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Filippo D’Erasmo: L’Indie passa per il Dedalo

Nella mia ricerca di giovani cantautori mi sono imbattuto in Filippo D’Erasmo. Trentatré anni, polistrumentista, piemontese di Acqui Terme con vita a Torino, di professione tecnico radiologo. Filippo D’Erasmo è il suo nome d’arte «Filippo è il mio cognome, Riccardo il mio nome, D’Erasmo, invece l’ho preso da uno dei miei idoli, Rodrigo D’Erasmo, violinista degli Afterhours e compositore straordinario», mi racconta. Riccardo è presente da anni nella scena Indie italiana. La sua musica ha una matrice cantautorale: «Sono un songwriter, definirmi un cantautore ci andrei cauto se penso a Guccini, De Gregori, Battiato e a tutti i grandi nomi del nostro cantautorato storico italiano». 

Il 10 marzo scorso ha pubblicato Dedalo, otto brani per 27 minuti d’ascolto, dove c’è posto per pezzi leggeri e altri più cupi, come Resistenza, che chiude il disco, una sorta di manifesto dei trentenni di oggi, anche se si riferisce a una sua situazione familiare personale: Butto fuori le parole che la musica mi salva/ Cercavo ispirazione nella rabbia l’ho trovata/ Come una fenice brucia la mia giovinezza/ Risorge un uomo cresciuto troppo in fretta/ E tutta queste maschere adesso mi hanno rotto il cazzo/ I vostri sorrisi falsi, quelli di un pupazzo/ Mi sento forte, sono tornato/ Ho smesso di odiarmi per essere nato

Riccardo è stato uno degli allievi del Cpm Music Institute scuola di musica fondata da Franco Mussida, dove ha frequentato e passato brillantemente il master in songwriting e della Mat Academy, dove ha seguito il master in arrangiamento e produzione musicale. Insomma, un giovane artista che ha tutte le intenzioni e la voglia di crescere e che si muove caparbiamente nella musica indipendente, attento alla propria libertà d’espressione e a schivare i luoghi comuni.

Riccardo, una vita underground…
«Vengo dal mondo dell’Indie, seguo la strada dell’underground. A vent’anni ero molto duro e critico verso il mainstream. Poi, crescendo, si sono creati “tentacoli” di collegamento: l’Indie è riuscito ad avere un seguito riconosciuto, parlo dei Tre Allegri Ragazzi Morti, degli Zen Circus, Le Luci della Centrale Elettrica, i Baustelle, tutti progetti che hanno contribuito alla mia formazione. E poi i Cani, band con la quale sono cresciuto. In questo Pantheon ci metto anche gli Sonic Youth».

Però il mainstream in Italia – anche se pare che qualcosa stia cambiando – è sempre governato da rap e trap…
«L’hip-hop prima era underground poi è diventato mainstream e si è trasformato in qualcosa d’altro, un pop mascherato. D’altronde tutta quella musica viene fatta da quattro o cinque producer che si giostrano tutto il mercato. È un mondo che comunque mi affascina, mi spinge a cercare di capire come questi autori costruiscono queste canzoni. Penso che se hai il talento di scrivere una bella canzone, poi  la puoi girare al meglio, come vuoi. Prendi Franco Battiato, le sue canzoni hanno mille piani di lettura».

Veniamo a Dedalo: quando lo hai scritto?
«Sono pezzi nati tra il 2019 e il 2021, a cavallo della pandemia, quest’ultima però ha un ruolo molto marginale nel disco. Canzoni nate da fatti che mi hanno portato a scrivere per un’esigenza emotiva e che si possono dividere in due macrocategorie, quelli più leggeri e allegri e altri che se ne fregano della forma canzone e sono più scarni, cupi. Sono le due anime che mi contraddistinguono. La mia intenzione era di creare un tappeto morbido e largo di note per appoggiarci sopra le parole. I testi sono venuti di getto».

Piccoli Piaceri Borghesi, la canzone da cui hai tratto il singolo, vede anche la collaborazione di Edoardo Lanza, aka Globular Waves…
«Siamo amici, lui smanetta con synth modulari (privi di tastiera, ndr) ed è veramente bravo. Abbiamo lo stesso substrato umano per collaborare…».

Mentre Resistenza, brano che ho ascoltato più e più volte?
«È un testo molto intimo, dovevo rielaborare certe cose accadute in famiglia, problemi che riguardavano mia madre. Ho scelto un giro di accordi facile, un arrangiamento volutamente scarno per poter liberare un testo molto fitto, denso, quasi un rap».

Hai esorcizzato il dolore cantandolo…
«Sì, avevo somatizzato molto quella situazione, ma quello che ne è venuto fuori è che ci vuole ben altro per spezzarmi. La vita è questa, devi sapere sempre come ricostruirti per andare avanti».

Praticamente la musica come terapia liberatoria e purificatrice…
«Fin da piccolo – così raccontano in famiglia – cantavo in casa e creavo suoni con qualsiasi cosa. Avevo cercato anche di costruirmi una chitarra usando una scatola di scarpe e degli elastici. I miei cercarono di assecondare questa mia propensione alla musica mandandomi a lezione di pianoforte. All’epoca, però, a me interessava solo giocare a pallone con i miei amici. A 16 anni ascoltavo i grandi chitarristi rock, sognavo di essere uno di loro, John Frusciante, Slash, Gilmour, volevo fare il Guitar Hero. Poi ho continuato gli studi e mi sono iscritto all’università. Però a 20 anni mi sono accorto che senza musica non potevo stare, mi faceva stare bene. Da lì è partito tutto…».

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