Il 17 maggio scorso, solo su supporto fisico (ad agosto seguirà quello digitale), è uscito un disco che vale la pena d’essere segnalato. Si intitola Melodic Monk e l’autore è l’armonicista Max De Aloe con il suo ormai storico quartetto, Roberto Olzer al pianoforte, Marco Mistrangelo al contrabbasso e Nicola Stranieri alla batteria. È un lavoro dedicato al Thelonious Monk compositore, dove troviamo brani famosissimi del pianista americano come ‘Round Midnight, Bemsha Swing, Ugly Beauty, Ask Me Now, Pannonica, reinterpretati in ambiente morbido e sofisticato, una chiave di lettura più struggente del lavoro diMonk, meraviglioso pianista irruento e percussivo.
Max è un musicista proficuo: al suo attivo ha più di 60 dischi (ha collaborato anche a Risvegli, il lavoro della pianista Eugenia Canale di cui vi ho parlato lo scorso anno), 18 di questi firmati come leader, ma è anche un artista che da sempre lavora con la cultura organizzando spettacoli in solo, creando colonne sonore per spettacoli teatrali e documentari, collaborazioni con poeti, scrittori e registi, direttore artistico di festival. A Gallarate, la città in cui vive, nel 1995 ha fondato una scuola di musica, il Centro Espressione Musicale, dove insegna tecnica d’improvvisazione jazz, fisarmonica e armonica cromatica. Ciliegina sulla torta, dal 2018 è anche il direttore della casa discografica Barnum For Art, etichetta che ha pubblicato quest’ultimo lavoro. Insomma, uno che non sta mai fermo!
Tutto questo fare, intraprendere ha un fine che possiamo riassumere in una sola parola: cultura. «Questo mondo ci dà un sacco di possibilità e noi ne sfruttiamo un millesimo», mi dice convinto.
Max, che bello! Hai presentato un Monk meno spigoloso, più morbido…
«Sì la volontà era quella di prendere queste composizioni, che sono meravigliose, e di suonarle com’è lo stile di un quartetto che ormai sta insieme da diciotto anni. Sai, Monk ha due anime, quella del musicista, grande pianista molto originale, e quella del compositore. Per cui le composizioni di Monk le puoi suonare anche prescindendo dallo “stile monkiano” del pianista. Fatto interessante, perché spesso si rischia di scimmiottare il Monk musicista».
Infatti Roberto Olzer suona un piano molto personale…
«Se esiste nel jazz italiano un pianista non monkiano, quello è proprio Olzer!».
Insomma, è un gioco riuscito bene…
«Le composizioni di Monk sono straordinarie, si prestano a essere suonate in tanti modi diversi, per cui non abbiamo inventato nulla di strano! In ‘Round Midnight abbiamo tolto anche accordi, l’abbiamo reso un brano più aperto, più contemporaneo da un certo punto di vista».
In Bemsha Swing, al posto del sax di Sonny Rollins c’è la tua armonica…
«Addirittura sotto ci ho messo un ritmo reggae, lo fa la batteria. Ci siamo divertiti! Il divertimento è un elemento focale per chi fa musica, indispensabile, altrimenti si iper-concettualizza tutto, troppo, e si rischia di dimenticare lo scopo del nostro lavoro, che è quello di stare insieme e suonare».
D’altronde lo spirito del jazz è proprio questo…
«Certo, anche se mi piace tutto l’aspetto culturale che c’è dietro, l’andare in profondità sulle cose. Ma alcune volte ci mettiamo un po’ troppi steccati davanti. Alla fine la musica è musica, è lì, la ascolti e ti deve arrivare qualcosa».
Suoni la fisarmonica e l’armonica a bocca…
«Soprattutto l’armonica cromatica, è il mio strumento».
Da profano, fare jazz con l’armonica non è affatto semplice!
«Ogni strumento ha le sue difficoltà. Di strumenti facili non ce ne sono, se vuoi far bene le cose. L’armonica cromatica non è certamente nata per fare grandi virtuosismi, per la velocità nell’esecuzione. Però, poi, in passato c’è stato qualcuno, vedi Toots Thielemans, che ha dimostrato di poterla suonare così, e noi come allocchi ci siamo cascati, ci abbiamo provato e lo facciamo da tanti anni! Se la studi e ci lavori molto è uno strumento che ha grande possibilità, l’armonica cromatica ha quattro ottave di estensione, che è tantissimo. Può suonare tutte le note e, come tale, gliele puoi tirare fuori…».
Detta così è una passeggiata!
