Ok, l’ho trovato. Non che sia stato facile, l’Italia, dati ricavati dal Consiglio nazionale dell’Ordine degli Psicologi, ne conta 102.890, di questi, 54mila e rotti sono anche psicoterapeuti, un numero altissimo e ancora in espansione, a quanto pare. Ma trovarne uno giovane, 27 anni, che sia anche un musicista (suona la chitarra elettrica), che abbia scritto un libro, La Psicologia del Rock, Crescere con la Musica in Adolescenza (Alpes Italia, 2017), insomma che avesse il profilo ideale per spiegarmi le dinamiche dell’idolatria musicale, è stata stata una pura botta di fortuna.
In questi giorni di ricerca, ho trovato anche un bellissimo articolo su Pitchfork, dal titolo Why Do We Even Listen to New Music? L’autore, Jermey D. Larson, si domanda perché siamo spinti ad ascoltare ancora nuova musica visto che restiamo ancorati alle nostre vecchie glorie. Una volta che ci si affeziona a un genere, un artista, si resta legati per l’eternità, altro che marito e moglie! Eppure la voglia, anzi, il terrore di non ritrovarsi più in un mondo (musicale) profondamente cambiato, a un certo punto della vita viene.
Così si prova a guadagnare il tempo perduto, tra lavoro, matrimonio, figli, mutui e via discorrendo. È una questione di cervello, sostiene Larson. Il nuovo, anche nella musica, ci spaventa, o meglio, spaventa il “nostro computer”, abituato ad ascoltare suoni, melodie, riconoscere voci che ci fanno stare bene. Rifugiarsi nel noto invece di avventurarsi nell’ignoto è uno dei temi cari alla psicologia, ma non solo. Come ben scrive Jonah Lehrer, 38 anni, saggista americano nel suo libro Proust era un neuroscienziato (Codice Edizioni, 2017), “Siamo stati costruiti per aborrire l’incertezza delle novità”.
Ok, questa è una possibile strada per spiegare il perché di certi nostri comportamenti che hanno a che fare, inevitabilmente, con emozioni, amigdala e dopamine. E tutto questo è “roba” da psicologi…
«È una questione piuttosto complessa. Prendo ad esempio me stesso: ho studiato chitarra elettrica, mi sono appassionato alla musica tra la metà degli anni Ottanta e quella degli anni Novanta, Pearl Jam, Jon Bon Jovi, Litfiba, Guns n’ Roses, Bruce Springsteen. Ho i miei autori “stabili”, gli U2, immortali, e i Coldplay, mi piace la contaminazione elettronica. È più o meno la musica della mia adolescenza…».
«Sì dal nostro Io Adolescente e dall’adolescente reale. Vado spesso a concerti perché mi piace studiare le dinamiche del pubblico. Nell’adulto concerto significa non solo l’esibizione in sé, ovvio, ma anche tutto ciò che sta attorno all’evento: il rito, l’attesa, la condivisione, l’essere lì tutti insieme per un unico motivo, fa emergere quella parte di adolescente viva, ricca che richiama alla tua giovinezza, alla parte più ingenua dell’adulto. È una forte tensione emotiva, soprattutto se tendiamo a inquadrare un adulto che lo è solo di fatto, per età. Mi domando: un trentenne è un adulto? Oggi persone tra i 35 e i 40 stanno ancora a casa dei genitori, sono scostanti nelle relazioni…».
Sono in un’adolescenza prolungata…
«Sì, e il mio lavoro consiste di far capire le ragioni di tali comportamenti. Lo faccio attraverso una canzone, può essere un approccio, e funziona. Ognuno, nei ricordi ha una canzone, sia allegra sia triste, che lo lega a un determinato periodo della propria vita. Parlare del brano porta spesso ad agganciarti a ricordi e quindi a rielaborare, capire il motivo del disagio. Con gli adolescenti è più facile».
Perché, per metterla in poetico come hai fatto tu: “Non esiste differenza tra la morte di una rosa e l’adolescenza”, citazione da Betty dei Baustelle…
«I problemi degli adolescenti sono legati al crescere, alla scoperta del sesso, all’appartenenza e alla differenziazione».
Ti riporto sugli artisti che diventano idoli, leggende, immortali…
«Rispondo con un aneddoto. Ero all’ultimo anno di università e sono andato con alcuni amici a vedere il concerto di Laura Pausini. Mi interessava capire come mai, a prescindere dalla bravura dell’artista, lei riuscisse a raccogliere così tanta gente e in tutto il mondo. Volevo vedere con i miei occhi come riusciva a creare un così forte “appeal”. Arriva il momento in cui canta Simili. Dietro a questo brano, a livello scenico tutto era studiato al dettaglio. Sul finale della canzone luci, fulmini, crescendo. Lei a quel punto allunga le mani verso il pubblico come a stringerle in una presa universale. E il pubblico immediatamente risponde, ripetendo verso di lei il gesto. La distanza fisica tra palco e platea, tra sacro e profano, veniva improvvisamente a mancare. Tutte quelle mani erano unite alle sue. Il rito s’era compiuto: il palco come un altare dove si celebra una cerimonia sacra, i fan, come i fedeli, in venerazione..».
Un credo cieco, definitivo, una fede…
«Esatto. Per spiegare torniamo ancora all’adolescenza, dove avvengono una serie di cose: innanzitutto, ci si ritrova dentro e si vive quel determinato periodo storico. E ascoltare, soprattutto la musica, significa appartenenza ma anche differenziazione, dalla famiglia o da un gruppo di amici. Quindi, ne discende che, per essere diverso in casa, mi creo un mio mondo, e in questo processo mi posso appropriare di un artista ascoltato dai miei genitori o prenderne le distanze, come a dire: ero legato a te ma adesso scelgo di abbracciare un genere diverso dal tuo».
In questi anni va il rap e la trap, negli anni Settanta c’era il rock e il punk, il funk…
«È questione di momento storico, come dicevo, e di linguaggio. Oggi gli adolescenti si riconoscono per lo più in quel genere musicale. Questione identitaria ma anche timore di essere esclusi dal gruppo…».
E arriviamo al dilemma: da adulti quindi…
«…Manteniamo l’imprinting musicale che abbiamo avuto da adolescenti. La musica è ancorata ai ricordi. Per questo trovare un senso che mi leghi a un autore o un brano da adulti è più difficile. Potrei legarmi, che ne so, a Lady Gaga perché è un’artista che ha fatto un percorso molto difficile, dalla sosia di Madonna è diventata una star planetaria con una sua identità, raffinata. Posso apprezzare tutto ciò ma difficilmente renderla un mio idolo. Sarebbe complicato gettare il proprio idolo e prenderne un altro! L’ideale, soprattutto se si è genitori di figli adolescenti, è cercare di aprire un canale di dialogo, trovare il senso di quello che si ascolta, aprire uno spazio di condivisione su un determinato artista, parlarne».
La musica è emozione e l’emozione ha a che fare con il cervello…
«Quando ascolto musica attivo delle funzioni cerebrali e vado a stimolare l’amigdala il nucleo che gestisce le nostre emozioni. Una volta stimolata, per esempio da una melodia piacevole, produce dopamina, responsabile di quel senso di piacere che si avverte. È un rilascio fisiologico e vale per tutto, dalla fame al sesso».
Ultima domanda: ma esistono persone “insensibili” alla musica?
«Sì, e questa insensibilità ha un nome, anedonia musicale. L’8 per cento della popolazione vive la musica in maniera indifferente. Non è una colpa e nemmeno una malattia. Semplicemente è Ia non risposta a uno stimolo, l’amigdala non rilascia dopamina».