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A Parma, jazz, sperimentazione e quel festival di… Frontiere

Roberto Bonati – Foto Giuseppe Arcamone

Il 28 settembre scorso è iniziata la 29esima edizione del Parma Jazz Frontiere, festival che chiuderà i battenti il 25 novembre prossimo. Le prime due date, il 28, Bobo Stenson con il suo trio, e il 29, il concerto The Silk Road dedicato ai 700 anni dalla morte di Marco Polo hanno registrato il sold out.

The Silk Road è stato eseguito dagli  studenti del Conservatorio Arrigo Boito di Parma, della Hochschule für Musik di Norimberga, della Norwegian Academy of Music di Oslo e della Universität für Musik und darstellende Kunst Wien di Vienna riuniti a Parma nell’European Jazz Workshop, residenza nata da un progetto iniziato con queste scuole di musica legato al progetto Erasmus e alla Comunità Europea. 

Artefice di questo grosso lavoro è Roberto Bonati, classe 1959, contrabbassista, compositore, una laurea in Lettere e una grande passione per la poesia. Il festival è una sua creatura che nel corso degli anni ha plasmato con sapienza e intelligenza. L’attività del ParmaJazz Frontiere, infatti, non si limita ai soli concerti – di artisti che hanno le capacità di essere innovativi – ma anche nella produzione discografica di concerti che lo stesso musicista crea ed esegue con la Parma Frontiera Orchestra, e nella formazione, tasto su cui il direttore artistico insiste da anni (vedi il progetto dello Workshop). Per il programma vi consiglio di andare sulla pagina dedicata dell’evento. 

Il 13 ottobre – segnatevelo in agenda! – in collaborazione con la Fondazione Teatro Regio di Parma,  inserito anche nel cartellone del Festival Verdi, la ParmaFrontiere Orchestra suonerà al Teatro Farnese un importante omaggio di Roberto Bonati al teatro di Shakespeare e al personaggio di Lady Macbeth: The Blanket of the Dark, a Study for Lady Macbeth, opera del 2001 già presentata per il centenario Verdiano, completamente riorchestrata per la serata.

Com’è nato ParmaJazz Frontiere?
«Negli anni Novanta andavo molto all’estero, dove suonavo in molti festival insieme a Trovesi, Gaslini, o con gruppi miei. Erano tutte manifestazioni piuttosto giovani, soprattutto in Francia e in Germania, con programmazioni di grande qualità che proponevano musica interessante. Così ho pensato di crearne uno anche qui a Parma. In quegli anni abitavo a Milano, ma avevo comunque relazioni con la città: ci sono nato e allora insegnavo al conservatorio. Sono partito con quest’avventura che è continuata e s’è evoluta negli anni, riscuotendo interesse e successo. L’ho fatto convinto fosse necessario divulgare un pezzo di attività artistica che non era ancora abbastanza considerata e che mi sembrava giusto promuovere con un certo taglio. Vale a dire, non presentare le star in quanto tali ma il lavoro di ricerca, di produzione e di dialogo tra i vari linguaggi artistici. Nel tempo ci siamo focalizzati soprattutto sulla produzione, la formazione, con l’intervento di giovani musicisti e i rapporti con le scuole internazionali, ospitando anche artisti consolidati».

Ogni edizione ha un tema. Quella di quest’anno è Scosse, Gesti, Oscillazioni. Si riferisce alla musica, alla società, a entrambi?
«Un po’ a tutto, principalmente a quello che è il percorso naturale di ogni artista, che si muove lungo scosse interiori, oscillazioni (momenti di dubbio e chiarificazione) e termina nel gesto, dove si esprime quello che s’è maturato durante il “viaggio”. Il titolo fa parte di un titolo più grande, Movimenti, progetto triennale che si conclude quest’anno».

