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Petra Magoni canta Brecht per non dimenticare

Stasera a Padova nella Sala dei Giganti di Palazzo Liviano in piazza Capitaniato Petra Magoni e Andrea Dindo presentano Petra canta Brecht – Omaggio a Milva. Un progetto non facile «ma quanto mai necessario», mi racconta Petra. Dedicato a Milva, con l’intento di ripercorrere quel grande lavoro che l’artista di Goro fece nel 1971 con il suo primo disco Milva canta Brecht e quindi nel 1996 con la pièce teatrale diretta da Giorgio Strehler diventata un disco, Milva Canta Un Nuovo Brecht. 

Ma è anche un grido di allerta da parte di Petra e di Andrea. Ce lo siamo detti tante volte: gli artisti hanno una via preferenziale nell’intuire le magagne del mondo. E Petra questa sensibilità la possiede marcata. «Cultura e intrattenimento sono due cose diverse. Adesso c’è bisogno di prendere più coscienza di ciò che sta accadendo intorno a noi», dice convinta del suo ruolo. Me lo ha ripetuto anche Simona Molinari nel post che ho pubblicato qualche giorno fa.

Il modo per farlo è semplice ma potente. Una voce e un pianoforte. Entrambi alla pari sul palco, in un dialogo che contagia e fa pensare, che coinvolge e lascia graffi nell’anima. A ben guardare, chi segue la Magoni sa che assistere a un suo concerto non fa rimanere indifferenti. Non puoi gridare solo Brava! e cavartela con un applauso. Petra è scomoda, ti sbatte in faccia con quella voce raffinata e graffiante le cose più terribili, ti fa rivivere storie tragiche sempre con un fine: stiamo attenti, non tutto è come sembra, i tempi richiedono attenzione per non ripetere gli errori della storia.

C’è una canzone di Roberto Vecchioni che mi ha lasciato il segno fin da adolescente, è Figlia, del 1976 dall’album Elisir. In un passaggio il cantautore milanese canta: E figlia, figlia/ Non voglio che tu sia felice/ Ma sempre contro/ Finché ti lasciano la voce/ Vorranno la foto col sorriso deficiente/ Diranno: “Non ti agitare, che non serve a niente”/ E invece tu grida forte/ La vita contro la morte. Ecco, per me la Magoni è racchiusa in queste strofe.

Petra, perché hai tirato fuori dal cassetto della Storia Milva che canta Brecht, è un omaggio o un avviso ai naviganti?
«Io e Andrea Dindo portavamo già in giro un recital di canzoni che comprendevano Kurt Weill, e quindi spesso anche Brecht, Gershwin e Cole Porter. Weill aveva passato varie fasi della sua vita artistica e privata dalla Germania a Parigi, da Londra a New York, componendo veri e propri standard. Poi in realtà, vedendo l’attualità di quello che Brecht aveva scritto, vista da un’altra prospettiva, ci ha portato a concentrarci più su di lui, che così spesso aveva collaborato con Weill. È un lavoro difficile, Milva è considerata un mostro sacro, è forse l’unica cantante in questo Paese che ha affrontato questo tipo di repertorio. Al di là dell’imparare a memoria le canzoni, quello che ci interessava di questo progetto era dargli una autorità, una contemporaneità».

Quella di Padova del 2 ottobre è una prima?
«Sì, anche se è ancora un lavoro in divenire. Sto provando a cantare e suonare al pianoforte alcune canzoni, la Ninna Nanna e l’Epitaffio, poesia che Brecht scrisse per la morte di Rosa Luxemburg. C’è su Internet un’intervista di Gianni Minà a Milva dove lei lo esegue. Bellissimo! È il finale perfetto per questo spettacolo, visto che il canto finisce con la parola “pace” sussurrata più volte. Non so se ci riuscirò per il 2, sicuramente nelle altre date, a Roma e a Pescara…».

Non è un concerto facile da portare in giro.
«È un lavoro complesso perché dietro c’è un significato politico. Purtroppo stiamo vivendo dei tempi molto simili a quelli vissuti dal drammaturgo tedesco, certi testi delle canzoni di Brecht sembrano scritti oggi: parlano di omicidi, prostituzione, nazismo. Addirittura è citato due volte Hitler chiamato l’Imbianchino…».

