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Paolo Forte: concerto per cisterna e fisarmonica

Paolo Forte – Foto Ingrid Wight

Il riverbero (lunghissimo), una cisterna di oli pesanti (terribilmente puzzolente), una fisarmonica a bottoni (la mitica Victoria) e un artista (Paolo Forte, classe 1988, friulano, musicista fiero della sua identità, gentile e determinato). Gli ingredienti per raccontare una bella e sapida storia ci sono tutti e di questa vicenda ne avrete sicuramente sentito parlare. 

A marzo di quest’anno Paolo Forte ha pubblicato Tempo (ascoltatelo via Bandcamp qui), Cd composto da otto brani per una durata di 71 minuti e 84 secondi – ricavati da 200 minuti di registrazione – suonato e registrato in una cisterna sotterranea nelle Highlands scozzesi in quattro giorni a ottobre dello scorso anno. 

Un lavoro complesso, per organizzazione ed esecuzione, che ha richiesto molta volontà, mesi di preparazione, un investimento fisico, economico e intellettuale importante. Ma, come narrano le cronache motivazionali, quando sei determinato e hai uno scopo forte nulla può fermarti. 

Questa vicenda è stata il pretesto per fare una chiacchierata con Paolo che si è estesa al significato del suo essere artista e al suo modo di concepire la vita oltre la musica.

Innanzitutto, perché la fisarmonica?
«Sono stato fortunatissimo: a otto anni mi hanno regalato una fisarmonica giocattolo… da allora non l’ho più mollata. Visto che mi piaceva così tanto, i miei mi hanno avviato allo studio con il maestro Adolfo Del Cont. Poi sono andato al conservatorio, mi sono diplomato e ho iniziato a interessarmi di musica folk, di World Music, di ricerca estrema del suono sfruttando gli ambienti. Perché la fisarmonica? Perché è l’unico strumento che mi permette di tradurre con le dita quello che ho in testa!».

Come mai il riverbero ti appassiona così tanto?
«Mi piace perché stonda, smorza, amplifica il suono. Parlo di quello naturale: mi diverte “cucire” la musica per il luogo in cui mi trovo in quel determinato momento, improvvisando in base alla risonanza, alla decadenza del delay…».

Quindi chiese e grandi spazi…
«Le chiese sono il luogo più semplice da suonare. Ci sono posti ben più interessanti come condotte, centrali elettriche, bunker. Suonando la fisarmonica al loro interno si può godere di un’acustica unica, che ti permette di essere “dentro” il suono».

Anche grotte?
«Più o meno, sia per l’umidità che distrugge lo strumento, sia per il riverbero… è come suonare in uno stanzone intonacato».

Come sei arrivato alla cisterna scozzese?
«In un libro di acustica avevo letto di una cisterna per la raccolta delle acque in Texas che aveva acceso il mio interesse. Ma era una “spedizione” troppo lontana e costosa, così ho approfondito cercando strutture simili in Europa trovando questo complesso di enormi serbatoi sotterranei in cemento utilizzati dalla marina militare inglese durante la Seconda guerra mondiale per conservare, a prova di bomba, l’olio pesante navale per la sua flotta. Qui alcuni ricercatori hanno misurato il riverbero più lungo al mondo. Ogni serbatoio misura nove metri di larghezza per 16 di altezza e 240 di lunghezza».

Dunque sei partito…
«Non prima di aver ottenuto permessi e autorizzazioni, assieme a due tecnici del suono che avrebbero dovuto registrare non si sa bene cosa, visto che andavo alla cieca. La sfida stava proprio nell’esecuzione musicale: non avrei potuto suonare nulla di quello che ho sempre suonato né avrei potuto prepararmi non sapendo esattamente che “suono” avrei trovato: un singolo accordo o un grido ad alta voce restano sospesi nello spazio per quasi un minuto!».

Ho letto che avete lavorato e hai suonato in condizioni estreme…
«Sì, e proprio per questo è stata un’esperienza ancor più stimolante! Ci trovavamo 300 km a nord di Edimburgo che, tradotto, significano quattro ore di macchina dall’aeroporto, più un sentiero sterrato circondato da arbusti che ci ha portati davanti a una porta blindata, aperta in modo laborioso stando ben attenti a risigillare l’ingresso ma con la possibilità per noi di uscire una volta terminate le registrazioni. All’interno, un tunnel lungo alcune centinaia di metri ci ha portato nelle viscere della montagna fino alla cisterna che ci avevano assegnato, la numero uno.

L’ingresso della cisterna è stato un altro problema!
«Non devi soffrire di claustrofobia, perché nella “cattedrale” entri solo attraverso un tubo di 45 centimetri di diametro spinti a mano sopra una lettiga-carrello su cui devi stenderti. Ho dovuto smontare la fisarmonica perché intera non passava, avvolta in un asciugamano.

