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Mirco Mariani, Parcheggiatore di Sommergibili

Mirco Mariani – Foto Manuel Palmieri

Venerdì scorso s’è rifatto vivo sugli scaffali digitali Mirco Mariani. L’estroverso musicista romagnolo ha pubblicato da solista un 45 giri (in digitale, due canzoni), dopo la fruttuosa esperienza con gli Extraliscio. Aveva bisogno di ricostruire se stesso, sperimentare – mi racconta – scrivere nuovi episodi di quel lungo romanzo che è la sua musica. 

Questa volta si presenta al pubblico con un progetto su cui scommette molto, Il Parcheggiatore di Sommergibili. Nome affascinante, fantasia allo stato purissimo. D’altronde non è nuovo a questi voli di creatività, ricordate Saluti da Saturno? Altra sua impresa di una decina d’anni fa, dove il mondo dei sogni e di quei “benedetti” strumenti elettronici dimenticati, di cui è fiero collezionista e suonatore, entrano nel suo modo tutto particolare di “parlare” in note.

Seguo Mirco da parecchi anni e lo reputo uno dei più interessanti, intelligenti e visionari artisti italiani in circolazione. Il Parcheggiatore di Sommergibili è nato perché ha una missione: riattualizzare il vecchio LP, famoso traguardo di ogni musicista, attraverso una forma inedita. Potremmo definirla “un disco a puntate”: «Gli ascolti di oggi – e ne sono testimoni le mie giovani figlie – non vanno oltre un paio di brani», mi spiega nella lunga chiacchierata che ci siamo fatti venerdì scorso. Un album ideale che si crea “posteggiando” tanti 45 giri a scadenza fissa ogni tre mesi. Per ora solamente in digitale, quindi in Cd: «Vediamo come vanno, mi hanno detto dalla casa discografica!».  

L’anno sabbatico di Mirco ha tre parole chiave: libertà, sperimentazione, gioia. La sua positività è disarmante e istruttiva al punto da diventare contagiosa. Certo Bologna, «la New York italiana», aiuta la creatività, così come lo studio-museo in cui il Nostro si chiude in un apparente isolamento, dove rivivono ogni giorno strumenti rari di cui la maggior parte di noi non conosce né il nome né tanto meno il funzionamento.

Mirco, dai Saluti da Saturno al Parcheggiatore di Sommergibili…
«Le cose non riusciamo a farle normali, ci annoiano! (ride divertito, ndr)».

Ma… il Parcheggiatore di Sommergibili da dove l’hai tirato fuori?
«Non lo so nemmeno io, è questo il bello! Fare musica oggi che ho cinquant’anni suonati è sempre più interessante, un’esigenza, un regalo. Perché ti permette di inventarti delle cose, come il nome che dai ai tuoi progetti, ma anche le note, i suoni… È una libertà impagabile, una magnifica fortuna. Poi, come dicevi tu, da Saluti di Saturno, ovvero lo stare in mezzo ai sogni, sono sceso nella terra, nella mia terra, la Romagna, con gli Extraliscio, idea nata per riportare in qualche maniera ai giovani la tradizione della mia regione (è stata un’esperienza pazzesca, forse la più bella della mia vita!), e oggi ritorno a sognare, perché a Bologna, come sai, ho una specie di scatola magica che si chiama Labotron, in cui ho tutti questi strumenti completamente microfonati, pronti all’uso. Quando entro qui dentro succedono cose pazzesche… il motivo per cui non potevo chiamarmi Mirco Mariani e i suoi… suoi! Dovevo inventarmi una cosa che andasse oltre: come il mio Labotron, il Parcheggiatore di Sommergibili è un po’ un sogno, un’idea di libertà che la musica mi regala».

