Pop Coreano: KBLUE, un italiano a Seul

Può sembrare strano che vi parli di Kpop, il pop Coreano, genere mainstream costruito a tavolino dove la musica non è la protagonista principale, ma appena una comprimaria. Dove tutto viene deciso fin nei minimi particolari, in una sorta di rigorosa catena di montaggio che finisce per rappresentare la negazione della musica e dell’artista stesso, sacrificati a un bene maggiore: la felicità dell’ascoltatore e i conseguenti lauti introiti di un sistema oliato alla perfezione.

Il Kpop andrebbe studiato a fondo per capire come sia riuscito a sfondare nel mondo occidentale, quali siano i suoi segreti per conquistare a strascico migliaia di adolescenti e giovanissimi adulti.

Ho deciso di parlarne perché ho conosciuto un trentenne romano, Fabio Demofonti, in arte KBLUE, che s’è innamorato del genere al punto da farlo diventare il suo lavoro. Da un paio d’anni vive in Corea del Sud, s’è messo a studiare Kpop con abnegazione, ogni giorno ore e ore di concentrazione e fatica tra lezioni di canto, lingue, ballo, esercizi obbligatori in palestra, prove su prove. Diventare un “Idol” è difficile, come vincere al Superenalotto, ma chi ci riesce si aggiudica il jackpot!

Ora mi direte: ma cos’è, uno scherzo? No affatto, anche perché Fabio ha una solida cultura orientale alle spalle, coltivata sin da piccolo. Sa parlare correttamente il cinese – lo ha studiato in una università in Cina – il coreano, il tagalog, la lingua filippina, oltre, ovviamente all’inglese e ad altre lingue/dialetti asiatici. Nelle Filippine è diventato una star, grazie ad alcuni fortunati singoli.

Dopo averci riflettuto a lungo, ho deciso di chiamarlo. Ci siamo dati appuntamento a un’ora accettabile per lui e per me visto il fuso orario e i suoi impegni di studio e lavoro, e ci siamo presentati… Due realtà opposte a confronto!

Fabio raccontami di te: perché ti sei appassionato al Kpop e alla Corea del Sud?
«Probabilmente in più vite precedenti devo essere stato un coreano o quanto meno, un asiatico, perché ho sempre avuto un’attrazione per tutto ciò che riguarda l’Asia e la sua cultura in generale. Dieci anni fa sono andato a studiare il cinese in Cina, all’università. Il Kpop l’ho scoperto lì: in quel periodo lavoravo in una discoteca. Una sera, il dj mette una canzone e vedo che tutti quanti iniziano a ballare allo stesso modo, all’unisono. Sorpreso, vado subito dal disk jockey a chiedere informazioni. Era una band KPop. Quel genere mi ha coinvolto e affascinato fin da subito: come poteva un brano avere la forza di far danzare una discoteca intera allo stesso modo, tutti perfettamente sincronizzati? Quel gruppo non esiste più, s’è sciolto. È un’altra caratteristica del genere: una band non dura più di 7/8 anni, salvo che non rinnovino i contratti. In quell’istante ho deciso che sarei diventato il rappresentante italiano del pop Coreano».

Quanto incidono le label sulla nascita di queste pop band? C’è un mercato mostruoso!
«Le case discografiche sono determinanti. Innanzitutto perché hanno la disponibilità di farti crescere e investono tantissimi soldi. Ti parlo in base alla mia esperienza: la formazione di cantante KPop è un grosso investimento di tempo e di denaro. Non so se hai visto i video dei cantanti coreani: altro mondo rispetto a quelli italiani. Il video è il vero biglietto da visita dell’artista, e, in quanto tale, viene curato nei minimi dettagli. Le case discografiche poi sono fondamentali nella scelta dei componenti del gruppo. Seguono un format oliato: c’è il rapper, immancabile, il ballerino, la voce solista…».

Quindi, le case discografiche fanno molto scouting…
«Sì, in molti modi. Per esempio, qui ci sono tantissimi artisti che cantano per strada. Si propongono apposta nella speranza di essere adocchiati. Poi ci sono i provini, le audizioni. Ti presenti con il tuo brano, canti, balli, in base alle tue competenze. Ogni casa discografica ne organizza in modo costante. È figo perché ci sono tantissime persone che si presentano».

Cos’è che ti colpisce del fenomeno Kpop…
«A livello musicale, respiri il futuro, perché è tutto ricercato, moderno. È l’evoluzione dei generi nati in Occidente. È un pop che ha suoni molto sofisticati e innovativi rispetto al nostro mercato europeo e mondiale. E poi sono super vibe-positive».

