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Lorenzo Pasini: Material Fields e Pinguini Tattici Nucleari

Lorenzo Pasini – Foto Mattia Laser

Dopo l’intenso lavoro di Raoul Moretti presentato settimana scorsa, inizio il mese di maggio con un altro disco e un altro artista. La base è sempre la stessa, la pandemia, il lockdown, il blocco forzato degli artisti, il riuscire a comunicare in musica sensazioni, paranoie, speranze, paure.

Quello di Lorenzo Pasini, 28 anni, chitarrista dei Pinguini Tattici Nucleari, al suo primo lavoro da solista, è un racconto in una lingua che l’artista adora da sempre e che parla perfettamente, il progressive rock. Contaminato da molti altri generi, a dimostrazione di quanto Pasini sia onnivoro e affamato di musica. Così è nato Materials Fields, in una pausa tra il successo e i concerti della indie-pop band bergamasca e l’improvviso silenzio causato dal Covid. Un bel colpo nello stomaco, ma anche l’occasione per fermarsi e pensare alla musica, al lavoro fatto e al futuro. 

Diversamente da Raoul, che ha tenuto un diario fedele di quei giorni, quella di Lorenzo è narrazione-reazione. Uno stato d’animo positivo dove alla paura contrappone l’amore, ai “low lights”, i punti d’ombra, una lucente dimensione spirituale. Un disco molto personale, come Le Intermittenze della Vita, ma a differenza del primo, la pandemia è l’occasione per cercare di lavorare su se stesso come essere umano e come musicista.

Il prog è una delle mie passioni da sempre. Ascoltando questo lavoro, si percepiscono nette le trame di Steven Wilson e dei Porcupine Tree, ma anche certe chitarre acide alla Robert Fripp dei King Crimson, con escursioni nell’industrial rock di Trent Reznor e dei suoi Nine Inch Nails, vedi per esempio Someone To Blame o Sane, oppure abili fraseggi metal, lievi accenni, altra passione di Lorenzo come in Dear Walls. Se ascoltate Low Lights, il brano che apre il disco, vi troverete in cuffia un classico del prog. Si inizia con una chitarra acustica per poi partire subito con un’elettrica che ricama una melodia in perfetto stile Wilson con punte di neoprog (di allora!) alla Marillion per poi raggiungere il culmine con un assolo di bella potenza. Approfondendo con attenzione l’ascolto, per sua stessa dichiarazione, arrivano echi di Jeff Buckley e frammenti profondi di James Blake.

Un bel lavoro nel suo complesso, testi non banali, dove traspaiono le emozioni di Lorenzo in quei mesi, accompagnate da melodie che contengono le sue passioni e i suoi ascolti. Di lui mi piace proprio questo suo vivere e concepire un “mondo musicale contaminato”, l’ascoltare e il rielaborare, l’aprirsi alla musica senza preconcetti.  

Lorenzo, sei partito dalla pandemia, ma non c’è solo quella in Material Fields
«Lo spirito della pandemia aleggia, anche perché l’ho scritto, composto e arrangiato nei momenti di lockdown. Ma c’è anche molto amore, una certa critica al purismo musicale, luci e ombre che portano il disco in una dimensione spirituale».

Cosa intendi per purismo musicale?
«Un invito a non vedere alcuni mostri sacri della musica come intoccabili. La contaminazione è importante. Sul purismo con i Pinguini abbiamo avuto un’esperienza che ci ha fatto riflettere. Abbiamo partecipato al disco Faber Nostrum (uscito nel 2019, ndr). Sono stati affidati a giovani musicisti alcuni brani di Fabrizio De Andrè per reinterpretarli, filtrare l’essenza del cantautore. Abbiamo avuto non poche critiche su questo disco corale, anche se la nostra proposta, Fiume Sand Creek, è piaciuta molto. C’è chi sostiene che artisti come Faber non si possano toccare. La ritengo una presa di posizione assurda, un limite che non ha senso».

Sono d’accordo, anche perché Faber Nostrum è un bel disco che mostra De Andrè com’è realmente: un artista che ha inciso profondamente nella cultura della musica italiana…
«La chiave del linguaggio musicale sta proprio qui, creare qualcosa di nuovo contaminando. Con il purismo l’Arte non va da nessuna parte… ne parlo proprio in uno dei brani del disco, Under Crystal Domes».