Già, i tuoi strumenti… “dai limiti infiniti”! Cos’hai? Tastiere, fisarmoniche…
«Ho una specie di mondo. Qualche mese fa ho fatto una gita a Milano per visitare al Museo degli strumenti Musicali del Castello Sforzesco la ricostruzione virtuale dello studio di fonologia della Rai, nato per volontà di Luciano Berio e Bruno Maderna nel 1955, dove ho visto queste manopolone, questi pommelloni… Loro partivano dal rumore bianco per costruire intrecci sonori che andassero a incontrarsi col rumore. Tornato a Bologna mi son detto: “Ma io ho la fortuna di avere tutti questi ‘pomelli’, pronti che mi aspettano per suonare. E poi la cosa bella è che posseggo strumenti che solo io ho. Per dire, Permette un ballo lento l’ho suonato da solo, come tanti brani che usciranno in futuro, perché è un momento di sperimentazione personale, interiore, sincera, libera. In quella canzone c’è l’Optigan, strumento che funziona con dei vinili in celluloide che girano, facendolo suonare come se fosse un’orchestra anni Cinquanta. Oppure l’Ondeoline (Ondes Martenot, ndr), primo sintetizzatore inventato nella storia, in Francia o, ancora, la Celesta… la mia vita è un intreccio di suoni. Da bambino pensavo di divertirmi nella sala giochi del prete a Bagno di Romagna, invece ho scoperto che il divertimento più grande mi arriva da vecchio: avere a disposizione degli strumenti che mi aspettano per suonare!».

Sei un polistrumentista, hai iniziato con la batteria, giusto?
«In realtà sono diplomato in contrabbasso, ho incominciato con la musica classica, ma non era la mia storia. Sono passato involontariamente alla batteria: Jimmy Villotti – il mio maestro, il mio babbo bolognese, morto da poco – grandissimo chitarrista, mi mise alla batteria per caso, perché mancava un batterista, così lo sono diventato mio malgrado. Come il cervo volante che non avrebbe potuto volare perché aveva le ali troppo piccole, ma non lo sapeva e volava lo stesso. Così ho fatto io con la batteria!».

Dammi una definizione di musica!
«Oggi è un’esigenza, come abbracciare mia figlia. Proprio ieri le ho scritto un messaggio, è in Canada, dicendo: “Ora che sei lontana mi sento fortunato di essere il tuo babbo perché mi manchi tantissimo!”. La musica è lo stesso desiderio, non riesco a stare due giorni senza entrare nel mio studio. Le mode non mi affascinano. Nella musica non riesco a deviare su traiettorie più semplici, continuo, sincero, a inseguire il mio sogno, la mia vita, fin da ragazzo sono stato così. A 16 anni ho comprato i miei primi strumenti con la prima “tournée” fatta a Cesenatico come musicista da ballo; da lì non ho più smesso. Il suono è come l’universo, infinito, ci si perde, poi essendo un po’ romagnolo, porto dentro di me l’essenza di Fellini, di Tonino Guerra, dei tedeschi che venivano in vacanza, li ritrovo tutti nella mia musica, nel mio mondo, diciamo così, un po’ fatato!».

Fatato, ma consapevolemente!
«Sì perché, bene o male nella vita, ho raggiunto obiettivi che non avrei mai pensato, come suonare con Rava tanti anni, o con Vinicio Capossela… Tony Renis mi ha preso come figlio e mi adora, sono felicissimo. La cosa più bella che ho è stare con i miei strumenti. Prendi la Celesta, la gente normale la sente suonare solo a Natale quando ascolta lo Schiaccianoci di Čajkovskij (la Danza della Fata Confetto, ndr). Io invece la Celesta la suono anche a Ferragosto! Mi piace perché sono momenti dimenticati, strumenti che hanno una potenza incredibile. La Celesta andrebbe riportata nelle scuole! Mentre ti parlo, davanti a me c’è un banchetto da scuola giapponese della Yamaha. Se alzi il coperchio, invece del cassetto dove mettere quaderni e penne, trovi una tastiera da suonare. Capito? In Giappone  facevano i banchi di scuola con le tastiere sotto! Se potessi metterei per legge dei banchi con dentro la Celesta, per fare innamorare i bambini di questi suoni così delicati!».

