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“Anì”, la purezza di una nuova vita e della musica

Raffaele Casarano – Foto Roberto Cifarelli

Spingersi oltre, essere curiosi, guardare il mondo. Questo è il presupposto per essere un bravo musicista. Certo, ci vuole lo studio, la determinazione, il duro lavoro, però è la curiosità che ti dà quel tocco int più per fare qualcosa di bello, diverso, unico.

Una riflessione che ho tratto ascoltando un disco molto intrigante – confesso, uno dei più interessanti dell’anno che sta finendo. Si chiama semplicemente Anì, è dedicato a una bimba. L’autore – e il padre – è Raffaele Casarano, uno dei migliori sassofonisti attualmente in circolazione. Otto tracce costruite su solide fondamenta e su ali che ti portano in mondi immaginifici.

La musica è molto personale, dialoga con certe emozioni, stimola pensieri e movimenti, e quella di Raffaele mi ha colpito, sbam!, un colpo secco dritto al cuore. Uscito il 2 dicembre, è diventato un ascolto quotidiano. Ogni giorno scopro qualcosa di nuovo, passaggi impercettibili che aprono altre porte. I ritmi, i cambi di direzione, le scomposizioni, le armonie, gli strumenti, dal pianoforte di Mirko Signorile, alla batteria di Marco D’Orlando, ai ricami di Bonnot, prezioso sound designer, alle percussioni di Alessandro Monteduro uno esperto in taranta. Sta di fatto che i musicisti qui suonano con autentica e sincera “fratellanza”.

La ciliegina sulla torta, quello che ti porta negli spazi più profondi della musica, l’ha messa il mitico Dhafer Youssef, grazia alla maestri nel suono dell’oud e alla magia della sua voce. E qui si potrebbe aprire un capitolo lunghissimo. Dhafer è uno dei motivi che mi hanno spinto ad approfondire la musica nordafricana e ad aprirmi ad altri mondi. La musica è un’astronave che ti porta in giro per l’universo, viaggi concreti, emozioni e cultura, condivisione e rispetto. Non manca anche un pezzo, Fight Back, dove M1 dei dead prez si diverte a rappare mentre il sax di Raffaele gli fa da controvoce. È un brano di resistenza che il rapper di Brooklyn ha scritto dopo aver ascoltato la base musicale di Casarano…

Ed è un improvviso cambio di direzione il Brano successivo, To Fly, dove entrano l’oud e la voce di Dhafer. Il passaggio di testimone, con la costante del sax di Raffaele, a unire due culture, artisti così particolari e diversi che parlano la stessa lingua.

Non a caso questo lavoro è pubblicato dalla Tǔk Music di Paolo Fresu. Dei sette album in studio registrati da Raffaele, cinque hanno visto la luce nella culla multietnica del trombettista sardo. «Paolo mi ha sempre spronato a spingermi oltre», mi racconta Raffaele…

Raffaele, che disco! Sarà perché è coinciso con la nascita di tua figlia Anita?
«Era da un po’ che ci stavo pensando. Volevo omaggiare il Mediterraneo, la cultura di questo bacino millenario. Vivo a Lecce, ci sono sempre stato dentro, immerso in questo crocevia di suoni, razze, popoli. Mi piacciono questi intrecci di cultura e sonorità, mi appartengono. Il mio lavoro iniziale andava in tutt’altra direzione. Poi, a giugno dello corso anno, quando abbiamo avuto la notizia che saremmo diventati genitori, siamo stati in ospedale per la prima ecografia. Ho registrato il suono di quel piccolo cuore e ho capito dove dovevo andare. Il battito del cuore di Anita è l’inizio ritmico dell’omonimo brano. Anì è un omaggio alla mia bambina ma anche un riaffermare la purezza della musica che non concepisce, come un bambino, ostacoli, barriere, diversità».

Raccontami di M1 e di  Dhafer Youssef…
«M1 lo conosce Bonnot (il toscano Walter Buonanno, produttore, compositore polistrumentista, ndr) con cui lavora. La musica black con le sonorità mediterranee e le incursioni jazz sono state un bell’esperimento. Dhafer invece lo conosco da tempo perché ho suonato nella sua tournée per molto tempo».

