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Interviste: il pianoforte secondo Simone Graziano

Simone Graziano – Foto Angelo Trani

Come nasce un disco? In molti modi. Questo è uno: Firenze, tempo di pandemia, primo giorno del secondo lockdown, tutti a casa. Un pianoforte Yamaha C3 mezza coda, due figli piccoli a cui prestare tante attenzioni, concerti e insegnamento sospesi… Un moto di stizza per la situazione, lo sconforto prende tutti. Come raccontare in musica la chiusura? Lanciando nel pianoforte il cellulare e mettersi a suonare…

Forse, anzi sicuramente, l’ho fatta troppo semplice, ma di fatto è così che è andata per Simone Graziano, 42 anni, fiorentino, uno dei più bravi ed eclettici pianisti jazz italiani. Un diploma al conservatorio di Firenze e una specializzazione alla Berklee School of Music di Boston, vera istituzione nel mondo, dove s’è assicurato la laurea in composizione e arrangiamento jazz. La cosa mi ha incuriosito al punto che l’ho chiamato per farmela raccontare.

Il disco si chiama Embracing the Future, è uscito a ottobre dello corso anno. Simone ha iniziato a presentarlo live quest’anno. Sabato 12 sarà a Milano all’Auditorium Di Vittorio presso la Camera del Lavoro, in corso di Porta Vittoria 43, nell’ambito della 27esima edizione dell’Atelier Musicale, appuntamento di pregio della città meneghina tra jazz e musica classica. Nella prima parte del concerto suonerà da solo Embracing The Future, nella seconda, invece, sarà in trio con Francesco Ponticelli al contrabbasso ed Enrico Morello alla batteria, formazione ormai consolidata. Se non conoscete la musica di Simone vi consiglio, oltre a questo particolarissimo lavoro, anche lo splendido Sexuality (2019) e l’altrettanto formidabile Snailspace (2017).

Io ci sarò, curioso di ascoltarlo dal vivo! Anche perché il vecchio, caro pianoforte, strumento alquanto ingombrante e “statico” nel suono, preparato dall’artista assume nuove forme e suoni, un universo straniante e sospeso.

Prima che lo pensiate va chiarito: non si tratta dell’ennesima imitazione alla Cage, nemmeno del piano suonato direttamente sulle corde invece che sui tasti. Non c’è alcuna irriverenza nei confronti della sacralità del pianoforte, un grande, antico, saggio elefante da rispettare come fanno gli indù con Ganesha, semmai la volontà di ottenere un suono nuovo in grado di raccontare una realtà nuova, quella della pandemia (ma ce lo dirà tra poco lo stesso Simone…).

Un bel lavoro, dunque, interessante per l’incedere e per le armonie che ti avvolgono, melodie misteriose, un mondo ovattato dove tutti i rumori, le manie, le insicurezze, i dialoghi del lockdown sono stati tradotti minuziosamente in note. Poche, soppesate, discrete, come in Nihilo, o un rincorrersi di sussurri, chiacchiericcio diffuso su tutte le insicurezze del momento, che diventa melodia in Always Whispering.

Apre l’album When The Party’s Over, brano tratto dal primo disco di Billie Eilish (When We All Fall Asleep, Where Do We Go?, 2019) l’unico non composto dal musicista toscano, che diventa ancora più netto ed essenziale, preludio di uno stato d’animo che porterà alla fine del lavoro, quando, con Stars Behind Me, arriva lenta e consapevole l’accettazione che la vita non sarà mai più quella di prima. Non depressione o tristezza, semplicemente l’elaborazione di un nuovo cammino.

La musica dice molte cose, sa comunicare meglio di tante parole, è diretta, senza mezzi termini o sottintesi, pulita, sincera. E il diario musicale di Simone vale la pensa d’essere ascoltato, anzi, letto, tutto d’un fiato.

Simone Graziano e il suo pianoforte modificato – Foto Caterina Di Perri

Simone, ma davvero hai lanciato lo smartphone nel piano e poi hai suonato?
«Sì, era il primo giorno del secondo lockdown ed ero disorientato. Mentre pensavo di registrare un video Instagram, d’istino ho acceso la registrazione e messo lo smartphone nella cordiera: visto che siamo chiusi, vi metto direttamente dentro al mio pianoforte così sentirete il suo vero suono, dall’interno. Ciò che ne è uscito era strano, assurdo, come se avessi suonato dentro a una cattedrale gotica, un riverbero micidiale».