Dal festival nascono anche i lavori discografici. Penso a La fòla de l’Oca, album uscito nel gennaio dello scorso anno…
«Sì, li pubblico di norma dopo un anno o due. Proprio l’altro ieri è uscito il disco, registrato due anni fa, dedicato alle barricate antifasciste del 1922 a Parma, Si erano vestiti dalla Festa, titolo tratto dalla poesia di Attilio Bertolucci dedicata proprio a quei movimenti. Con la ParmaFrontiere Orchestra abbiamo ripreso le registrazioni che avevamo interrotto da diversi anni per mancanza di fondi: abbiamo in programma lo Stabat Mater che deve ancora uscire, pubblicato La Fòla de l’Oca, progetto nato per Parma Capitale della Cultura 20-21, lavoro incentrato sul Tempo, visto che il grande titolo di Parma capitale era La Cultura batte il Tempo, dove ho musicato testi di Withman, Marco Aurelio, Sant’Agostino, e l’anno scorso basandomi sul progetto “ambientale”, Il principio è l’Acqua un modo per far riflettere sulla mancanza d’acqua potabile di un’enorme fetta di popolazione mondiale».

Da dove attingi per il tuo lavoro compositivo?
«Sono un appassionato di letteratura e di poesia. Mi sono laureato in Lettere tanti anni fa, anche se poi le mie strade sono andate verso la musica. In quelle arti c’è qualcosa che mi intriga, cerco di tradurle in musica, lavorando su un’idea o una struttura poetica. Amo la voce femminile, per questo sono sempre alla ricerca di testi da utilizzare per avere la presenza costante del canto… E poi, sicuramente, c’è anche l’aspetto sociale, molto importante, per me terreno fertile».

Che cosa significa oggi fare jazz?
«Non entriamo nella fòla de l’Oca di cosa è o non è jazz! Credo che jazz sia una mentalità, un tipo di approccio alla scrittura e all’esecuzione musicale. Ma credo anche che oggi ci siano musicisti che hanno attraversato il mondo del jazz più tradizionale aprendo strade verso altri orizzonti che vengono dalla musica contemporanea e popolare. Il jazz vive in una specie di purgatorio tra la musica popolare e quella che viene in modo non troppo simpatico definita “musica colta”. Il jazz si muove lì in mezzo, andando a toccare elementi propri della musica popolare e infilandosi nella complessità di altre musiche. Ritengo che il vecchio pensiero di “musica totale” teorizzato da Gaslini sia corretto. Ed è ciò che più mi interessa: cerco di mettere nel cartellone del festival produzioni che siano per me interessanti dal punto di vista dell’ascolto, siano momenti di ricerca, di perlustrazione di zone e linguaggi, tenendo sempre presente la comunicazione con il pubblico, importantissima. Pur intraprendendo un viaggio in quella che è la complessità del linguaggio contemporaneo».

Il fatto che ci sia un pubblico numeroso che partecipa a festival di questo tipo fa ben pensare…
«La maggioranza del nostro pubblico è tra i 30 e i 50 anni. In quest’edizione, però, stiamo notando un bel cambiamento: i primi due concerti – 28 e 29 settembre che sono andati sold out – hanno avuto una grossa partecipazione di giovani, tra questi molti studenti del conservatorio che di solito non frequentano i concerti.  Ho visto tanto entusiasmo. Negli ultimi anni, soprattutto dopo il Covid, c’è stato un interesse sempre crescente verso il Festival. Sono molto contento, perché ciò che si propone non è la sperimentazione fine a se stessa ma un modo con cui l’artista si mette in gioco con i linguaggi dell’oggi. Se questa strada viene percorsa in modo sincero, il pubblico la recepisce eccome! Non è una questione di pensiero, piuttosto di poesia che passa dal musicista all’ascoltatore, anche sei tratta di una musica complessa».

Perché hai scelto come tuo strumento il contrabbasso?
«Prima suonavo il pianoforte, la chitarra e altri strumenti. La svolta verso il contrabbasso la devo a un mio amico, Oscar Abelli, un ottimo batterista: nella sua vecchia 500 azzurra degli anni ’70 eravamo soliti ascoltare musica con un mangiacassette portatile. Una volta inserì un disco di John Coltrane. Il pezzo era India, dove ci sono due contrabbassisti che suonano insieme. Quando li ho ascoltati, in quell’esatto momento ho deciso che avrei suonato il contrabbasso. Dopodiché, abitavo a Milano, e attraverso un amico ho incontrato un ragazza tedesca che possedeva un contrabbasso ma era rotto, la tavola era tutta crepata, per cui lo potevo tenere in tensione solo con le corde giusto per il tempo in cui lo suonavo. È stato decisamente un inizio avventuroso!».

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