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Ludovica Burtone: le scintille della musica

Ludovica Burtone – Foto Alex Duvall

Sparks, scintille, falischis nella lingua friulana, regione da dove Ludovica Burtone proviene. È il titolo del lavoro che la violinista ha pubblicato il 3 marzo scorso per l’americana Outside in Music. Sei brani, 45 minuti di ascolto, per un lavoro le cui definizioni di genere vestono stretto. Sono scintille, appunto. Scintille di musica che esplodono in tutta la loro lucentezza o fingono di soffocare sotto la cenere. Il fuoco che arde è quello della musica. Classica, cameristica, jazz, latin: si sentono i richiami di così tante idee geniali nelle armonie delle composizioni e sotto le dita di quel violino che comanda in modo leggero, amalgamandosi con il quartetto d’archi (Fung Chern Hwei, violino, Leonor Falcon Pasquali, viola, Mariel Roberts, violoncello) con il pianoforte di Marta Sanchez, il contrabbasso di Matt Aronoff, la batteria di Nathan Elmann-Bell, o con l’incredibile sax di Melissa Aldana in Awakening. E ancora, nelle chitarre “brasiliane” di Leandro Pellegrino e nella “batucada” di Rogerio Boccato (nella splendida rivisitazione di Sinhá di Chico Buarque e di João Bosco), nella voce/strumento di Sami Stevens in Altrove. 

Un lavoro da “vivere”, come trovarsi in un grande parco dove ci sono tanti sentieri da imboccare. Se decidi di prenderne uno poi ti lasci catturare da un altro e un altro ancora… Una rete così fitta che, a ogni ascolto, ci si accorge di qualcosa di nuovo, di una nota sbarazzina o di un profondo e complesso “ragionamento” dove a dialogare sono archi e percussioni e ognuno vuole dire la sua.

Ho raggiunto Ludovica a Udine, appena arrivata da New York dove vive e lavora ormai da anni. È in Italia per una serie di concerti, ritornerà per presentare il suo nuovo lavoro in estate.

Chamber jazz, jazz contemporaneo, latin jazz, il tuo Sparks sta comodo ovunque. E poi usando il violino. Da dove nasce questo lavoro?
«Proprio dal violino! Quand’ero bambina ho iniziato con il pianoforte. Poi, andando a un campo estivo con gli altri bambini, ero l’unica che, sapendo suonare il piano, non potevo far parte dell’orchestra. Mi son detta: ma come, rimango da sola? Così ho iniziato tartassare i miei genitori perché volevo studiare il violino! Ho fatto una carriera scolastica classica, al conservatorio di Udine, suonato nell’Orchestra sinfonica del Friuli Venezia Giulia, sono andata a perfezionarmi in Spagna al Liceu, concentrandomi soprattutto sul repertorio classico e cameristico, però avevo già iniziato a suonare nei localini con gli amici di corso, a fare delle jam, così per divertirci. Quando sono tornata in Italia ho cominciato a guardarmi in giro, domandandomi cosa avrei potuto fare. Alcune amiche mi hanno invitata ad andare a Banff, nell’Alberta, a un workshop di tre settimane (Workshop in Jazz and Creative Music):  un posto meraviglioso, tra le montagne, dove ci sono un centinaio di pianoforti sistemati in casette in mezzo al bosco, un luogo incredibile. Era il 2011, venivo da una situazione molto dura: in visita a New York mi sono ammalata, mi hanno ricoverato in un ospedale a Brooklyn e messa in isolamento, poi si scoprì che avevo il morbillo. Quella vicenda, la paura di non farcela, li vedevo entrare con maschere e guanti, una scena da Covid, mi ha spinto ad andare lassù in montagna, facendomi riflettere su cosa volessi davvero dalla mia vita. Così mi sono trasferita a New York, dove tuttora vivo».

Hai frequentato anche la Berklee School of music di Boston…
«Sì, ma non sono rimasta a lungo perché Boston è molto cara, benché avessi la borsa di studio e mi esibissi, retribuita, ovunque grazie alla scuola. Lì ho avuto l’occasione di suonare con musicisti da tutte le parti del mondo, Kenya, Brasile, Ghana, Spagna, Argentina. E lì ho deciso di indirizzarmi verso la composizione jazz e ho avuto le prime idee su Sparks. Tornata a New York, ho iniziato a lavorare. È una città ricca di spunti dove conosci molte persone e hai tante opportunità».

La tua molla per l’improvvisazione: come ti sei appassionata?
«Quando esegui una suonata, interpreti. Bellissimo ma restrittivo. Nel jazz ci sono tantissimi violinisti, ne conosco molti, ma il violino non è visto ancora come strumento jazz. Sono molto legata alla melodia, sono una musicista, a prescindere dal genere che mi piace suonare, una violinista che cerca di dire chi è attraverso la musica e la composizione. Comporre… poi dipende dalla vita. Da quello che fai, ci sono momenti dove ti viene naturale altri in cui mi trovo in panne. Ho scoperto che ci sono trucchi per ravvivare la creatività, giochi mentali. Per esempio tirando i dadi. Prendi il dado con 12 facce, ogni numero è un semitono, poi sei tu a dare la regola, me l’ha insegnato un musicista».