C’è una canzone che ti ha colpito particolarmente?
«Sì, La Ballata di chi vuole stare bene al mondo, dove il protagonista si adegua: ci siamo detti per molto tempo come sia potuto accadere che i tedeschi si siano abituati alle cose terribili perpetrate dai nazisti. Oggi ce ne sono molte altre, eppure non molti vedono questi episodi nell’ottica giusta. In questo pezzo, ce l’ho in testa, si dice: Intanto avanza l’Imbianchino e io vorrei gridare «Attenti!». E invece mai lascio che altro mi esca dalla bocca che quel che gridan tutti, e grido Heil!. In quel momento farò anche il gesto con il braccio e la mano tesa. Non è una provocazione: bisogna ricordare, mostrare certe analogie che alcune persone come me, come Andrea e come molte altre vedono… È un omaggio a Milva, certo, non è facile quando hai davanti un personaggio come lei, ma è soprattutto un messaggio che stiamo mandando».

Ne parlavo con Simona Molinari. Mi diceva che la musica oggi deve far riflettere più che mai.
«Ho visto la prima del suo spettacolo con Cosimo Damato. Con lui tra l’altro ho in programma uno spettacolo che ha già scritto. Intanto mi dedico a questo, poi il 12 sarò in Svizzera con musicisti italiani e francesi: proporremo un’altra storia legata alla Seconda guerra mondiale. Se vuoi te la racconto…».

Petra Magoni e Andrea Dindo

Certo! Dimmi…
«Marsiglia era diventata il porto di approdo di tanti napoletani che volevano andare all’estero, soprattutto in Argentina. Molti di questi, però sono rimasti lì e hanno trovato nel quartiere di Saint-Jean la loro roccaforte. Se ne contavano circa ventimila. Famiglie numerose, facevano lavori poco remunerativi, erano pescatori, portatori, carbonieri. Il sindaco mise in questo quartiere anche tutte le prostitute della città per renderlo ancor più malfamato. A quell’epoca c’era il governo di Vichy. I francesi fanno presto a fare gli antifascisti, in realtà sono stati anche parecchio collaborazionisti. Ne ha scritto lo storico Michel Ficetola, figlio di una deportata di origine italiana (ha raccolto i documenti, scritto un libro, Quand Marseille était Napolitaine, e nel 2019 ha pure citato la Francia per crimini contro l’umanità. Macron s’è dovuto scusare). È una storia che non sa nessuno e che vogliamo raccontare perché non si ripeta più. All’alba la polizia francese ha bussato a tutte le porte del quartiere avvisando gli abitanti di scappare perché stavano arrivano di nazisti. Tutti se ne sono andati di corsa lasciando lì le loro povere cose. In realtà, il Governo di Vichy, complice dei  nazisti, aveva fatto evacuare  quel quartiere, ai loro occhi maledetto, per costruirne uno nuovo. Gli abitanti furono deportati nel campo del Frejus e in Germania, mentre le case furono razziate e poi fatte saltare in aria per liberarsi della “feccia” straniera. Abbiamo fatto un disco, La Petit Naples, dove io canto due canzoni, una, Guaglione, che faceva anche Dalila, e l’altra Argentina che cantava Gilda Mignonette, una napoletana che aveva avuto molto successo in Argentina e che morì sul transatlantico di ritorno alla sua adorata Napoli. Con me ci sono Lucariello, Akhenaton (un grande rapper marsigliese di origine italiana), Raiz, tutto è basato su fonti storiche. Il 12 ottobre lo presentiamo in Svizzera, siamo in sette sul palco. Non è solo spettacolo musicale, dietro vengono proiettate foto, documenti. Per me, all’età che ho la musica non può essere solo divertimento-intrattenimento ma qualcosa di più».