E dall’altra parte cosa avete trovato?
«Buio totale, temperatura a dieci gradi sopra lo zero, un forte odore di olio pesante, un pavimento ricoperto da uno strato di fanghiglia e liquido, le pareti totalmente impregnate d’olio. Non potevamo posare nulla per terra, nemmeno i cavi dei microfoni, che abbiamo dovuto sospendere su cavalletti a loro volta con i piedini sigillati. È stata una preparazione lunga e difficile, durata diverse ore».

Quindi avete iniziato…
«Io stavo esattamente al centro di questa immensa cattedrale: alle prime note il suono è stato… incredibile. Non stavo suonando in un luogo ma il luogo stesso: ogni singola nota si protraeva nello spazio e nel tempo per una durata mai sentita prima: abituati come siamo a un flusso del tempo orizzontale, qui era diventato verticale, una fruizione simultanea di passato, presente e futuro».

Come hai fatto con la fisarmonica in queste sessioni sonore di quattro giorni?
«Ogni sera, prima di uscire la sigillavo dentro la custodia a sua volta inserita in un sacco ermetico di plastica assieme a sali igroscopici per assorbire l’umidità. Non è stato facile per me lasciarla dentro un posto del genere, mi pareva di abbandonarla nel peggiore degli incubi!».

Degli otto brani che hai ricavato quali ti hanno catturato di più?
«Aura: inizia in maniera quasi incerta, poi si crea un coro di voci bianche e di voci femminili che riempiono la cisterna. Canto al Tempo, l’ultimo brano, di una semplicità imbarazzante, quattro note in croce, con un bordone continuo, sempre ravvivato, che la fa diventare una preghiera lanciata nel buio».

Quest’esperienza ha cambiato la tua percezione di artista?
«Tornato a casa me lo sono domandato: che faccio ora che ho raggiunto l’apice della mia ricerca? Poi ho capito che il lavoro in Scozia è stato solo l’inizio: voglio portare la musica là dove non è mai arrivata, andare in altri posti irraggiungibili, perché tutti i luoghi hanno un’anima da scoprire. È il mio modo per celebrare la musica».

Rischi però di suonare solo per il luogo ma senza pubblico…
«Gli applausi fanno sempre piacere, ovvio, però sono una conseguenza del tuo essere artista. Quello che voglio è portare arte dove non è mai stata vista, può non servire a niente ma a me soddisfa!».

Vivi di musica?
«Sì, faccio tanti concerti, soprattutto nel Triveneto e in Europa. Lo strumento mi aiuta, lo porto ovunque “suona da solo”. Quindi, per logistica, aspetti economici e organizzativi è ideale. Faccio la mia musica, non sono un esecutore. Poi ammetto la mia incapacità di relazionarmi con il mondo della discografia, preferisco autoprodurmi, andare a proporre i miei lavori lo vivo come un elemosinare. In questo non sono proprio capace, non so divulgare se non attraverso il passaparola, non conosco etichette, frequento poco o niente i social, mi rendo conto che è limitante e paradossale!». 

Hai da poco pubblicato un paio di nuovi Cd oltre a Tempo. Di cosa si tratta?
«Aga, acqua che scorre, è un lavoro affascinante, senza alcuna pretesa, un garantire la memoria, realizzato assieme a due artisti folk friulani, Emma Montanari e Flavio Bortuzzo, per “fissare” brani popolari che stanno sparendo. Mi piace la musica popolare perché non è educata, è imprecisa, sporca, autentica. Poi c’è Al Buio, brani che attingono alla tradizione popolare italiana e della musica “colta”».

Ritorno alla cisterna: come comunicavi con i tecnici durante la registrazione?
«Avevamo una luce da speleologo in testa, ci eravamo creati un nostro vocabolario attraverso i segni di luce. Poi registravo al buio. Il buio mi piace perché tutti i sensi sono concentrati nel suono».

Come vedi il tuo futuro?
«Voglio continuare nel percorso tracciato in Scozia. Ma l’aspetto musicale è una piccola parte della mia esistenza. Ho un pezzo di terra da gestire, alberi da frutto e un bosco. Mi piace perdermi nella natura, conoscere ogni angolo della mia regione: in Friuli scopri valli, anfratti, gole, torrenti che nemmeno ti immagini, mi piace perdermi in questo mondo, impagabile fare il bagno in un torrente. E buona parte di quello che suono è frutto di questo mio “perder tempo”, dentro di me porto tutta la bellezza che vivo in queste mie giornate».

Cos’è la bellezza?
«Stare in silenzio, seduto senza pensare che non stai facendo niente! È perdersi in una dimensione che può essere astratta ma che poi traduco in musica, attraverso un gesto tecnico, il sapere quali tasti premere per ottenere quel suono che è nella tua testa e nelle tue emozioni».

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