Sfondi una porta aperta. La musica non viene ancora vista come un linguaggio importante, da insegnare…
«Se vai a Vienna, che ha una storia musicale incredibile, e visiti il Museo della Tecnologia, all’ultimo piano trovi tutta la tecnologia degli strumenti musicali. Questo dimostra il grado di importanza che gli austriaci  danno agli strumenti. Come per esempio il Trautonium, che ho portato a Sanremo suonato da Peter Pichler (edizione 2021, gli Esxtraliscio furono la vera rivelazione del festival, ndr): era la prima volta che entrava in Italia. Passerò alla storia non per le canzoni che ho scritto, ma per essere stato il primo nel nostro Paese a mettere su un palco un Trautonium! Mi piacerebbe essere chiamato nelle scuole a mostrare ai ragazzi certi strumenti e far ascoltare certi suoni che sono quelli che non escono dal computer».

Stavo proprio per chiedertelo: la musica digitale è un’aberrazione?
«Mi trovi preparato, perché ho comprato da poco il mio primo computer! Mi son detto: “Voglio registrarmi da solo”. Un mio amico mi ha rassicurato: “Prenditi il computer al resto ci penso io, in cinque giorni ti faccio registrare tutto quello che vuoi”. Quando è arrivato l’ho demoralizzato: “Io l’ho acquistato ma… come si accende?”. E lui: “non dirmi così, mi spaventi!”. Ora sto componendo la mia musica facendo finta che lui, il computer, non ci sia. Mi sono messo un limite: non più di otto tracce, come i Beatles! Altrimenti mi sembra di sconfinare, è come se la musica fosse una pesca senza nocciolo, c’è un limite per mettere il succo e mangiar la pesca. La musica dev’essere il nocciolo di quella pesca, devi accontentarti di avere poche tracce, cioè la polpa, per dare tutto il gusto del frutto. Altrimenti diventi schiavo di questo mondo infinito che è il computer che ti permette di fare, se vuoi, anche mille tracce».

Certo, dà la possibilità anche a chi non è musicista di fare musica!
«Ecco, quello, per fortuna, non è il mio caso! Ma non perché sono un bravo musicista. L’ho imparato componendo musica per il cinema, avendo avuto molto fortuna negli ultimi anni grazie a Pupi Avati e a Sukorov, mi sono inventato una musica istantanea, come se fosse un click fotografico: ho collegato insieme tutti gli strumenti dello studio e, con dei pedali del volume, mixavo, facendo una traccia unica. Secondo me la musica da film è così, una sola traccia per un’unica scena. Per le canzoni invece questo procedere è impossibile, perché devi cantare, arrangiare, se fai una traccia sola o sei Vangelis o non ce la fai. Mi sono imposto il limite di otto tracce per stare il più possibile vicino all’istantaneità. C’è un film capolavoro di Carlo Mazzacurati, genio del cinema italiano, che si chiama Il Prete Bello, l’attore protagonista a un certo punto fa fare una fotografia a tutti i ragazzini senza casa e la chiama “istantanea”. Ecco la mia musica è quella cosa lì, quella fotografia, quel secondo in cui passa l’idea che devi fermare un momento, e non va corretta. Se sbagli, o la tieni o la rifai da capo. Non mi piace correggere con i programmi di musica, credo molto nell’imperfezione».

Che poi è la cosa più bella!
«L’imperfezione fa invecchiare meno le cose. I Beatles sono immortali perché, per esempio, Ringo Starr, in qualche passaggio perde il ritmo per un microsecondo. La cosa bella è quella, quello “svirgolino” che rende eterna la musica. Il grosso problema è che tutti sono ormai accecati dalla perfezione, visto che muovendo un ditino metti a tempo tutto, correggi, imponi… mi sembra che l’anima di quello che avevi in testa la decida il computer e non tu, e questo non va bene».