Non ti fermi mai!
«Ho anche un altro progetto con Finaz (Alessandro Finazzo, ndr) il chitarrista della Bandabardò, partito nel 2019. Con me suona la chitarra con tanta effettistica, a volte sembra un’orchestra! Siamo partiti dal musicare dei testi dei Futuristi e da lì abbiamo cominciato a scrivere pezzi nostri, molto particolari. Anche questo è un progetto che fa pensare. Con Daniele Di Bonaventura, Luca Bulgarelli e Francesco Bearzatti abbiamo un progetto insieme ancora molto sulla carta: vorremmo recuperare una cosa della tradizione italiana che viene un po’ bistrattata, non ti dico di più! Volevamo farlo ora, in ottobre, ma sono già piena di cose, vedi il progetto con Valentino Corvino degli Arché. Siamo amici da anni, lui suonava in orchestra a Pisa e io facevo la comparsa nelle opere liriche. Con Valentino ho due progetti,  uno fare con l’orchestra quel bellissimo disco di Elvis Costello, The Juliet Letters, ovviamente anche lì con parti raccontate, l’altro, che potrebbe vedermi con Morgan e gli Archè, sui canti rivoluzionari». 

Nei tuoi progetti scegli spesso uno strumento singolo con cui fondere la tua voce, penso al contrabbasso e al lungo sodalizio con Ferruccio Spinetti. Perché?
Ride: «La scelta del duo è anche economica! In realtà mi piace molto l’idea del dialogo. Non mi va di stare sul palco davanti e fare la cantante con il gruppo alle spalle. Poi, certo, sul progetto La Petit Naples siamo in sette sul palco. Con Cosimo Damato abbiamo in mente uno spettacolo su Gardel e Piazzolla. Poi ne ho un altro con gli Archè che deve nascere… Il duo comunque mi piace molto perché sono accanto all’altro musicista. Per quanto riguarda il basso: ho imparato a cantare in un coro e imparato tutte le voci, mi sono creata un’armonia e per me la parte fondamentale è il basso. Anche quando suono con Fresu (nel fortunato progetto su David Bowie, ndr) nel mio monitor mi faccio mettere soltanto il basso e la voce».

Cantare con solo il contrabbasso non è difficile?
«No, anzi! È la base di tutto, il basso ti dà il ritmo e l’armonia, per me è la cosa più facile del mondo. Tanti anni fa suonavo il basso punk in un gruppetto… voglio riprenderlo in mano. Anche quando ascolto un pezzo qualsiasi, quello che seguo della musica è la linea di basso».

Questi progetti partono tutti da te?
«Nasce tutto sempre dal rapporto umano che ho con le persone. Per esempio, Roberta Roman (chitarrista italiana che vive a Parigi, ndr) che ha avuto l’idea incontrando lo storico Ficetola, la conosco da tanti anni, è una persona splendida e quando mi ha chiesto di partecipare al progetto le ho detto subito di sì. Lo stesso con Finaz, ci conosciamo da prima ancora che entrasse nella Bandabardò, con Valentino da quando avevamo vent’anni. Con Ferruccio Spinetti (Musica Nuda, ndr) ho lavorato per vent’anni. Ora siamo in pausa per ritrovare nuova linfa, non ripeterci». 

Canti molto in italiano…
«L’ho rivalutato. Come tutti, mia figlia Frida compresa, sei un po’ anglofona. A Frida lo dico sempre: cantare in italiano è molto più difficile che farlo in inglese perché l’inglese è tutto più strascicato, una “a” non è sempre una “a” ma può essere una “e”, puoi giocarti le vocali in maniera molto diversa dalla lingua italiana… Perché l’opera è di solito in italiano? Perché ha un’apertura di vocali che è necessaria quando canti senza microfono».

Comunque tua figlia ha una voce stupenda!
«Eh…da qualcuno deve pur aver preso! (Ride). Lei ha un magnetismo incredibile, è un dono, non lo puoi imparare, lei ti cattura e ti porta nel suo mondo. È una ragazza molto matura da tutti i punti di vista. Ha scritto un libro che esce a giorni per Mondadori, di cui non so niente… Non so nemmeno se abbia parlato di me! Quello che dovrebbe fare, è concentrarsi su un disco di pezzi suoi, ne ha scritti molti negli ultimi due anni».

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