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“Migrantes – Session I”: musica per chi cerca un’altra possibilità

C’è un disco che mi ha particolarmente colpito in questo ultimo periodo dell’anno. Si intitola Migrantes – Session I, ed è stato composto e suonato da due musicisti di grande esperienza, Andrea Manzoni al pianoforte e Mauro Sigura all’oud. La parola Migrantes in sé contiene un mondo: l’essenza innata del viaggio propria dell’uomo, la fusione di razze e culture, lo scoprire e l’accettare, l’essere curiosi e aperti, il desiderio di realizzare la propria vita, un lavoro, un legame, il bisogno dell’ignoto per ritrovarsi.

Il merito di questo intenso lavoro «una sinergia non solo musicale ma di amicizia e di volontà di  costruire un progetto solido», come mi raccontano i due artisti, è racchiuso in quella parola che sulla cover è scritta in evidenza: Migrantes. Tutti lo siamo, o lo siamo stati, tutti aspiriamo a “un altro qualcosa” nel corso della nostra vita.

Scegliere di suonare pianoforte e oud senza altri strumenti di contorno è il cuore che dà vita al lavoro di Manzoni e Sigura e al significato del loro progetto che si è espresso, dopo anni di collaborazioni e concerti in giro per il mondo, in un primo disco. Uno scambio non certo facile, ma il risultato è perfetto negli equilibri emozionali, nel rincorrersi delle note, nella comprensione reciproca, che si traducono in armonici di estrema finezza. Due realtà apparentemente lontane anche per i musicisti stessi, il primo viene dalla musica classica, il secondo dalla chitarra elettrica, dal jazz e poi dalla fascinazione dell’oud, e della musica araba. Che inevitabilmente si riflette in brani come Beirut e nel tradizionale tunisino Halfaouine che chiude il disco (con Crosswind, unici due brani non originali).

Second Life, è il “brano Gps” di questo viaggio fatto di otto tappe, 35 minuti di ascolto immersivo e stimolante che sancisce l’incontro tra piano percussivo e oud.

Come vi siete trovati?
Mauro Sigura: »È capitato per caso: nel 2014 dovevo tenere un concerto in Tunisia, in un luogo piuttosto complicato dal punto di vista dell’acustica. Mi sono messo a cercare su YouTube musicisti che avevano già suonato lì e mi sono imbattuto in questo soggetto! Gli ho scritto chiedendo informazioni e da lì abbiamo instauaato una relazione a distanza. Poi siamo finiti a suonare insieme proprio in quel posto lì in Tunisia. Funzionava e siamo partiti per una serie di concerti che stanno ancora andando avanti…».
Andrea Manzoni: «Diciamo che l’incontro, a parte la fortuità dell’evento, ha sancito da subito una grande sintonia musicale, che poteva essere molto complessa per la differenza dei due strumenti. In realtà dopo il primo concerto ci siamo resi conto che suonare insieme era estremamente naturale e che nonostante avessimo due culture musicali diverse, potevamo costruire un nostro suono. Per noi è stato l’elemento chiave, l’aspetto emotivo, come nelle coppie (ride, ndr)».

Due strumenti che non fanno sentire la mancanza di altri! Andrea, le percussioni le fai tu con il pianoforte?
Andrea: «Sì, abbiamo cercato di recuperare quella che è la tradizione classica del ‘900, quindi John Cage, Steve Reich e di contemporaneizzare questi beat che sono quasi pop da un certo punto di vista, oppure legati alla World Music, inserendoli all’interno delle nostre composizioni per vedere che cosa poteva succedere. Ci siamo resi conto che le strutture stavano in piedi, che il suono poteva funzionare anche attraverso dei respiri, dei silenzi, attraverso nessuna armonia, ma solo delle melodie, dei groove suonati da Mauro e questo battere incessante dentro il pianoforte».
Mauro: «Andrea in questo senso è stato eccezionale a trovare il linguaggio giusto, perché comunque l’oud è piuttosto scontroso, tende a litigare un po’ con tutti gli altri strumenti. Invece da subito Andrea ha trovato le “parole” giuste, nelle frequenze armoniche e di suono, nella quantità di note da utilizzare al momento giusto».

