturbazione è una parola quanto mai attuale!
«(Ride, ndr) Sì sì! Il nome è nato per scherzo, al liceo. C’erano tutti i gruppi della scena hard core post punk di questa zona che si chiamavano Negazione, Contrazione, ecc… Abbiamo pensato a un nome demenziale, alla Skiantos, ed è venuto fuori Perturbazione. Facevamo musica per prendere in giro i professori (non sapevamo suonare nemmeno un accordo, poi ho comprato il primo basso, ci siamo messi a studiare…). Credo sia l’unico caso in cui sia nato prima il nome della band! La storia è sempre una perturbazione emotiva…».

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