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Christian Muela, Didjeridoo, tribalità urbana e improvvisazione radicale

Il 10 marzo scorso è uscito un disco, catalogato come Worldwide, degno di nota, Didjin Beat di Christian Muela. Il trentanovenne musicista italo-congolese di stanza a Roma, ha confezionato un lavoro che sta tra elettro-dance e il suono arcaico del didjeridoo degli aborigeni australiani. Questo strano strumento fa parte della famiglia degli aerofoni ad ancia labiale, i più diffusi sono il flauto e la tromba: le labbra, vibrando, producono il suono. 

Ve l’ho fatta breve, perché sul didjeridoo, in uso da oltre duemila anni, di cose da dire ce ne sarebbero molte, sono stati scritti libri e, se si vuole imparare, girano anche molti tutorial su internet. Quello che mi interessa farvi notare è la sua capacità di risvegliare nella mente umana sinapsi sopite, una sorta di transponder che risponde a richiami ancestrali. Allo stesso modo dei mantra dei monaci tibetani.

Sensazioni che si percepiscono chiaramente nel lavoro di Muela, dove le atmosfere e i ritmi urban degli anni Novanta trip-hop, dub e techno si fondono con il suono grave del didje che diventa base, protagonista o comprimario, come in Arcaik Memories accostato a una tromba o in Mysticism (rielaborazione di un suo precedente brano incluso nell’album Offline) compagno di armonia del bansuri indiano, con riferimenti dub e trip hop per un effetto magico.

Con Dance Who si cambia registro, la spiritualità diventa carnalità. È un brano dalla complessa costruzione: «Una parentesi sperimentale ispirata alle ambientazioni del film District 13», spiega Christian, «dove propongo beat sperimentali in ambiente techno, i groove di didgeridoo emergono frenetici con vocalizzi pulsanti». Sperimentazione anche in Didje Black Bible dove il suono del pianoforte modale fa da contrappunto al didjeridoo che riproduce ritmi tipicamente techno.

E veniamo a Christian: l’ho chiamato, incuriosito dal suo lavoro, che è molto “filologico” sullo strumento in sé, ma altrettanto creativo nell’accostare generi e ritmi che, a ben sentire, totalmente diversi non sono. Esiste una “ancestralità urbana” che lui attraverso uno strumento millenario ha saputo intercettare. 

Christian, come ti sei appassionato al didjeridoo?
«Fin da ragazzo ho sempre ascoltato molta musica jazz e fusion. Miles Davis con il suo Bitches Brew mi ha incantato (è il doppio album uscito nel 1970 che ha segnato un cambio di passo con il jazz suonato fino a quel momento, con artisti diventati leggende, da Joe Zawinul a John McLaughlin, da Chick Corea a Dave Holland, ndr). Quindi ho iniziato ad ascoltare anche musica contemporanea e quella fatta con il didjeridoo. Nel mio lavoro cerco di rielaborare tutte queste sensibilità. Quando ho ricevuto in regalo il primo didje ho provato e reinterpretare i suoni che avevo ascoltato in Bitches Brew».

Non sembra facile suonare il didjeridoo…
«Ho impiegato molto tempo. Bisogna imparare la respirazione circolare, ci sono tanti esercizi per perfezionare la tecnica. Poi ho cercato di portare nel didje il groove del basso. Pur essendo uno strumento monotonale è ricco di armonici. Come tutti gli strumenti a fiato che possono suonare su diverse ottave, il didje suona generalmente sulle prime due ottave basse del pianoforte».

In Italia non è uno strumento sconosciuto.
«Il vero boom è stato negli anni Novanta, probabilmente perché alcune band in quegli anni li usavano, come i Jamiroquai. Si sono formati gruppi spontanei di suonatori di didje, e quindi festival dove si vivevano esperienze comunitarie di meditazione e trance tramite il suo suono. Di scuole in Italia ce ne sono parecchie, a Torino, Bologna, in Friuli, Sardegna, Toscana».

Che cos’è per te il didje?
«È un megafono, uno strumento che altera la voce. Si fa ritmo con la voce, si fanno vocalizzi armonici dando la cadenza con la lingua. Mentre si respira il suono prodotto viene frammentato in più suoni che diventano ritmo. È un bordone ritmico, ma anche un modo di cantare. Insomma, uno strumento fantastico».

Insomma, una coinvolgente esperienza sonora!
«Mentre lo suoni ti rendi conto della tua corporeità, senti le vibrazioni delle labbra che risuonano in bocca e salgono fino alla scatola cranica e poi la respirazione circolare, la postura per suonarlo correttamente, tutto il corpo è coinvolto».

La sua creazione come quella di altri strumenti antichissimi gli dà un’aura di misticismo…
«Come l’uomo abbia potuto da un tronco di eucalipto svuotato dalle formiche ricavare questo lungo tubo per farne uno strumento resta un mistero. Forse serviva a soffiare per ravvivare il fuoco, oppure per imitare i suoni della natura, il vento che soffia. È un’esperienza sonora molto simile alla voce umana».

Sei italo congolese, hai patrimoni genetici, culturali, musicali diversi – sono sempre una marcia in più, una grande risorsa!
«Ho studiato scultura all’Accademia di Brera e mi sono laureato con una tesi sulle sculture sonore, strumenti fuori dalle categorie classiche. Ora vivo a Roma, mi sono trasferito da Bergamo dove abitavo, e sto seguendo un mio percorso attraverso il didjeridoo. Sono un nomade per natura probabile frutto di un nomadismo culturale dovuto alle origini della mia famiglia. Fin da piccolo ho assorbito diverse sonorità, ritmi, cadenze, che ora canalizzo sul didje».

Che musica ascoltavi a casa dei tuoi?
«Da piccolo quella legata al Congo, ricordo però in casa i vinili di Bob Marley & The Wailers, li ascoltavo di continuo».

Della tua musica ne parli in termini di tribalità urbana e di improvvisazione radicale, cosa intendi?
«Con Offline ho sperimentato la prima lavorando sullo sciamanesimo delle città, ovvero il trip-hop, la techno, il dub. Su Didjn Beat ci sono ancora questi elementi ma con una parte di improvvisazione molto libera che mi ha permesso di lavorare sul mio modo di interpretare la musica. È un lungo percorso di affinamento…».

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