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Disco del Mese: Afrikan Culture, Shabaka Hutchings

Maggio è volato, tra interviste, discussioni e concerti, segno che la musica sta ritrovando lentamente una nuova normalità. Fra le tante uscite di questo mese ci sono lavori interessanti. A partire da Dropout Boogie dei The Black Keys, pubblicato il 13 maggio, con un ritorno del duo Auerbach-Carney a un sound delle origini. 

In Italia oltre alle solite uscite rap/trap, spiccano di gran lunga gli Zen Circus con il loro Cari fottuitissimi amici, disco che ha visto la luce il 27 maggio. Ascoltatelo, ne vale la pena, una delle migliori produzioni italiane di questo 2022. Tante belle feauturing, Brunori SAS, Management, Luca Carboni, Motta, Claudio Santamaria, Emma Nolde, per citarne alcuni.

Maggio ha visto anche una pubblicazione storica: Brian Jackson, il mitico pard di Gil Scott-Heron è ritornato a incidere dopo un lungo silenzio. Negli anni Settanta la loro musica di denuncia ha sollevato le coscienze, smontando pezzo dopo pezzo l’ipocrisia americana in tempi duri e violenti. Brian il 27 maggio ha pubblicato This is Brian Jackson, gran bel lavoro di inediti scritti nel corso degli ultimi 20 anni. L’avrei messo sulla vetta, la merita tutta! 

Però una settimana prima, il 20 maggio, ha fatto capolino Afrikan Culture, solo digitalmente per ora, primo lavoro da “puro” solista di uno dei miei miti, il sassofonista britannico Shabaka Hutchings, artista prolifico a cui piace esplorare tutte le sue infinite creatività dando vita a progetti che rappresentano tanti mondi diversi. Vedi i Sons of Kemet, di cui vi avevo parlato esattamente un anno fa, jazz-hip hop eseguito solo con fiati e percussioni, con l’intervento, in Hustle, brano densissimo, dello spoken word di Kojey Radical. Il basso lo fa una tuba suonata magistralmente da Theon Cross in perfetta sincronia con la sessione ritmica composta da Seb Rochford e Tom Skinner. Shabaka anima i Comet Is Coming con i quali si diverte a sperimentare un soul-prog e i Shabaka and the Ancestors, band con la quale suona spiritual jazz.

Questa volta il sassofonista di origini barbadiane si spoglia del cognome e di tutti i suoi ritmi “politici” per diventare, come un monaco francescano, solo Shabaka. Cover con un suo intenso ritratto per un EP di otto brani che hanno qualcosa di ancestrale.

La necessità di purificarsi, di andare alle origini, le sue origini, scarnificare la sua bravura di compositore e musicista per disegnare ambienti sonori che richiamano a un desiderio interiore meditativo, segnano un evidente cambio di passo nella creatività di uno dei jazzisti più influenti della Gran Bretagna (oserei dire del mondo…).

Anche gli strumenti scelti per esprimersi non sono affidati al caso. Innanzitutto la kora, una sorta di liuto, il cui suono metallico scandisce da secoli i brani dei griot del Gambia; quindi la mbira (lamelle metalliche fatte vibrare su una tavoletta di legno) da cui ha avuto origine la kalimba caraibica ben nota al musicista, o lo shakuhachi, il magico flauto giapponese. Anche le percussioni appaiono come pulviscoli ritmici, pioggia leggera di campanelle. Il linguaggio del jazz c’è ancora – e non potrebbe essere altrimenti – ma portato all’astrazione.

Da Black Meditation, prima traccia, alla splendida Call It A European Paradox, con una struggente kora e lo shakuhachi, a  Memories don’t live like people do, un incasellarsi di strumenti con l’effetto di una risonanza continua, è tutto un sovrapporsi di ricordi stratificati, sprazzi che si accendono e che velocissimi finiscono per lasciare il posto a un Ritual Awakening, brano che trasmette una felicità d’animo, seppur brevissima, con un flauto che “cinguetta” canterino. Ampia riflessione invece, 6:24 minuti, per Explore Inner Space, che prelude a una “dimensione di sottile consapevolezza”, The Dimension of subtle awareness, che conduce, finalmente, alla rinascita, Rebirth, ultimo brano di questo EP velocissimo, mezz’ora d’ascolto, ma concentrato, visionario, ontologico.

Viene voglia di riascoltarlo, ancora e ancora, come un mantra, affascinati da ogni nota…

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