Per questo tuo nuovo progetto sei partito con un classico 45 giri, un lato A e uno B. Ma non è l’unico, se ho capito bene ne usciranno altri…
«Sì. L’idea del 45 giri ce l’ho da diversi anni e quelli che lavorano per me, Elisabetta Sgarbi e la Sony Music, quando l’ho proposta me l’hanno sempre bocciata, non lo so, forse perché non ero abbastanza famoso. Avevo l’idea che il disco, inteso come un album di dieci canzoni, fosse diventato un qualcosa fuori dal tempo. Le mie figlie – una di 20 anni e l’altra di 17 – un disco intero non lo ascolteranno mai! Dopo dieci anni sono riuscito a realizzarla. Poi è accaduto un fatto strano: a Natale mi sono chiuso nella mia casa di campagna, a Bagno di Romagna sull’Appennino romagnolo, insieme alla mia famiglia. Non mi era mai successo: in una settimana ho scritto 18 canzoni. Molto probabilmente dopo l’esperienza con gli Extraliscio avevo bisogno di riperdermi al largo della musica senza avere riferimenti. Poi, a Bologna, l’altro giorno mi sveglio vado a fare colazione in un bar, esco e mi canto una canzoncina. Strano, me la segno sul telefonino. Faccio altri passi e mi ricanto un altro pezzo di canzoncina. Arrivo in studio e mi chiedo: “Ma da dove viene fuori?”. L’ho registrata, perché una cosa del genere non mi era mai capitata. Poi vado in bagno e mi viene fuori anche il testo. Alle quattro e mezzo del pomeriggio la canzone era composta, nella musica e nel testo e registrata! Mi son detto: “Qualcuno qui s’è intromesso”. Ho i miei nonni in cielo con cui ho un rapporto bellissimo, parliamo spesso di tante cose, ma quel giorno lì era come essere in trance, preso da qualcuno sottobraccio, non ero consapevole di quello che stavo facendo. Questa canzone si chiama L’eternità, sarà una delle prossime che usciranno, quando la sentirai capirai. Sono dei miracoli che mi fanno commuovere».

Quanti 45 giri hai in mente di pubblicare e a che distanza uno dall’altro?
«Nove o dieci, ogni tre mesi; ne ho composte una ventina, la maggior parte sono pronte. Mi piace la musica istantanea, credo che la canzone debba nascere e finire in uno o due giorni. Renzo Fantini, il grandissimo produttore di Capossela, Paolo Conte, Guccini, un gran personaggio con cui ho avuto la fortuna di lavorare, diceva che dopo dieci secondi di ascolto capisci se la canzone è o non è! Preferisco rifare piuttosto che tribolare».

Li pubblichi in digitale e vinili?
«Era la mia proposta. Loro mi hanno detto, partiamo col digitale e poi se sei bravo facciamo anche il vinile! Questa prima uscita, dunque, è solo digitale».

Hai altri progetti che ti ronzano in testa?
«Sì diciamo che i miei progetti sono infiniti come come le onde, come il cielo, come i numeri! Mi sveglio la mattina alle 7:30, vado a fare colazione, leggo il giornale. Finalmente sono fermo a Bologna, non mi capitava da tempo! Ho dovuto chiedere un anno di tempo per riflettere, sperimentare. Se vai avanti a suonare senza pause non ti puoi rinnovare, né cambiare rotta perché sei troppo preso in una traiettoria. Dunque, alle otto sono già in studio, non mangio a pranzo perché non ho tempo, non posso (poi arrivo a casa la sera con delle fami che mia moglie è preoccupata, perché mi mangerei anche lei, una roba brutta!) e passo la giornata a comporre canzoni e cercare nuovi suoni».

La Romagna e l’Emilia cosa rappresentano per te?
«La Romagna mi ha acceso la scintilla, nel mio paesino c’erano tantissimi musicisti. Poi sono arrivato a Bologna, la mia piccola New York. Ero un ragazzino quando ho incontrato Rava con cui ho suonato la batteria tantissimo, ho suonato una mezza vita con Vinicio Capossela… d’altronde, lo canta anche De Gregori, “Bologna e i suoi orchestrali”… La città è piena di portici e questi mantengono le cose, come una campana magica. Camminando sotto i portici risento l’eco di tutti questi musicisti. Ora che Jimmy Villotti non c’è più mi sembra che sia una città diversa. Lui, il mio padre musicale, mi ha insegnato tutto e mi ha sgridato tantissimo. Mi diceva: “Se vuoi fare il musicista, prima di imparare a suonare impara a stare basso, se ti succedono cose belle non perdere tempo a esaltarti, continua a stare basso vedrai che vivrai meglio”. L’ho capito, quello che conta è la musica! Sarà l’età ma sto vivendo il momento più felice della mia vita: anche ora sono nel mio Labotron, quando chiuderemo questa telefonata mi rimetterò al lavoro, potrò perdermi in questo infinito spazio di note».

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