Dalla tua esperienza, solo un’evoluzione del pop occidentale?
«Il Kpop, letteralmente, è la versione coreana del pop. I primi gruppi degli anni Novanta, maschili e femminili, si basavano sulle Spice Girl o sui Backstreet Boys. Poi c’è stata un’evoluzione totale. Oggi le boy/girlband mondiali sono pochissime. Di quelle rimaste, praticamente solo le inglesi Little Mix sono le uniche che ballano e cantano. Mentre qui avere una coreografia in quasi tutti i video è importante. Ciò impone una formazione costante, lo vedo io stesso: ore e ore di canto, ballo, preparazione atletica, stretching. Tanta fatica viene ripagata, io stesso ho registrato un miglioramento enorme. I generale, le voci particolari, e noi ne abbiamo tante, vedi per esempio Gianna Nannini, non vengono prese in considerazione perché… non sono “cool”».

Quanti gruppi ci sono attualmente in Corea?
«Non li ho mai contati, comunque tanti, e ne escono continuamente di nuovi. I BTS (quelli che lo scorso anno sono entrati di prepotenza nelle classifiche degli States, ndr) vengono dalla Hybe, casa discografica che ha avuto solo boyband, gruppi di “idol” maschili. Una decina di giorni fa la label ha pubblicato il suo primo gruppo femminile. Le principali case discografiche, vedi la SM, la YG Entertainment, quella delle Blackpink, la P Nation, fondata da PSY (ricordate il tormentone Gangnam Style?, ndr) quest’ultima tratta solo cantanti e non boyband, hanno grandi mezzi a disposizione. Tra l’altro, PSY ha pubblicato recentemente un nuovo disco, PSI 9th, l’hai ascoltato?».

No, ho ricevuto il comunicato stampa ma…
«Ha fatto un brano, That That con Suga dei BTS, fichissimo! È stato numero uno in molte classifiche mondiali. Si tratta di un’operazione sicuramente studiata, comunque ha delle canzoni super orecchiabili, vedi Celeb».

Fabio, tu suoni, componi i tuoi brani?
«Non suono, ma ballo, canto e scrivo le mie canzoni. Poi mi faccio aiutare da un Producer coreano, perché sì, ascolto molto Kpop, ma non è sufficiente, devi affidarti comunque a loro».

Insomma, il Kpop è un fenomeno…
«È uno stile, in questo momento, quello più in voga al mondo, supervirale, grazie ai BTS. Quando ho scoperto il Kpop, dieci anni fa lo suonavano già in tutta Europa, tranne che in Italia dove è apparso da un paio d’anni. Mi ricordo le Girls’ Generation, si erano sciolte nel 2017 dopo dieci anni di attività…».

Curiosità: una volta sciolte le band, i singoli idol continuano la loro professione da solisti?
«È molto difficile che qualcuno rimanga. Secondo me perché, essendoci nel Kpop degli standard per quanto riguarda la costruzione di una band, il rapper, il solista, chi balla, chi fa i cori, nessuno nota i singoli in quanto tali. Vale il gruppo. Anche in Corea c’è la versione del cantante mascherato, quello di Raiuno. Capita molto spesso che  l’artista, una volta tolto il travestimento, non venga riconosciuto. Tutti sanno che è un idol, per evitare imbarazzi viene subito annunciato il suo nome dal presentatore: questo è il tale, degli Winner…».

Conta il gruppo e non il singolo…
«Sono poche le band che hanno la fortuna di avere idoli riconoscibili, perché personaggi particolari. Una di queste sono i BTS!».

Fabio torniamo a te: quanti anni hai?
«Trentatrè. Di solito l’età standard per un artista di Kpop è 20 anni. Sono visto come un’anomalia qui. Sono straniero e sono anche una testa dura, insisto, devo riuscire a raggiungere i miei obiettivi. L’ho sempre fatto nella mia vita. Ho pensato: parlo numerose lingue asiatiche, sono esperto di Kpop, canto e scrivo in coreano perché non dovrei riuscirci? Quando ho iniziato a bussare alle porte della case discografiche, mi snobbavano. Mi vedevano attraente, ma quando leggevano la mia età si ritraevano. E io spiegavo loro: “guardate che canto, ballo, parlo le lingue asiatiche”. Ho dovuto insistere e quando alla fine sono stato preso dall’agenzia che mi sta preparando, mi hanno messo alla prova facendomi fare il colloquio in mandarino con un’interprete cinese. Alla fine hanno capito che non mentivo e mi hanno scritturato. Una soddisfazione. Ho realizzato pochi giorni fa il mio primo progetto, vediamo quando ci sarà l’uscita ufficiale…».