Mauro, doverosa domanda: perché l’oud?
«Nasco come chitarrista, e infatti ho un background di quel tipo lì, lo sono stato fino al 2011 quando suonando il bouzouki e il baglamà da autodidatta, mi sono imbattuto nell’oud assistendo a un concerto di Loreena McKennit tenuto all’Alhambra di Granada. Una settimana dopo ero in giro per l’Italia a cercarne uno. L’ho trovato a Roma mezzo distrutto, c’erano le istruzioni tipo Ikea per rimontarlo!».

Quindi il progetto, iniziato ben prima del disco, è stato concepito per un ascolto live?
Andrea: «Si tratta di una suite divisa in tre momenti, il Sogno, la Speranza e il Viaggio, di 20 minuti ciascuno, tre movimenti concepiti come una sinfonia di Beethoven o di Stravinsky, estremamente emozionali. Alla fine del Sogno, smettiamo di suonare e raccontiamo che cosa stiamo rappresentando, cioè il viaggio di un migrante, perché migranti lo siamo tutti. Abbiamo ripreso questo concetto portandolo all’interno delle composizioni, cercando di trovare sempre una connessione tra un brano e l’altro in modo molto naturale, per far vivere al pubblico questi tumulti emozionali, gli stessi che sentiamo quando viaggiamo».
Mauro: «Il concetto fondamentale, oltre a quello che ha espresso Andrea, è l’empatia: noi stessi siamo stati  migranti, per un periodo più o meno lungo abbiamo vissuto in luoghi dove non eravamo nati. Esperienza che ci accomuna con molte altre persone, ovviamente a livelli diversi, più o meno tragici, riusciti o facili. Ci immedesimiamo in ciò che vogliamo raccontare per far rivivere a chi ascolta le proprie esperienze».
Andrea: «È estremamente attuale, la nostra sembra quasi una paraculata. Invece è una tematica talmente urgente che ognuno di noi, a livello diverso, prende coscienza di quanto accade. Vado ancora più in profondità, in modo verticale. Anche una persona che è nata, cresciuta e vissuta nello stesso luogo oggi fa i conti quotidianamente con questa realtà».

Perché il sottotitolo Session I?
Andrea: «Perché è stata la prima sessione in studio che ha raccontato questi tre momenti. Nel disco è stato difficilissimo inserirli come dal vivo, però ci sono tutti. Abbiamo registrato in modo miracoloso, come si faceva negli anni ’70: siamo entrati in sala di registrazione a Milano al Tranquillo Studio, e in sei ore abbiamo registrato il disco, come se fossimo stati dal vivo. L’editing, il mix e il mastering sono stati irrisori. Per l’occasione c’erano anche gli studenti dell’Accademia alla Scala di Milano che hanno fatto da assistenti al Kapellmeister dello studio, anche questa un’esperienza particolare… Non potevamo, dunque che sottotitolarlo Session I, sessione unica!».

La scansione dei titoli è molto esplicativa, Si incomincia con Second Life, tutti hanno bisogno di una seconda chance. Quindi è la volta de Le langage des Fleurs… il linguaggio altro tema inerente il viaggio…
Andrea: «Le langage des Fleurs viene da mie letture, Rimbaud, Baudelaire. C’è tutto quell’immaginario che in un modo o nell’altro, quando vivi in Francia devi farci i conti, a meno che tu non la abiti in modo superficiale. Ho vissuto lì 10 anni e comunque ti scontri con la cultura francese. Ti scontri per incontrarti.  Dicono che siamo cugini, ma in realtà siamo lontanissimi. Abbiamo veramente bisogno di comprendere la loro cultura, il loro linguaggio. Come si dice? Quando impari un linguaggio, il tuo cervello pensa in un’altro modo, il tuo pensiero si modifica e quando conosci la lingua comprendi il loro modo di ragionare e di confrontarsi con te. Accade con tutte le lingue del mondo».

