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Ensemble Sangineto, l’altro volto della musica popolare

Unire i punti di contatto nella World Music è importante. E quando la musica popolare sconfina nella World Music può nascere qualcosa di nuovo pur ricondotto al passato, alle nostre radici culturali. 

Un lavoro esegetico importante che ritrovo in un disco uscito giusto un anno fa in supporto digitale e nell’ottobre scorso sugli scaffali fisici. Il titolo riassume il grande e attento lavoro che ci sta dietro: Grand Tour Vol. I. È firmato dall’Ensemble Sangineto, al secolo i fratelli Caterina e Adriano Sangineto e Jacopo Ventura. Tre musicisti che vengono dalla musica popolare e da mille altre strade coltivate per lavoro e passione. Il loro Grand Tour, concepito come “l’anno sabbatico” dei giovani europei nel Sei/Settecento, che arrivavano in Italia per studiare la cultura e la storia del nostro Paese, è un appassionante viaggio in dieci canzoni nella tradizione popolare italiana. Un lavoro per nulla scontato, che solo grandi esperti e bravi musicisti possono permettersi di fare. 

Caterina e Adriano sono i figli di Michele Sangineto, calabrese trapiantato in Brianza da una vita. Michele è un musicista, un filologo, un insegnante della cultura popolare ma anche un liutaio di raffinata bravura, tanto che molti musicisti – vedi, per esempio il bretone Alan Stevell – vogliono usare solo le arpe costruite da lui. Specializzato nell’arpa celtica e poi appassionatosi nella ricostruzione di strumenti “perduti” d’epoca rinascimentale, ha creato nel suo atelier una famiglia allargata di musicisti, diventando un punto di riferimento internazionale.

Proprio da questo fertile humus nasce l’Ensamble Sangineto. Il loro lavoro, portato in tutto il mondo, dall’Australia agli Stati Uniti, Europa inclusa, sta riscuotendo un ottimo successo di pubblico e di critica. I loro spettacoli sono scenografici, con le tante arpe dispiegate sul palco, il salterio ad arco, le chitarre, il charango, i flauti, e poi le loro voci che compongono cori polifonici di grande espressività. 

Ritorno ai punti di contatto. Ascoltando Grand Tour viene naturale trovare marcatori di collegamento con altre culture, non necessariamente italiane. La musica non ha confini, ce lo siamo detti tante volte in questo blog, non ha bisogno né di visti né di passaporti. Con questa idea Caterina, Adriano e Jacopo si muovono nella loro ricerca sonora, infaticabili viandanti di note. 

Ci siamo incontrati e ne è uscita un’intervista “polifonica” a mio parere molto interessante. Ve la propongo.

Caterina, Adriano, Jacopo, ma in quanti gruppi suonate?
Jacopo: «Troppi! Noi tre lavoriamo con tre nomi differenti a seconda del repertorio. Ensamble Sangineto si occupa di Worldmusic, LyraDanz di composizione sullo stile francese e Antica Liuteria di musica antica rinascimentale, eredità di Michele Sangineto».

All’estero siete mainstream, avete fatto tournée seguitissime in Nuova Zelanda, Stati Uniti, Europa, come vi spiegate tanta popolarità?
Jacopo: «Dipende da cosa si intende per mainstream: se lo intendiamo come musica di largo ascolto non lo siamo affatto. Siamo un gruppo che gira molto nelle nicchie di chi apprezza questa musica, anche se negli anni andiamo bene nei circuiti esterni al Folk-World Music, nostro riferimento».
Adriano: «Quello che apprezzano in Nuova Zelanda e Stati Uniti è la varietà del repertorio. Per quei tour abbiamo preparato una scaletta dedicata alla musica popolare italiana, non specifica di un determinato territorio, e visto che mediamente è un pubblico che non parla la nostra lingua e non può comprendere totalmente il senso, nonostante noi spieghiamo prima di cosa parli la canzone, apprezzano il tipo di arrangiamenti che facciamo, le tre voci insieme, gli strumenti. Negli States abbiamo ricevuto complimenti come musicisti, ci hanno detto che siamo dei virtuosi nei nostri strumenti».
Jacopo: «Facciamo uno spettacolo gioioso, ed è apprezzato. Sul palco scherziamo tra noi, parliamo, non stiamo seduti rigidi sulle nostre sedie suonando e basta».
Caterina: «Forse il sembrare più “mainstream” è dovuto al fatto che non siamo dei puristi del nostro genere. Abbiamo lavorato tanto nella classica, dove ci si esibisce tutti eleganti, non si dice una parola di troppo, il pubblico non può tossire! Inseriamo elementi pop, jazz, “rubiamo” dal musical come stile, lo facciamo tranquillamente».
Jacopo: «Come singoli abbiamo fatto cose più mainstream, folk rock, musica elettronica come Caterina, Adriano ha una collaborazione con Antonella Ruggiero. Tutto questo ci aiuta a portare sperimentazioni dentro il nostro ambiente».