La tua idea è entrare in un gruppo Kpop?
«Mi intriga tantissimo. È un mio obiettivo, parallelamente alla mia carriera da solista. La mia intenzione è di unire il pop coreano a quello italiano. Mi piace sperimentare…».

In Corea come ti vedono?
«Non ho fatto ancora apparizioni in tivù».

Ma nelle Filippine sei diventato un idolo, hai fatto un gran bel successo…
«Sì, nel 2015, un successo pazzesco. Ho fatto un primo tour di circa tre mesi, poi un altro di quattro mesi. Sono stato invitato in radio, ho fatto apparizioni televisive e concerti. Qui in Corea sono venuto a cercare un’etichetta discografica e a prepararmi, a studiare. Perché altrimenti non si arriva in televisione. Per loro è inconcepibile che uno che canta non sappia anche ballare. Come reputano assurdo che in Italia nelle apparizioni televisive gli artisti possano cantare live. Qui non lo si fa quasi mai, perché tutto deve essere perfetto, nessuna sbavatura. È un’altra visione della musica pop».

Raccontami la tua giornata tipo.
«Mi alzo alle sei. Faccio un’ora di meditazione. Poi studio quattro ore di coreano. Quindi pranzo e subito dopo inizio, con gli insegnati, a fare due ore di preparazione vocale e altrettante di ballo, quindi studio da solo fino a tarda sera. Fosse per loro dovrei farlo 24 ore su 24! All’inizio non riuscivo a tenere questi ritmi, è tutta questione di allenamento».

Hai fatto un video musicale…
«Sono rimasti piacevolmente sorpresi, perché noi italiani siamo molto espressivi, parliamo anche con il corpo, cosa che qui non riescono a fare, perché non fa parte della loro cultura».

Fabio, com’è la vita in Corea? Che tipo di società è?
«Ti racconto sempre in base alla mia esperienza: sono arrivato durante il Covid, quindi immaginati tutte le restrizioni, loro sono generalmente rigidi, fiscali. È pur vero che ho vissuto il Paese in un periodo stressato, al limite. Mi sono innamorato di questo posto perché qui vedi il futuro. Vengo da Roma, una città splendida che amo, però quando sono arrivato a Seul ho percepito che c’è qualcosa di più. È un luogo colorato, un modo diverso di vivere la metropoli. I colori danno positività, energia, fascino. Per quanto riguarda la mia vita personale in Corea, l’ho trovata un po’ difficile. Noi italiani siamo abituati ad abbracciare, baciare, vabbè che c’era il Covid, ma ho percepito molto la distanza, loro sono più timidi, introversi rispetto a noi».

Sono un po’ freddi ma musica e ballo li fa scatenare…
«Chi fa un mestiere come il mio ha ritmi diversi, ma la gente normale è molto tranquilla, in metropolitana ci sono cartelli ovunque che dettano regole: non mangiare, non saltare, non chiacchierare rumorosamente. E tutti normalmente si attengono. Avverti che è un posto sicuro. Di contro, ciò porta a essere meno creativi, meno individualisti… non sono abituati a esprimersi veramente».

I tuoi cosa dicono della tua scelta?
«Ah beh, loro si sono abituati. Sono andato a vivere in Cina a vent’anni, sono avvezzi alle mie particolarità».

Cos’è per te la musica?
«Energia, vibrazioni, divertimento, movimento, suono che ti entra in testa e ti emoziona. È positività».

Ascolti altri generi oltre al Kpop?
«Sì, molto “altro” pop. Di quello italiano sono sempre stato un fan di Alexia, adoro la voce di Elisa, Mahmood, le follie di Blanco, i Måneskin, Laura Pausini secondo me è un genio. Tra le star internazionali, Taylor Swift a Beyoncé che è un cavallo da battaglia, un’artista fenomenale!».

Tornando agli Idol: nelle apparizioni televisive è tutto playback, ma quando suonano in concerto?
«È praticamente tutto live, riescono a farlo perché si dividono le esibizioni, quindi ballano e cantano tenendo un intero show. Poi c’è tutta un’energia diversa, coinvolgi il pubblico…».

E la musica è ovviamente live?
«Affatto. Quella è tutta registrata!».

Clio and Maurice: la voce, il violino e la ricerca della bellezza

Non potevo iniziare meglio l’ultima settimana di marzo! Mi sono, infatti, imbattuto in due giovani artisti, Clio and Maurice, lei una gran voce soul, lui violinista versatile, entrambi di Milano. Voglio cominciare da loro, nei prossimi giorni il mio racconto musicale si sposterà fra teatro-canzone e jazz contemporaneo, con belle sorprese e graditi ritorni. Clio and Maurice mi hanno convinto per più di un motivo: sono giovani, hanno un facile talento, e, non guasta mai, hanno ben delineato il loro percorso artistico. E poi, da non sottovalutare, sono fuori dal coro.