Ho molto apprezzato Beirut e Halfaouine
Mauro: «Halfaouine in realtà è un brano tradizionale tunisino, per noi importante perché è stato il primo che abbiamo suonato insieme in Tunisia, e da allora è con lui che chiudiamo tutti i nostri concerti. Veniamo a Beirut: scrissi il tema quando ci fu quell’esplosione terribile al porto della città (il 4 agosto 2020, ndr). Rimasi colpito da quella devastazione, molte persone sono svanite, scomparse nel nulla. Ho proposto ad Andrea quest’idea su cui lui ha lavorato in maniera eccellente, creando un movimento molto ampio che di colpo diventa una frequenza di suono pazzesco e soprattutto non ordinato metricamente perché mi sono immaginato tutta questa gente che percorreva ognuna la propria strada quotidiana in maniera ordinata, normale e di colpo è stata frantumata».
Andrea: «È un brano incredibile perché Mauro, quasi inconsapevolmente, ha creato la composizione più classica del disco. Dentro questa forma caotica ci sono Stravinskij, Tchaikovsky, Prokofiev, Bartók: l’ha scritto in 5/4, che poi modula metricamente, con un sacco di situazioni ritmiche davvero complicate. Per me è stato un brano completamente nuovo, non avevamo mai pensato di lavorare su una struttura del genere. Apre scenari futuri molto interessanti, infatti stiamo sviluppando nuovi pezzi partendo da questi concetti».

Se fossimo negli anni Settanta direi che la vostra è una musica impegnata…
Andrea: «Che bella questa parola, come la amo! La musica impegnata non era quella fine a se stessa, ma convogliava emozioni sul momento, il contesto storico».

Vi sentite dei musicisti “impegnati”?
Andrea: «È una tematica molto complessa, soprattutto dal punto di vista storico, perché se pensiamo alla musica impegnata in Italia vengono in mente gli Area, Guccini, Morricone nel cinema o Luciano Berio e Luigi Nono nella musica classica contemporanea. Anche la musica più leggera, da Ornella Vanoni a Gino Paoli, aveva “un impegno”. Da un certo punto in poi si è aperto un divario completo, la musica è andata agli opposti. Da una parte chi continuava un certo tipo di ricerche e di percorso, dall’altra chi decideva di arrivare al grande pubblico – purtroppo oggi accade più che mai  – abbassando il livello vertiginosamente. Non c’è più alcun tipo di ricerca, un azzardo, il diritto all’errore. Un tempo i grandi produttori dicevano: “Vediamo cosa succede, crediamoci e facciamolo”. Con ciò non voglio dire che tutte le produzioni degli anni Settanta fossero dei capolavori, però almeno ci provavano». 

Mettete il vostro impegno per fare una musica diversa…
Andrea: «Quello che stiamo cercando di fare è trovare una direzione che abbia una verità all’interno, che poi è quella della nostra esperienza e sensibilità. Le persone che ascoltano troveranno qualcosa all’interno della nostra musica se avranno dei canali comunicativi aperti verso ciò che facciamo. Sicuramente la nostra non può essere una musica massiva, in questo senso possiamo definirla “impegnata”, ma all’interno di questa, purtroppo è difficilissimo far passare il concetto, c’è una grande semplicità. Non è il jazz di Cecil Taylor!».
Mauro: «Alla fine ciò che facciamo è salire sul palco e raccontare la nostra esperienza, ciò che sentiamo. Non sono dell’idea che i musicisti debbano avere una missione in questo senso, non è il nostro compito. Come mi disse Tonj Acquaviva (mitico polistrumentista e cantante degli Agricantus morto nel 2024, ndr), quando nel 2012 lavorai con loro: “L’importante è cercare di portare le persone che ti ascoltano dentro il tuo mondo, una volta che riesci a farlo, puoi raccontare loro quello che pensi di dover dire e loro saranno pronti ad ascoltarti”. Dopodiché il dilemma è capire se il pubblico accetta di entrare nel tuo universo oppure starne fuori».

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