Così sei passato allo step successivo…
«Ho pensato che, se avessi attutito il più possibile il suono, si sarebbero creati degli effetti interessanti. Ho provato a “riempire” il piano, usando lo scotch carta, i panni, i segnachiavi di gomma, i filtri di sigaretta per ottenere quell’effetto scordato… In 35 anni di pianoforte puro non mi ero mai avventurato nel mondo del piano preparato alla Cage. Non volevo proprio imitarlo, al confronto suo sono soltanto un turista del piano preparato. Infatti parlo di piano “modificato” in virtù di quello che voglio raccontare in quel momento. Ho estratto un suono nuovo perché doveva raccontare una realtà nuova».

Non bastano solo il nastro carta, i filtri, i gommini per ottenere quel suono…
«Infatti all’interno metto due microfoni che poi faccio confluire nel computer dove elaboro il suono con un paio di filtri che mi sono preparato io stesso. Tutto molto semplice, essenziale».

E dal vivo come fai?
«Per preparare il piano impiego un quarto d’ora. Nessun problema!».

Come vedi Embracing The Future?
«È un racconto molto personale, scritto e registrato tutto a casa mia. È l’opposto dell’album Sexuality, estroverso, potente: è minimal, molto intimo. Sono storie brevi da raccontare ai miei due bimbi, e poi anche una “terapia musicale” che mi è servita per passare indenne il lockdown. È un album di riflessione più che di estroversione».

Mi hanno colpito molto Nihilo e Brahms Tears
«Nihilo, cioè nulla, è un gioco inventato su un accordo, un arpeggio di sole quattro note. Volevo vedere come si muoveva il ritmo… Brahms Tears è una parodia di un brano di Johannes Brahms, l’Opera 21 N.1 per piano solo, variazioni su un tema originale. È un’opera unica, non da virtuoso come sono in genere i lavori del compositore tedesco, dove il musicista cerca la semplicità di linee, melodia e suono. Superlirico, semplicistico, quasi minimale. Così mi sono immaginato Brahms che ascoltandolo si commuove, da qui il titolo, le lacrime di Brahms».

Oltre a comporre insegni pianoforte…
«Sì, al conservatorio di Siena, una volta al mese, e in quello di Padova, tutte le settimane. Insegno jazz ma anche tanta musica classica, il “regno” del pianoforte…».

Simone Graziano – Foto Caterina Di Perri

Domanda inevitabile: come stanno, quanto a musica, i ragazzi che frequentano oggi i conservatori?
«Non parlerei solo di musica ma anche di cultura in senso più generale. L’insegnamento mi ha portato a fare due grosse distinzioni. Ci sono alunni che non ascoltano il jazz ma che lo vogliono imparare perché “se sai suonare il jazz poi fai tutto”. Questi hanno una grande confusione in testa forse è meglio che lascino perdere. Poi ci sono quelli che davvero amano la musica, ci mettono passione, ardore, altrimenti, davvero: chi te lo farebbe fare di intraprendere un mestiere con il quale è difficilissimo campare? Questi, invece, hanno quel desiderio feroce, come diceva Jarrett, di vivere la musica senza compromessi. Con loro l’asticella si alza ed è qui che possono nascere nuovi talenti».

Saper suonare jazz non è sinonimo di qualità.
«Affatto. Come in tutta la musica. Anche se, nell’ultimo Sanremo, sono sincero, i brani che hanno vinto erano belli».

Beh, c’era quello di Elisa arrangiato molto bene…
«Parlo anche di Mahmood e Blanco. D’altronde il modo di cantare biascicando puoi anche vederlo non come un limite ma come la conseguenza di quest’epoca sommessa e confusa. L’essere fluidi, non solo nel genere ma anche in ciò che si fa, per me è un fattore positivo».

Tornando al piano preparato/modificato continuerai a lavorarci?
«Non lo so. Sto scrivendo ancora ma non ho deciso se userò il materiale per un altro disco. Ora provo a portare in giro Embracing… e vedere quanto mi diverte farlo. Non è facile perché bisogna avere una tecnica particolare, un impianto di un certo tipo. Altrimenti (ride, ndr) sembro un demente che mette gommini e filtrini tra le corde, come mi ha fatto notare uno su Facebook!».

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