«Per suonarla a livello professionale, come per tutto, devi dedicarle la vita».
Stevie Wonder è un grande armonicista!
«Uno dei più grandi, con uno stile ben preciso. In molte sue interviste, essendo lui polistrumentista, alla domanda rivoltagli spesso e cioè quale fosse il suo strumento preferito, ha sempre risposto l’armonica cromatica. Nel ’68 sotto altro nome (Eivets Rednow, il suo nome e cognome pronunciato all’incontrario, ndr), ha fatto un disco interamente suonato con l’armonica cromatica».
Sei un veterano sia delle registrazioni di dischi sia sui palchi: come vedi cambiato il mondo del jazz sia dal lato armonica cromatica sia da quello generale?
«L’armonica cromatica è abbastanza indifferente al mondo del jazz italiano. Non c’è un maggiore interesse per questo strumento, anzi, in alcuni casi, ci sono ancora preconcetti da parte di organizzatori di festival e di musicisti stessi, siamo un paese sempre più omologato e omologante. Si va sul sicuro, su gruppi sicuri, su nomi sicuri. Il qualcosa che è diverso – e non è detto che debba per forza essere originale – solletica meno, si teme che il pubblico non arrivi. Purtroppo, è lo specchio di un periodo di decadenza culturale generale».
Hai ragioni da vendere! Ed è così anche per le altre arti…
«All’ultimo Salone del libro di Torino mi elencavano i numeri di vendita dei dieci finalisti del premio Strega: a fronte di tutto l’investimento pubblicitario, la vendita reale dei libri è imbarazzante. D’altronde, il nostro non è un Paese dove la cultura abbia mai brillato, ma continua ad avere un ruolo sempre più marginale. P<er rispondere alla tua domanda precedente, per quanto riguarda lo scenario del jazz c’è un’omologazione di base: ci sono solo alcuni nomi che hanno sempre una grande visibilità e vedi tantissimi musicisti stranieri nelle programmazioni dei festival perché, a fronte di celebrare il jazz italiano a parole, fondamentalmente in questo periodo non c’è così tanto interesse nei confronti di chi, italiano, lavora su questa musica. Detto ciò, esistono degli ottimi musicisti che continuano a sopravvivere, hanno belle idee… se ti impegni tutti i giorni i risultati si vedono. Eugenia Canale è una di questi. Giovane, con una grande determinazione, oltre a suonare molto bene, scrive bella musica. È una persona che sa stare in mezzo agli altri con grande disponibilità e un immenso amore per la musica. Sta iniziando ad avere il successo che si merita, e sono convinto che potrebbe averne molto di più».
Cosa significa fare cultura?
«Per me è un progetto unico, una cosa che va a 360 gradi nella mia vita. Innanzitutto insegnare, ho una scuola di musica che nel 2025 compie 30 anni di attività, da tanti anni mi occupo di direzioni artistiche, in questo caso far cultura è scegliere i musicisti, pensare a che tipo di gruppo portare sul palco a seconda del progetto del festival, quindi scrivere la mia musica, portarla sul palco. È una scelta di vita, che ricade anche su quello che scelgo di fare nei libri che leggo, nella musica che ascolto. Non è, dunque, solo una questione di suonare quel brano piuttosto di un altro».
Della musica attuale che cosa ascolti?
«Ascolto tanto i musicisti considerati minori che non entrano nel panorama della musica mainstream. Non seguo la musica commerciale, non perché non sia musica, ma perché sono faccende diverse».
Intrattenimento forse?
«Mah, anche noi del jazz a volte facciamo intrattenimento! Dobbiamo stare attenti perché non è che poi basta suonare una cosa un po’ diversa e dire che è jazz che automaticamente diventiamo cultura. Questo è un vezzo che ci cuciamo noi addosso, ed è sbagliato. Ci sono una marea di progetti musicali, anche di musicisti molto famosi, che sono puro intrattenimento, cose commerciali. In questo momento stiamo navigando con omaggi a De Andrè, Dalla e Battisti che risultano piuttosto imbarazzanti. Non è che perché sei jazzista e fai un omaggio a Battisti automaticamente fai cultura e invece un brano di Mahmood è sempre e comunque intrattenimento! Tornando alla musica che ascolto: pochissime cose “contemporanee”, ogni tanto vedo il festival di Sanremo perché mi diverto molto con i miei figli, come mi divertivo con mio padre, davamo i voti ai cantanti… Alla fine è qualche cosa di piacevole, che ha il senso di esistere. A fronte di questo, la musica che rende spensierati toglie visibilità ad altra musica molto bella e raffinata. Mille risorse per la prima e zerovirgolauno per l’altra. Un’amara constatazione. Sono discorsi che ci facciamo da anni tanto da risultare pallosi. Quello che mi manca di più – e ne sento la necessità – è la curiosità, che viene molto prima della cultura e della passione. Nella curiosità uno fruga e poi possono nascere passioni e, da queste, processi culturali. Il fatto di avere più accesso oggi con un semplice click non sta sviluppando la curiosità, ed è una cosa su cui interrogarsi».