Che genere di musica ascoltate?
Adriano: «In questo momento mi sono appassionato molto al rock progressive. Peter Gabriel con il suo I/O me lo sto ascoltando tutti i giorni e lo trovo fantastico!».
Caterina: «Per lavoro ascolto tanta musica antica, rinascimentale, barocca, per esempio musica per liuto e voce. Poi tanta musica irlandese, ho un gruppo side-project di musica irlandese, inoltre pop, dagli One Repubblic a David Guetta, alla musica elettronica. Non sono un’amante della trap, forse perché non la conosco».
Jacopo: «Ascolto tanta radio, ultimamente ho sentito due o tre pezzi trap niente male. Adoro la musica groovy. Da cose più datate come Stevie Wonder, al reggae, elettro swing, folk elettronico e, per passione mia, cantautori italiani o francesi e grossi rocker americani come Springsteen. E poi, tantissima patchanka, dai Manonegra in avanti, punk, sudamericano, ska…».

Come vi siete avvicinati alla musica?
Caterina e Adriano: «Nel laboratorio liutaio di nostro padre, una bottega piena di strumenti musicali, è stato inevitabile!»
Jacopo: «Ho fatto chitarra classica al conservatorio. Poi da ragazzo ho avuto il rigetto, mi sono avvicinato al folk generalista, grazie ai Modena City Ramble. Quindi alle canzoni popolari piemontesi, andando a suonare nelle osterie. Da lì è diventato il mio lavoro».

Come vi siete incontrati?
Caterina: «Adriano conosceva Jacopo che suonava principalmente nei Folkamiseria, il suo gruppo di riferimento. Noi invece ci esibivamo nell’ensemble di famiglia con nostro padre Michele e nostra madre Paola, quindi ci siamo assestati su un trio con un chitarrista che cantava similmente a Jacopo, per poi tornare in due. Con Jacopo ci incontravamo in tantissimi festival di musica celtica, tutti noi per anni abbiamo suonato musica irlandese (dopo il film Titanic, in Italia era scoppiata la mania di questa genere musicale). Ci piaceva un altro tipo di musica nato in Francia che cominciava a identificarsi, il Balfolk, che attirava molto pubblico. Così abbiamo iniziato con Jacopo il progetto LyraDanz, inglobandolo poi nell’ensemble».
Adriano: «E anche nell’Antica liuteria, dove ha imparato a suonare gli strumenti
rinascimentali».

Grand Tour vol. I lo avete pubblicato giusto un anno fa in digitale, il disco fisico invece lo avete messo in commercio da pochi mesi…
Adriano: «In realtà era pronto già allora. Con il fatto che avevamo già delle tournée programmate all’estero sarebbe uscito in un periodo non propizio per la sua promozione… così abbiamo fatto sì che il disco fisico fosse presentato ufficialmente a settembre».

È bello il senso del Grand Tour alla Goethe. Nei vostri concerti avete rilevato una differenza tra il pubblico italiano e quello anglosassone?
(Ridono tutti e tre, ndr). Adriano: «L’abbiamo notata eccome!»
Jacopo: «Soprattutto quando fai un repertorio italiano tradizionale, se sei in Italia sei considerato alla stregua del folklore, potremmo metterci i costumi da sardi e andare sul palco a ballare e la gente apprezzerebbe di più! Poi vai all’estero e il pubblico rimane incantato. Cantare in dialetto in Italia ti fa sembrare un vecchio che non capisce dove va la musica!».
Caterina: «Aggiungo: quando sei all’estero e sei ospite dell’Istituto di Cultura italiano del luogo, loro si aspettano che tu fai ‘O sole mio…».
Jacopo: «Sono gli italiani oriundi, ancora legati a certi standard, vogliono che tu suoni quei pezzi».
Caterina: «Il circuito che in Italia potrebbe apprezzare quello che stiamo facendo è quello classico. In Salento, per esempio, c’è un insegnate di canto lirico interessato alle polifonie vocali che facciamo, che in effetti ricordano il mondo della classica…».
Adriano: «Quando andiamo all’estero abbiamo l’opportunità di stare nei teatri, nelle chiese, la nostra musica viene collocata lì. La stessa musica, per esempio una tarantella, anche se arrangiata in maniera cesellata, nasce all’interno di feste popolari, da ballo. Quindi la ricezione in Italia sarebbe diversa, come gli ambienti. La tarantella non avrebbe la sua funzione di essere ascoltata ma vissuta con la danza».
Jacopo: «Aggiungo che durante il boom economico degli anni Sessanta e Settanta nel nostro Paese c’è stato un taglio netto con quella che era la musica popolare, da lì in poi è stata considerata una cosa da vecchi. Un taglio netto. Solo da vent’anni si sta ricominciando a coltivare, però, per citare la Lombardia, la musica popolare è stata cancellata, rasa al suolo».

