
«Mi piacciono gli acronimi, dare sempre una doppia lettura, visto che sono uno che ci litiga e ci mette anima e cuore in ogni parola che scrive. Mi piace che anche nel titolo ci sia questo tipo di effetto». M.A.P.S. (Manuale Alternativo Per Sentire) – nel 2015 aveva pubblicato L.U.C.I. (Le Uniche Cose Importanti) – è l’ultimo lavoro di Marco Ligabue, cantautore dall’animo rock, fratello minore del Luciano di Correggio. Uscito in formato fisico il 21 novembre – e digitale una settimana dopo – è un lavoro sincero, maturo ed essenziale, senza fronzoli.
Un disco nato come un album con due lati, A e B. Il primo è “La Geografia del Mondo Esterno”, il secondo “La Geografia Interiore”. Si parte dai quattro elementi che hanno creato il mondo, e cioè, fuoco, terra, aria e acqua per raccontare un mondo fin troppo spremuto dall’uomo, e si atterra nei pensieri e nelle emozioni che compongono la geografia interiore dell’artista.
Nove brani per 28 minuti di ascolto teso, in quel “Rock emiliano” che oramai è diventato un genere a se stante, solo chitarra, basso, batteria, niente elettronica, tutto manuale. Una scelta precisa e voluta perché un artista deve essere trasparente con il suo pubblico, quello che ascolta sul disco lo deve sentire sul palco.
Manuale Alternativo Per Sentire è una provocazione a questo questo nostro modo di vivere iper-connesso che non lascia spazio al pensiero e annebbia la nostra intelligenza.
Marco, un manuale alternativo per sentire… cosa? La vita, la musica, l’aria che tira?
«L’idea è una provocazione, visto che stiamo vivendo in un mondo dove troviamo istruzioni per tutto, attraverso Google abbiamo risposte scritte a tutte le domande che ci vengono in mente… Siamo intorpiditi. Però la musica e certi sensi secondo me devono essere riaccesi, è questo il significato di M.A.P.S.: il tempo e la voglia di non sapere già le cose prima ma scoprirle mano a mano».
Suoni un “Rock emiliano”, che possiamo considerare un genere, o sbaglio?
«Non sbagli! L’Emilia negli anni ha sfornato veramente tanta musica, è incredibile perché ricca di ceppi musicali e culturali. Da sempre è stata una terra che ha accolto tante culture. Se ci pensi, dalla Lirica è nato Pavarotti, dal folk Casadei, dal cantautorato Guccini e Pierangelo Bertoli e lungo queste strade, citando M.A.P.S. come navigatore, c’è anche una direzione Rock che qua ha attecchito tantissimo. C’è una spiegazione per il Rock: è un territorio che è sempre stato attento a tutto ciò che veniva dall’Inghilterra e dall’America e che ha cercato di farselo suo. Nelle feste, nei locali, nelle balere, il Rock è sempre piaciuto tantissimo è una musica suonata tanto e ascoltata con altrettanta curiosità. Questa strada hanno avuto modo di percorrerla mio fratello Luciano, insieme con Vasco Rossi, gli Stadio, i Nomadi, insomma tante realtà che appartengono a questa terra».
In effetti come per la Sardegna, la Sicilia, la Puglia, l’Emilia è una di quelle regioni dove tu senti la musica come una prerogativa. Forse dipende dal fatto che si è sempre stimolato culturalmente le persone, anche a livello politico…
«Ti cito solo le Feste dell’Unità, che in realtà erano feste di paese: partivano da un concetto politico ma hanno contribuito a creare una certa cultura di incontro musicale. Ogni festa dell’Unità, anche la più piccola, ha portato sempre musica dal vivo, fin dagli anni ’70, non parliamo degli ’80 dove, per esempio, a Correggio sono passati Bob Dylan, Neil Young, i Jethro Tull, miti della musica mondiale. Anche Jeff Buckley -il 15 luglio 1995, ndr – è venuto a Correggio a tenere un concerto, Correggio, un paesino di 25mila abitanti! La grande attenzione alla musica Rock sicuramente ha fatto sì che si nascesse con la passione, con il sogno di questi suoni che arrivavano da Oltreoceano e che abbiamo sempre cercato di fare nostri aggiungendo soprattutto la parola e un certo modo di fare musica».