Su Spotify vengono immesse centomila canzoni al giorno e poi per colpa degli algoritmi finisci per rinchiuderti nella tua gabbietta di ascolti.
«Oppure ti danno quello che vogliono farti sentire. La radio libera s’è trasformata in radio commerciale. I brani sono solo frutto di contratti, accordi, soldi».
Sei direttore di festival, com’è organizzarli con quest’ottica?
«Ho sempre trovato una libertà di scelta e, laddove questa non c’era, me ne sono andato. Porto avanti un certo progetto comune che anche all’interno del mondo del jazz cerca di evitare certi nomi e cose sicure. Mi piace presentare nomi nuovi e cose non stereotipate. Devo dire che mediamente mi sono sempre confrontato con chi mi ha fatto operare questa tipologia di scelte. Alcune volte ne ho pagato la conseguenza, nel fatto di non avere un certo ritorno di pubblico, però secondo me se sei un operatore culturale questa problematica te la devi porre, devi avere un po’ di onestà intellettuale, evitare di fare cose sempre uguali, cercare di osare. Oggi ci sono festival organizzati con due colpi di click, dati in mano ad agenzie che ti fanno i soliti nomi e ti presentano i soliti progetti. La conseguenza? Festival tutti uguali. Dall’altra parte c’è il problema di accedere alle risorse, oggi sono tutti bandi e questi hanno logiche sconosciute, esistono alcuni paletti che devi cercare di rispettare e per farli devi imparare il burocratese. Nel festival di cui mi occupo adesso, MutaMenti, realizzato nei castelli della provincia di Massa Carrara ho chi si occupa di tutte queste cose che è l’Istituto Valorizzazione Castelli! Montagne di burocrazia e finisce che nessuno ascolta nemmeno una nota di quello che sta organizzando. Lo stesso bando del FUS, il Fondo Unico dello Spettacolo che è il più importante e che mantiene in piedi larga parte della pseudo cultura italiana, è tutto un mondo di carta. O altre cose a cui non accediamo per questioni ideologiche, per esempio ai contributi dati dalla regione Puglia (Puglia Sound), perché sono destinati solo a musicisti pugliesi, per cui se tu chiami un musicista pugliese li hai, altrimenti no. È una cosa abominevole. Se decidiamo che il musicista è un lavoro non posso pensare che esistano dei lavoratori aiutati dalla Regione Puglia mentre quelli delle Marche no».
Beh la Puglia è cresciuta proprio per questo!
«Ma non posso pensare che per prendere i fondi devo avere un musicista pugliese mentre quello di Matera, che sta a pochi chilometri, non li ha. Come direttore artistico prendo i musicisti che mi piacciono e me li pago se ho i soldi per pagarli. Questo crea inevitabilmente un disallineamento tra lavoratori della musica. Ti faccio un esempio: Tiziano Bianchi. È un trombettista, ha fatto un disco con Bill Frisell e non se lo fila nessuno nel mondo del jazz. È un nome che ho tirato fuori tra i nomi degli “sconosciuti”. C’è bisogno di avere festival forti e direttori artistici forti. Per 14 anni anni ho organizzato un festival a Gallarate ottenendo grandi soddisfazioni, perché il pubblico si fidava e la gente che veniva mi premiava. Dobbiamo tornare a un’idea di contenuti. Ti racconto questo aneddoto successo alcuni anni fa al festival jazz di Gallarate: facevamo per le scuole un concerto anche alla mattina. Avevamo invitato un gruppo svizzero che aveva musicato Nanuk l’Eschimese, il primo documentario della storia firmato da Robert Flaherty nel 1922. La sera lo avevamo riproposto e ci siamo accorti che tra il pubblico c’erano una trentina di ragazzi, tra questi alcuni presenti la mattina. Mi dissero: “Era talmente bello che, invece di andare al bar a bere una birra, abbiamo invitato i nostri amici ad ascoltarlo”. Significa che abbiamo colpito nel segno».