Ci sara un Grand Tour Vol II?
Adriano: «Sì, ora che siamo più tranquilli riprenderemo in mano il lavoro. Che è molto lungo perché si tratta di scegliere i pezzi, capire quali possono essere arrangiati secondo la nostra chiave di lettura, creare poi l’arrangiamento e farlo nostro. Il precedente disco ha visto sei, sette mesi di lavoro. Ci siamo prefissati di pubblicarlo nel  2025, anche in previsione di altre tournée in Australia e Nuova Zelanda a gennaio e febbraio dell’anno prossimo».

Come scegliete i brani?
Adriano: «Avevamo deciso di eseguire una canzone per ogni regione italiana. Ci era stato espressamente chiesto dagli organizzatori dei concerti in Nuova Zelanda. Da lì è nata la scelta – allora, eravamo in momenti di pandemia –  di fare qualcosa di virtuale da Nord a Sud riunendo tutti gli artisti. Poi ci siamo detti: “Rappresentiamo l’Italia in tutta la sua arte, raccontiamo tutti i risvolti storici e sociali di ogni regione che ha vissuto realtà diverse, dialetti, musica, cultura”. Quindi abbiamo deciso di creare, mantenendo le nostre sonorità, una situazione musicale a sé stante per ognuno di questi canti che avesse un legame con il territorio. In Lombardia abbiamo scelto Dove te vet, o Mariettina, creando una pennata irlandese con la chitarra, in Lanterna de Zena, brano della cultura genovese, siamo andati nella direzione di un arrangiamento che ricalcava Crêuza de mä, di De Andrè. Ci piaceva l’idea di valorizzare i singoli timbri degli strumenti e, con piccoli motivi melodici e ritmici, anche la melodia, che di fatto è estremamente semplice».
Caterina: «Per la Toscana con Violina abbiamo deciso per uno stile bretone perché il tipo di melodia lo richiamava. Anche Mariettina aveva assonanze con qualche melodia irlandese che si sviluppa verso l’alto. O Mare Maje con un accompagnamento stile bossanova: quando la ascolto mi viene in mente il fado portoghese. C’è una connessione melodica di idee e di ritmi tra le culture musicali».

Unire dei punti geografici…
Caterina: «Sì. Quando siamo stati a suonare a Parigi a metà dicembre sono stata intervistata da un francese, direttore di un’associazione europeista, che ci ha detto: “Voi con la vostra musica rappresentate l’Europa”. Non siamo puristi, altrimenti avremmo cantato, che ne so, solo musica Lombarda. Invece ci piace l’idea che non esiste un confine tra Italia e Francia o tra noi e l’Irlanda, non c’è mai stata».

Vostro padre Michele è calabrese. Quanto ha portato della cultura del suo paese a Monza?
Caterina: «In realtà lui si è amalgamato perfettamente in Brianza. Ha addirittura perso l’accento calabrese. Ha portato l’amore per la natura e per il legno e qui in Brianza c’era il posto dove poteva attecchire questa passione. La Brianza è considerata la patria del design del legno anche se applicato ai mobili. Lui non ha rinnegato se stesso ma gli è sempre piaciuto stare qui, dove ha fatto la sua vita».
Adriano: «Si è distinto per la sua creatività, la sua verve nel voler creare qualcosa in via pragmatica che poi è diventata una collocazione di riferimento».

Ha creato un marchio nella storia della musica popolare…
Caterina: Eh sì, in casa venivano Alan Stivell, Carlos Núñez, era una grande famiglia. Proprio Carlos ha creato una rottura nella musica dal vivo: se guardi i Chieftains sul palco e lui non c’è paragone. È importante il contenuto ma anche come ti poni davanti al pubblico, con il movimento, il dinamismo. Osserviamo molto chi è venuto prima di noi: come ci si comporta sul palco secondo me è il 50 percento dello show!».

Farete concerti in Italia in questi primi mesi dell’anno?
Adriano: «In aprile dovremmo averne uno nei dintorni di Milano per una festa mediterranea, quindi saremo in Salento a Copertino o Nardò. A maggio andremo in Scozia, a ottobre due date in Francia  mentre a dicembre di nuovo in tour negli Stati Uniti…».

Come siete visti dai vostri colleghi che suonano folk? Penso ai puristi come trattarono il Dylan elettrico.
Adriano: «Ci sono arrivate alcune critiche, poche a dire il vero rispetto a quello che mi aspettavo».
Caterina: «Se vogliamo che le nuove generazioni conoscano la musica popolare dobbiamo evolvere, proporre qualcosa di fresco…».
Jacopo: «Anche perché, come dicevo prima, con la cancellazione della musica popolare negli anni Sessanta e Settanta e non essendoci nulla di scritto, non esiste una musica codificata, quindi ogni musicista la interpreta in base alla propria conoscenza».

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