Perché hai deciso di fermarti negli States?
«Perché comunque là si lavora. In Italia si vive bene ma con la musica non si guadagna. Lì, invece sì».

Come mai il jazz ti ha presa come linguaggio?
«È un’espressione in cui puoi essere tu, autentico, ma anche qualcun altro, puoi essere tante cose».

Raccontami di Sinhá, il secondo brano del disco…
«È un brano di Chico Buarque e João Bosco, piuttosto recente, ha un’armonia perfetta tra versi poetici e musica tinta d’afro e samba, mi ha ossessionato, lo sentivo in continuazione. Con un’amica abbiamo creato un quartetto d’archi dedicato alla musica brasiliana. Un po’ insolito, visto che normalmente non ci sono partiture scritte per questi strumenti. Abbiamo arrangiato Pixinguinha, Milton Nascimento. Poi, quando s’è deciso che avrei inciso il disco con la band, ho pensato di riarrangiarlo». 

Avete registrato durante il Covid a New York…
«Siamo stati tutti molto attenti, la violista era addirittura incinta, quindi avevamo adottato un sacco di precauzioni. Abbiamo provato in sette, poi si sono aggiunti i diversi ospiti, Sami Stevens nella ballad Altrove, Leandro Pellegrino, chitarra, e Rogerio Boccato, percussioni, in Sinhá, Melissa Aldana, al sax, che fa un assolo da paura in Awakening e Roberto Gianquinto, musicista con cui suonavo spesso prima della pandemia, che ha registrato la batteria dall’Italia».

Ora sei tornata a Udine per concerti…
«Sì sono con Mary Halvorson per il suo tour Belladonna. L’estate tornerò in Italia e in Grecia con il quartetto per presentare il disco. A New York ho la presentazione dell’album in aprile, maggio e giugno al Barbès di Brooklyn e allo Zinc di Manhattan. In Italia sarò in quartetto in versione ridotta, difficile portare in giro troppi elementi. C’è anche chi mi chiede se riesco a farlo in duo…».

A parte Sinhá che ti ha ossessionato, quale brano del disco senti di più?
«Uno dei miei preferiti è la ballad Altrove, è uno dei primi che ho composto. Ho iniziato a scriverlo a Banff. Mi piace perché la voce di Sami diventa un timbro musicale che si armonizza con gli archi.

Stai preparando nuove pubblicazioni?
«Sto lavorando a un nuovo progetto e dopo tanto chiedermi rimango lì o farò altro, credo che cambierò la dimensione dell’ensemble. È un progetto sulle donne migranti a New York. Sto facendo interviste a donne che fanno soundscapes, musiciste che suonano strumenti popolari come il cuatro. Nel disco il violino è l’intervistatore e le risposte arriveranno sempre in musica».

Foto Alex Duvall

Tornando al tuo lavoro, a me piace molto il brano iniziale, Blazing Sun.
«È basato sulla melodia di Twinkle Twinkle Little Star (in italiano, Brilla brilla la Stellina). Al primo anno alla Berklee è stato indetto un concorso per sviluppare un tema proprio su quella melodia. Blazing Sun viene da lì, l’ho cambiato molto in seguito, l’avevo scritto solo per quartetto d’archi, pianoforte e flicorno. Non ho vinto, però i giudici alla fine hanno voluto vedere dove avevo nascosto Twinkle Twinkle, hanno capito e apprezzato».

Suoni ancora la Classica?
«Ogni tanto, Suono più contemporanea, con gli Hotel Elefant, un collettivo newyorkese, e il Mivos Quartet…».

Concludo: ma hai collaborato anche con Citaozinho e Xororó, i re della musica sertaneja brasiliana?
«A luglio dello scorso anno mi chiamano chiedendo genericamente se potevo fare da contractor e leader per la loro tournée dei 50 anni di attività del duo. Poi non sento più nulla, in perfetto stile italo-brasiliano. Due giorni prima del concerto mi ricontattano chiedendo se avessi organizzato il tutto. Ci siamo incontrati e in un paio d’ore ho chiamato 13 orchestrai. Il concerto è stato incredibile, era al Radio City Music Hall. Non li conoscevo, loro hanno milioni di follower, sono stati quelli che hanno portato il genere in tutto il mondo… È stato divertentissimo, una bella esperienza. Tra i tanti, ho registrato anche con i Dream Theater (per chi non li conoscesse band Metal, ndr)!».

Lavori anche con Jon Batiste, artista che amo particolarmente!
«Conosco Jon molto bene, ho lavorato più volte con lui. Nel 2019 ho iniziato a collaborare a un progetto con quartetto d’archi. Poi ho partecipato al suo American Simphony, dove ha unito un’orchestra di 64 elementi che univano musicisti di tutte le etnie e generi musicali presenti negli Stati Uniti. È stato fantastico. Lui è un personaggio davvero speciale».

Ok, avete letto? Bene, ora mettetevi comodi, chiudete gli occhi e lasciatevi trascinare in quest’avventura sonora. 

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