Musicabile

Michele Macchiagodena, Termoli Jazz e le derapate

Michele Macchiagodena – Foto Paolo Lafratta

In quest’estate strana e bollente, mentre i giornali sono impegnati nel narrare la sostanziosa “political crime” accaduta proprio nel Quintilis Iulius romano, mese dedicato a Giulio Cesare, con tanti possibili colpevoli e colpi di scena “splatter” degni del miglior Joe R. Lansdale, su Musicabile vi sto raccontando alcuni dei numerosi festival musicali che la stagione estiva per fortuna mette a disposizione. Scelti perché a parlare è la musica prima degli artisti, e questo, ormai avete imparato a conoscermi, mi attira particolarmente.

Inizia oggi in Molise il Termoli Jazz, un gioiellino dove si esce dalla comfort zone e ci si spinge verso mondi di sperimentazione e di studio molto concreti. A parlare, anzi, suonare, sono soprattutto giovani musicisti, come per esempio Federico Calcagno, una vecchia conoscenza di Musicabile, il cui nome è apparso più volte nei miei post, legato a una generazione di jazzisti musicalmente e culturalmente molto motivati, preparati, portatori sani di nuove emozioni (andate a riascoltarvi Archipélagos, progetto musicale creato da Francesca Remigi, di cui avevo scritto nel febbraio dello scorso anno). A Termoli si presenta con una formazione già rodata, The Dolphians, dove ripercorre l’avventura musicale di Eric Dolphy uno dei miti del jazz americano.

Festival così non nascono per caso, ci vuole una buona dose di conoscenza della materia, ma anche un’altrettanta – e forse ancor di più – sensibilità verso l’arte e la musica, che tradotto in pratica, significa passione, tanto ascolto e intraprendenza. Il factotum della manifestazione si chiama Michele Macchiagodena. Quando lo raggiungo al telefono è occupato a risolvere il problema del piano di sicurezza dell’area festival. «Michele sei un one man band», scherzo, sentendolo affannato. «Fai proprio tutto?». «Mi occupo della manifestazione dalla preparazione, alla scelta degli artisti, alle necessarie attività pratiche, come, appunto, la sicurezza» mi dice.

Raccontami del Festival: perché proprio a Termoli?
«È una cittadina di 35mila abitanti con un bel borgo antico. Piazza Duomo, dove si tengono i concerti, è un luogo magico, perfetto, la cattedrale di Santa Maria della Purificazione, del XIII secolo, è uno sfondo fantastico. Il festival è arrivato all’ottava edizione, ma la città fin dagli anni Novanta ha avuto numerosi “contatti” con la musica colta, ospitando numerosi concerti da Lee Konitz a Joe Zawinul, Joe Lovano, Charlie Haden… Allora era la stessa amministrazione comunale a organizzarli».

E poi…?
«Purtroppo queste manifestazioni sono condizionate dalla politica e dalle Amministrazioni comunali che vengono elette».

Termoli, Piazza Duomo – Foto Francesca D’Anversa

Quindi negli ultimi anni, sono salite amministrazioni più disposte alla cultura e s’è potuto lavorare meglio sulla diffusione della cultura e dell’arte…
«Sì, dal 2104 al 2018 sono stato delegato dall’allora giunta alla cultura, ed è lì che ho pensato di trasformare quegli eventi jazz in un festival compiuto».

Vedendo il programma è un festival che punta molto alle nuove forme del genere e anche alle inevitabili contaminazioni su cui il jazz vive…
«La direzione generale è quella di un jazz più tradizionale, però non ci facciamo mai mancare il nuovo. Nella scelta degli artisti mi affido molto alle mie orecchie, che non mi hanno mai tradito. Apriamo oggi con Federico Calcagno & The Dolphians per proseguire in altre “esplorazioni”, che mi piace chiamare “derapate”: con i Mack, Federico Squassabia (alle tastiere), Marco Frattini (alla batteria) e Mattia Matta Dallara (all’elettronica), con un programma che contiene oltre al jazz, altri generi, come funk, neo-soul, hip hop. E con i C’mon Tigre, interessante collettivo bolognese. Sono rimasto folgorato dalla loro proposta, hanno suoni molto mediterranei, nord africani, il loro progetto include anche il jazz filtrato con trip hop e funk. E poi, a rimetterci sulle strade del jazz ci pensano Antonio Faraò e il trio Luigi Di Nunzio, al sax alto, Giuseppe Bassi al contrabbasso e Marcello Nisi alla batteria».

Antonio Faraò – Foto Sylvie Da Costa

Oltre al jazz, hai una passione enorme per la pittura…
«Mia madre, Rita Racchi, era una pittrice e una scultrice, amava suonare e cantare; mio fratello Vanni è un bravo scultore e pittore. Vengo da una famiglia dove l’arte è sempre stata celebrata».

Con l’associazione Jack (Jazz, Arts & Comedy Kingdom) di cui sei fondatore avete dato vita anche a un museo di arte contemporanea…
«Dal 1955 Termoli celebra l’arte con un premio ad artisti contemporanei. All’inizio ha avuto dei grandi nomi che hanno collaborato, come Carlo Giulio Argan e Palma Bucarelli. Ogni artista lasciava un’opera alla città, così ci siamo trovati ad averne quasi 500, di artisti del calibro di Carla Accardi, Tano Festa, Franco Angeli, Gino Marotta, Mario Schifano… La logica politica anche in questo caso aveva preso il sopravvento e negli anni il premio s’era molto deteriorato, guardando non ai veri artisti ma a meri interessi anche familistici. Quindi s’è deciso di rifondarlo e dare una compiutezza a tutte quelle opere che erano dimenticate, creando il Mact (Museo di arte contemporanea di Termoli) nel 2019».

Sei un grande appassionato di Mark Rothko: qual è il legame tra musica e pittura?
«Sia il jazz sia l’arte contemporanea hanno una libertà di espressione che si espande fino alla massima astrazione. Però non te la inventi: massima libertà ma fondata su una solida tecnica, senza di questa non sarebbero nulla. Le tele di Rothko sono come una sola nota suonata dove dentro ci vedi e ascolti un’infinità di significati…».

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