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Jali Babou Saho: i griot, la kora e lo scopo della musica

La kora è uno strumento che mi ha sempre affascinato. Perché ha la capacità di liberare la fantasia, di ammaliare, di rendere magica la musica. Tra i dischi che ascolto spesso ci sono Ballaké Sissoko con Vincent Segal al violoncello in Chamber Musica, lavoro del 2009, Sona Jobarteh, una grande e magnifica musicista, prima suoantrice donna di ora proveniente da una famiglia di griot, i depositari di questo strumento, in Fasiya del 2011, Ablaye Cissoko con i  canadesi Costantinople, in Traversées, lavoro del 2019, e Toumani Diabaté (cugino della Jobarteh) con il grande chitarrista Ali Farka Touré in quell’album bellissimo che si intitola In The Heart of The Moon (ascoltatevi Kadi Kadi). Musica che viene dai cantastorie gambiani e maliani, discendenti di griot di origine mandinka (le popolazioni dell’Africa Occidentale) che si sono passati di generazione in generazione la difficile arte del suono di questo strumento simile a un’arpa e a un liuto, complesso quanto incredibile.

Alcuni mesi fa è uscito il primo lavoro di un musicista mandinka che vive da sette anni in Italia, a Pordenone dove lavora come operaio in una fabbrica, Jali Babou Saho. Si intitola Tamalla (qui Kanno). La kora le stata data in dono da suo padre, griot come suo nonno e suo bisnonno e via salendo nell’albero genealogico, quando aveva dieci anni, è la stessa che porta sempre con sé. Un album che ha visto la luce grazie all’incontro di Babou con Francesco Mascio, eclettico chitarrista che quest’anno ha pubblicato My Standards, lavoro da ascoltare con grande attenzione (qui Black Mama), e prodotto dai fratelli Sinigallia, Riccardo e Daniele. Ne è uscito un disco che racchiude, tra l’acustico e l’elettrico, vari stile, quello tradizionale gambiano, jazz, blues, un bell’esempio di World Music.

Intorno al progetto di Babou, oltre allo stesso Francesco Mascio, si sono radunati altri musicisti, il sassofonista Alberto La Neve, la cantante Fabiana Dota, il batterista Domenico Benvenuto, il vocalist italo-libico Esharef Alì Mhagag, il percussionista Tonino Palamara, il bassista Paolo Mazziotti. Il risultato è un gran bel lavoro che riesce a seminare la magia della ora anche a chi non è così addentro.

Parlando con Saho ho capito molte cose. Innanzitutto l’essenza del musicista che non è solo un artista ma soprattutto una persona che trasmette emozioni e insegnamenti. Il rispetto nell’offrire la propria musica, per un griot è un elemento essenziale dell’essere stesso. «Mio padre mi ha insegnato a suonare la kora ma anche a diventare un griot, e non lo impari in poco tempo, ci vogliono anni, ti deve entrare nel sangue», mi racconta Babou. 

Che cos’è per te la kora?
«È uno strumento tradizionale che viene trasmesso di generazione in generazione, è uno strumento “magico”: quando tu ami la kora lei ti ama. Essere griot è un dono, posso fare qualcosa per la musica e per gli altri».

È uno strumento che fa un effetto stordente, avvolgente, ipnotico…
«Spiegarti cosa significhi il suono della kora è come raccontarti del mare, potrei andare avanti giorni. Ho provato a farlo varie volte, ma finisco che mi prendono per un fuori di testa! Quando suono sono una cosa sola con lo strumento, energia che passa continuamente, voci, tradizioni…»

Cosa significa essere un griot?
«È uno stile di vita, una grande scuola. Per diventarlo devi, innanzitutto, avere una grande gioia dentro di te, essere una persona retta, onesta. Ecco, serenità e rispetto sono le doti necessarie».

Com’è stato l’incontro con Francesco Mascio?
«Francesco è il grande albero dentro al bosco, siamo diventati fratelli, per questo voglio fargli vedere la mia terra, la mia musica, la mia gioia. Conoscere, viaggiare è importante per comprendere».

In Tamalla hanno suonato vari musicisti…
«È una musica del mondo, dentro c’è racchiusa l’internazionalità, la condivisione di visioni musicali. Questo grazie anche a Riccardo Senigallia, abbiamo collaborato molto bene insieme. È il mio primo lavoro registrato in Italia».

Dei sei brani del disco uno mi ha colpito particolarmente Nkidetta
«Nkidetta nella mia lingua significa tristezza che ti viene dalla solitudine. È nata pensando pensando a un episodio di vita vissuta, dei boscaioli, vita molto dura, la cui aspettativa è lavorare ogni giorno per portare a casa qualche soldo, hanno un incidente con il camion e muoiono. Noi siamo nel mondo perché ciascuno di noi ha una missione da compiere, quale era la loro?».

Cosa speri dal disco?
«Mi piacerebbe avere un supporto fisico in mano, un cd, un vinile, ma è troppo costoso produrlo. Vorrei anche riuscire ad andare in Gambia a presentarlo con tutti i musicisti che hanno suonato come. Sarebbe bellissimo».

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