Il jazz è il trait d’union tra mondi apparentemente lontani?
«È una musica in continua mutazione, per questo è sempre una musica giovane. Ti porta a spingerti sempre oltre, di rende curioso, poi ti capita di fare una cosa buona oppure no, ma bisogna rischiare».

L’incitazione di Fresu a spingerti oltre…
«Il motore è la curiosità, la libertà d’espressione, l’essere fuori dai canoni, da ogni regola. Evito di suonare pattern standard».

Ritorniamo un attimo su Dhafer, che io ammiro moltissimo. Come lo hai conosciuto?
«Ero a Lecce in una riunione con una dirigente scolastica per un progetto musicale quando mi suona il cellulare. Era Dhafer. All’inizio ho pensato a uno scherzo, e invece no, era proprio lui. Mi ha chiesto di raggiungerlo a Parigi, dove vive, perché aveva molto sentito parlare di me, mi aveva ascoltato e voleva farmi un’audizione. Sono andato e sono rimasto a suonare con lui per quattro anni! Siamo diventati molto amici, per questo ha accettato di suonare e cantare nel mio disco in tre brani, To Fly, Malaspina e Trance in Space, il brano di chiusura. A breve pubblicherà un album con Marcus Miller (Street of Minarets, in uscita il 23 gennaio 2023, con Miller, Dave Holland, Herbie Hancock, Nguyên Lê, Vinnie Colaiuta  e tanti altri musicisti di razza, ndr).

Suoni jazz, ok, ma tu sei un musicista non un jazzista!
«Ti ringrazio di aver notato questa differenza, faccio musica a 360 gradi, per me è un punto fondamentale, perché significa essere un artista aperto, che non si pone barriere. Ho suonato con Finardi, Malika Ayane, Giuliano Sangiorgi, sono attratto dalla diversità. In fin dei conti le note sono sempre sette, la magia nasce unendole in infinite combinazioni. Questo ha anche a che fare con la libertà di pensiero in musica: non dobbiamo porci barriere nell’arte».

Foto Roberto Cifarelli

E qui introduciamo un altro capitolo: la musica come impegno, politico e sociale…
«Non ho mai pensato di fare dischi per fare catalogo. Credo fermamente nel contestualizzare la musica in un tema. Anì è un inno alla gioia, alla vita. Ha a che fare con mia figlia, certo, ma anche col rinascere dopo la pandemia».

Oltremare, il tuo lavoro di quattro anni fa, aveva un altro tema forte…
«Sì mi domandavo, vedendo tutti quegli sbarchi, la fuga delle persone da guerre, carestie e violenze in cerca di un futuro, dove fosse finita la dignità dell’uomo. Abbiamo perso quell’eleganza umana di rispettarci. Ormai ci odiamo tutti per le cose più futili. Solo la musica ha una proprietà salvifica, può inneggiare alla pace, la musica è un potente strumento di sensibilizzazione sociale».

Ritorno al tuo stile musicale: usi molto l’elettronica, ti piace sperimentare?
«La amo, ascolto Lars Danielsson, l’elettronica “nordica” in genere. E poi sì, studio il mio strumento per riuscire a suonarlo in modo non convenzionale. Per esempio, in Trance in Space suono il sax soprano senza imboccatura con l’impostazione da tromba ed esce un suono incredibile. Questo brano è il punto massimo del disco che trae ispirazione dalla musica elettronica norvegese, un mondo musicale futurista con bassi dub, spazi larghissimi, la voce di Dhafer che si intreccia con il mio sax, navighi letteralmente nel suono…».

Ti sei accompagnato a musicisti che sono entrati nel tuo mood!
«Con Mirko Signorile suono da anni c’è un’intesa molto forte e qui in questo disco ha messo le ali. Marco D’Orlando è un giovane batterista di Udine. Ha 28 anni ed è bravo vero. Suona la batteria in modo non convenzionale, come se stesse facendo un assolo continuo. Gli ho chiesto: “Marco, suonami addosso, senza timore”. Così ha fatto e il risultato sei sente».

Ultima domanda: chi è Julia?
«La figlia di mia sorella, una dolcissima peste!».

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