Tornando al disco, lo possiamo definire una mappa emotiva?
«Penso che andando avanti con l’età si cerchi sempre di mantenere leggerezza e cura attraverso la musica ma contemporaneamente di andare sempre di più in profondità, è nella natura umana. Il disco è una sfida artistica, provare a raccontare i quattro elementi che ci hanno generato, fuoco, acqua, terra e aria attraverso quattro canzoni. Per il Fuoco mi è venuta L’anima in fiamme, per andare a riscoprire la nostra scintilla interiore. Poi son passato all’elemento Terra e pensando al Pianeta mi è venuto in mente il cambiamento climatico e ho scritto Toc Toc ecologico, brano che vuole bussare alla mia coscienza e spero lo faccia anche alle coscienze di qualcun altro. Poi Il vento dell’estate per l’Aria e Quello che c’è per l’Acqua. Questi quattro brani andavano naturalmente a costituire un reale lato A del mio prossimo vinile. A quel punto è partita la seconda sfida: se da un lato racconto la geografia che trovo fuori di me, devo provare a presentare la mia geografia interiore, quella dell’anima, dove ci sono ricordi, emozioni, nostalgie».
Nell’album il tuo Rock è ritornato alle origini, chitarra, basso, batteria. Sei arrivato all’essenziale anche nel suono…
«È stata una scelta ragionata. Oggi è un attimo farsi prendere la mano dalla tecnologia, che in un secondo ti aggiunge quello che vuoi. Dopo succede che ci sono anche i concerti da fare e quelle poche volte che ho provato ad arrangiare un brano con l’aiuto del computer, magari veniva interessante, ma poi non lo ritrovavo dal vivo, perché difficilmente arrangiabile. Il live è la parte predominante del mio lavoro, quest’anno ho superato i cento concerti. Il processo creativo dal punto di vista sonoro è stato il medesimo, ho scritto le canzoni voce e chitarra, poi mi sono trovato in studio con la band, e, proponevo un brano alla volta, massimo due, senza averglieli fatti ascoltare prima per cogliere il loro istinto musicale senza troppi ragionamenti alle spalle. Così, con batteria, basso, chitarra elettrica davamo l’ossatura al pezzo e, una volta trovato l’arrangiamento di base, registravamo lavorando sui dettagli. Il bello di questo metodo di lavoro è che adesso che iniziamo portare il disco in live, è uno spettacolo eseguire e ascoltare questi brani».
Ti piace davvero “vivere” i concerti!
«Penso che sia il momento più bello della mia professione. Adoro scrivere, però quando trovi il contatto con la gente – perché un concerto non è fatto solo di due ore di esibizione, ma è un viaggio verso un posto nuovo, la conoscenza di nuove persone con cui spesso diventi amico, l’assaggiare cibi diversi, il vivere culture diverse – è un’esperienza totalizzante che ho sempre messo al centro del mio lavoro. E poi il concerto è una scelta obbligata per un artista: nella cultura del tanto, dell’iper-produzione musicale, come fai ad affezionarti a proposte nuove, capirle, quando sei bombardato tutto il giorno? Almeno io la vivo così, quando ascolto mi oriento più su nomi conosciuti piuttosto che andare a scoprire una meritevole d’attenzione tra le centomila canzoni uscite in quel momento! Quando però hai modo di farti conoscere sul palco per come canti, per come interagisci con la band, per il livello dei tuoi musicisti, per quello che dici, il pubblico si lega a te, segue il tuo percorso».
Ultima domanda, ricordiamo i musicisti che suonano con te?”
«Sono tutti ragazzi emiliani: il batterista, Leonardo Cavalca, è di Parma, Jonathan Gasparini è di Correggio come me, ed è un chitarrista pazzesco, Jack Barchetta, viene provincia di Ferrara, e suona il basso. Siamo noi, e di questo sono veramente orgoglioso! Abbiamo lavorato tanto per creare un sound con pochi strumenti valorizzati al massimo. Rimettere al centro la componente umana è una delle grandi soddisfazioni di quest’anno di tour. In alcune piazze si fermavano ad ascoltarci anche ragazzi di 15, 16 anni che venivano rapiti dai musicisti e più di una volta, a fine concerto, sono venuti a farci i complimenti. Per alcuni di loro era la prima volta che vedevano suonare una persona dal vivo…».