Material Fields è su questa strada…
«Sì. Mi sono formato ascoltando la musica dei miei genitori, dunque gli ELP (Emerson, Lake & Palmer), Frank Zappa, i Pink Floyd. A 11 anni ho scoperto il rock, l’heavy metal… sono stato un “metallaro”, orgogliosamente Metal!».

Hai abbandonato il genere?
«Il Metal ha i suoi difetti, è molto ripetitivo, ha canoni ancora rigidissimi. Per questo sta subendo un enorme tracollo. Lo ascolto ancora, ma più o meno tutte le band sono rimaste ferme ai primi anni Novanta. Per continuare a vivere dovrebbe evolversi, contaminarsi, ma capisco, è una questione di mentalità».

Beh, il Metal proviene non a caso dalla Classica, quindi è un genere chiuso: se vuoi fare Metal questi sono i canoni… Si può dire lo stesso dei suoi fan.
«Secondo me, nei centri urbani grossi, prendi Milano, dove di musica ne gira tanta e di ogni tipo si è più portati ad accogliere nuove idee, mentre in provincia (Lorenzo viene da Villa d’Ogna paesino dell’alta Val Seriana, ndr) è più facile che si mantengano intatti certi generi musicali».

Questa tua apertura e curiosità trova, dunque, una sintesi nel tuo lavoro…
«Sì, certo. Ascolto e mi piace certo mainstream e il rock progressive. Amo la musica rock ma sono un fan dei Coldplay che sono pop».

A proposito di mainstream, c’è parecchia roba scadente in giro…
«Non sarei così negativo. Penso che nel mainstream ci siano figure molto interessanti, prendi ad esempio Marracash e Tha Supreme (lui per me è un genio!), ma anche Salmo, gli Iside, bergamaschi, una proposta molto nuova, fresca ma estremamente creativa. Mi piace molto anche Blanco…».

Foto Mattia Laser

Cosa stai ascoltando in questi giorni?
«Vangelis, Tangerine Dream, Porcupine Tree, Port Noir…».

Cambio direzione: usi molto i social per il tuo lavoro?
«Quello dei social è un grosso tema. Più passa il tempo e più sono critico verso questi strumenti. Non per il fatto che esistano, ma per come vengono usati. È incredibile che non li utilizziamo nel migliore dei modi. Le vediamo tutti le sacche di disagio e disinformazione e gli effetti negativi conseguenti. Per gli artisti sono necessari, uno strumento di lavoro, anche se li uso pochissimo. Se sfruttati bene potrebbero essere una grande opportunità, non solo nella musica…».

Sono un problema anche le concentrazioni, vedi l’acquisto di Twitter da parte di Elon Musk…
«Mi auspico ci sia un riassetto, che si aprano gli occhi. Il fatto che la comunicazione passi da un numero così ristretto di canali non è per niente positivo. Le grandi concentrazioni sono un problema, ci troviamo in una situazione di “quasi” monopolio».

Come gestisci il tuo lavoro nei Pinguini e la tua carriera da solista…
«Sono due modi di lavorare diversi. Nei Pinguini c’è una coralità, siamo una band! Riccardo (Zanotti, ndr) scrive testi e musiche, gli arrangiamenti sono il frutto del lavoro di tutti, quindi è inevitabile che si debbano lasciare da parte i protagonismi. Quando lavori da solo non hai compromessi, è una bella libertà e anche una valvola di sfogo».

Ai Pinguini è piaciuto Material Fields?
«Ha avuto un’accoglienza positiva, ne sono contento!».

Hai fatto tutto da solo, testi, musiche…
«Sì l’ho scritto e arrangiato interamente. Per il pianoforte, la batteria, il basso e una partitura di sassofono ho chiesto l’aiuto di musicisti, amici, con cui avevo già suonato insieme. Come Paolo Salvi al piano, con lui abbiamo condiviso le esperienze nel progetto prog precedente, i Marsyas; Marco Paganelli alla batteria, Cristiano Marchesi al basso (è stato il primo bassista dei Pinguini Tattici Nucleari) e Marco Gotti Jr. per un assolo al sax, bravo musicista di Bergamo».

Cosa ti aspetti da Material Fields? Lo porterai in tour?
«È un disco che ha dato molto soprattutto a me stesso. Sono contento di aver avuto la possibilità e la fortuna di condividere delle idee. Sto pensando a un tour in autunno, visto che ora, con i Pinguini, riprendiamo ciò che la pandemia ha interrotto e saremo in tour tutta l’estate. Che dire: non mi pongo grossi limiti!». 

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