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Charlie Parker, Richard Brody e l’essenza del ricordo

Tra i tanti articoli che stanno ricordando il centenario della nascita di Charlie “Bird” Parker, uno dei musicisti dirimenti del Novecento (nato il 29 agosto 1919 a Kansas City), ha attirato la mia attenzione quello scritto da Richard Brody sul New Yorker. Brody è un famoso e preparato critico cinematografico, nominato dal governo francese cavaliere dell’Ordine della Arti e delle Lettere, ed è anche uno storico collaboratore del magazine americano da oltre vent’anni.

Nel suo articolo dal titolo How Charlie Parker Defined the Sound and Substance of Bebop Jazz ha centrato la potenza dirompente di Parker inserendolo nel periodo storico vissuto dall’artista, quell’America pre e post bellica, dove il razzismo verso gli afroamericani era pesante e la Black people era mandata al fronte (con divise diverse, si badi bene) a combattere per gli Stati Uniti, lo stesso paese che poi vietava loro i diritti civili più elementari.

La fine del Secondo conflitto mondiale, il ritorno dalla guerra degli eroi neri  – non riconosciuti come tali -, la droga diffusa nelle grandi città, eroina che catturò anche Charlie (oltre ad alcol e tranquillanti), sono parte di un pezzo importante di storia a stelle e strisce. In questa situazione, l’autore ricorda anche l’uccisione di un soldato nero, Robert Bandy, da parte di un ufficiale di polizia bianco che provocò una rivolta ad Harlem, nell’agosto del 1943 (molte cose non sono proprio cambiate negli States!). Ma anche la difficile lotta per le conquiste civili degli afroamericani che si fece sempre più consapevole a partire dai primi anni Cinquanta e che Parker non riuscì a vivere, vista la prematura scomparsa, ad appena 34 anni.

In tutto ciò c’è il genio di questo musicista che, stanco delle partiture di swing e jazz “classico” delle grandi orchestre – dove suonò, assieme ai big del tempo come Dizzy Gillespie – cercò di rompere quelle armonie precostituite, spingendosi a riscrivere nuovi percorsi sonori sempre più audaci, apparentemente frammentati, veloci, intensi, per i tempi, difficili da comprendere, ma che altri musicisti che si stavano affacciando sulla scena, vedi Miles Davies, ne fecero tesoro.

Spiega Brody: “Quello che Orson Welles ha fatto per la regia e Jackson Pollock per la pittura, Charlie Parker, in particolare, ha fatto per il jazz, rappresentando l’irrappresentabile». Ecco dunque, la nascita del bebop, di cui Parker ne è considerato il padre, anche se le radici di questo genere si formarono negli anni Trenta con Thelonious Monk, quando suonava sperimentando per pochi amici e fan a New York, Dizzy Gillespie che «faceva brillare la sezione di trombe di Cab Calloway, Kenny Clarke, che ha ridisegnato la sua batteria nella band di Teddy Hill…».

Ma chi ha tirato le fila di questo nuovo modo di interpretare il jazz è stato lui Charlie Bird Parker. Riporto un altro interessante ragionamento di Brody: «Le astrazioni della sua arte esprimevano la violenza, l’orrore, il pericolo esistenziale del tempo di guerra; oltretutto, la sua arte ha anche dato voce al fragore della mobilitazione di tutti alla ricerca della vittoria nella guerra – e alle ingiustizie e alle umiliazioni sopportate dai neri americani in patria, che deridevano gli ideali di quello sforzo nazionale».

Parker, insomma, così fragile nei suoi incubi che cercava di lenire con eroina, alcol e antidepressivi (nel 1946 fu ricoverato in ospedale psichiatrico a Camarillo in California per sei mesi, e qui compose la famosa Relaxin’ at Camarillo) era il figlio di quei tempi, ne aveva assorbito e ne sopportava tutto il peso. I suoi assoli erano una cavalcata veloce, con cambi di passo, armonie dissonanti ma coerenti, rincorrersi compulsivo di note apparentemente slegate tra loro. Continua Brody: «La musica di Parker ha avuto un effetto simile a quello delle complessità profonde di Orson Welles in Quarto Potere, unendo il primo piano e lo sfondo, rendendo evidente la complessa struttura musicale. Come l’espressionismo astratto, rendeva le superfici della musica turbolente e cosmicamente intricate».

Chissà dove Parker avrebbe portato il bebop, chissà in cosa lo avrebbe fatto evolvere se non fosse morto giovane, di una polmonite non curata. Lui, che aveva dato il nome persino a un locale “Birdland” dove si esibì svariate volte prima d’essere bandito da tutti i club di New York perché alcol e droghe risvegliavano i suoi demoni più profondi. Sempre Brody: «Quando Parker morì, nel 1955, all’età di trentaquattro anni, il jazz stava subendo un’altra rivoluzione, con Davis in prima linea e altri musicisti emergenti, come John Coltrane e Cecil Taylor. Soprattutto, la società americana era sul punto di uno storico passo avanti, a causa della dedizione e del sacrificio degli afroamericani che chiedevano diritti civili e la fine della segregazione. Parker non ha vissuto per vedere nessuna delle due trasformazioni».

È rimasto sospeso, dopo tanto cercare risposte nelle note spericolate e tra le peripezie della sua vita (come la morte in culla della figlia Pree). Ha lasciato dei brani immortali e dirimenti. E per questo viene ricordato in tutta la sua forza e fragilità.

A febbraio di quest’anno è stato pubblicato un bel cofanetto in vinile e digitale, The Savoy 10-inch LP Collection, contenente le prime quattro serie di The New Sounds in Modern Music, pubblicate agli inizi degli anni Cinquanta dalla Savoy Records, con registrazioni effettuate tra il 1944 e il 1948. Un ascolto essenziale per chi voglia gustare un assaggio di alcune delle session più interessanti del sassofonista, quelle che hanno “definito” il bebop. Sono i grandi brani di Parker come Now’s the Time, Billie’s Bounce, Ko-Ko, Red Cross, Donna Lee, Bluebird, ed è accompagnato in questo immenso parterre di brani da musicisti del calibro di Miles Davis, Dizzy Gillespie, il pianista Bud Powell, il batterista Max Roach e il chitarrista Tiny Grimes.

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