È la mia piccola battaglia quotidiana che combatto attraverso Musicabile: proporre alla vostra attenzione musicisti che hanno qualcosa da raccontare. Mi illudo, così, di contribuire a versare almeno una goccia in quel mare di cultura e bellezza che, inesorabile come l’esigenza idrica sul Pianeta, va via via prosciugandosi. La speranza che qualche discografico “illuminato” possa ritornare a indossare scarpe comode e andar per palchi o passaparola a cercar talenti come si faceva oltre mezzo secolo fa, prima che il meccanismo s’inceppasse con l’avvento dello streaming e del digitale (più facile scritturare qualcuno in base ai like sui canali social), non mi abbandona. 

Rientro dalla mia divagazione: Clio and Maurice, all’anagrafe Clio Colombo, 26 anni, e Martin Nicastro, 29, sono entrambi animati dall’esigenza di raccontare qualcosa di nuovo, che valga la pena d’essere ascoltato. Coppia d’arte da quattro anni e di vita da otto, stanno affinando un progetto-sfida: sfruttare la potenzialità della voce e del violino, per ottenere una fusione carismatica grazie anche all’uso sapiente dell’elettronica.

Nella loro musica si avvertono tutte le escursioni/espressioni soul di Clio – in alcuni brani ricorda il pathos di Annie Lennox o l’estro di Björk -, mentre Martin, con la continua ricerca di nuove sonorità da dare al violino, strumento che, nelle sue mani, diventa “altro”, se proprio deve ricordare qualcuno, fa pensare ad Andrew Bird o a certe atmosfere alla Brian Eno. Un duo che si sposta leggero, con un solo strumento e una loop station, oggi è un valore aggiunto… All’attivo hanno vari singoli e un EP, Fragile, uscito nel 2020. Stanno tentando ì di far uscire il loro primo album – appena troveranno una casa discografica disposta a credere in loro.

Li ho incontrati in un bar dalle parti di Loreto per conoscerli meglio, davanti a un buon caffè.

Clio, Martin, raccontatemi, com’è nato il vostro sodalizio musicale?
Clio: «Ci siamo conosciuti per caso, da amici comuni, otto anni fa. A me è sempre piaciuto cantare, ma non lo consideravo un possibile lavoro. Mi divertivo a interpretare cover. Dopo quattro anni di vita insieme è nata spontanea l’esigenza di unirci anche nella musica».
Martin: «Ci siamo seduti attorno a un tavolo e abbiamo riflettuto seriamente su come costruire qualcosa di originale con ciò che avevamo a disposizione, lei la voce, io il violino. Che è uno strumento “nomade” per definizione…».

Martin, oltre al Conservatorio, hai suonato in una band diventata piuttosto famosa, i Pashmak: ricordo un vostro album che mi era piaciuto particolarmente, Let The Water Flow
«Era un bel gruppo, abbiamo fatto molti concerti insieme, ma la gestione costava molto, eravamo soddisfatti se nei nostri tour finivamo non perdendo soldi… Io suonavo il pianoforte e il violino».

In duo è più agile, almeno nella gestione dei live…
Martin: «Sicuramente è stata una scelta di carattere pratico ma c’era soprattutto la volontà di fare qualcosa di diverso».
Clio: «Per me è stato l’attimo “buono” per sbloccarmi e iniziare a scrivere. Siamo partiti usando molto i loop. Cercavamo di comporre brani più strutturati, qualcosa che si potesse combinare con un loop. Oggi li usiamo molto meno. Siamo orientati su cose più radicali, violino e voce senza troppi effetti, più melodici…».
Martin: «Uso un pedale multieffetto, con cui faccio i loop, mentre con un octaver creo la linea del basso».

Il violino lo suoni molto poco nel modo tradizionale…
Martin: «Non direi. Cerco suoni polifonici, che ottengo sia pizzicando le corde, sia usando l’archetto, ma anche suonando accordi».

Come vi siete divisi la composizione?
Clio: «Partiamo prima dall’armonia e su quella provo a improvvisare qualcosa con parole chiave che mi evochino il brano. Poi inizio a scriverci intorno. Sono i suoni che danno il senso al testo».

Perché avete scelto di esprimervi in lingua inglese?
Clio: « Mi veniva più spontaneo, è quella che mi parla di più».
Martin: «La lingua influenza la musica. La nostra è stata una scelta d’istinto, ma c’è anche la consapevolezza che per il nostro tipo di musica l’inglese sia il “suono” giusto».

Un modo per allargare i confini, andare oltre l’Italia…
Clio: «La vediamo come una scommessa: essere italiani e fare musica in inglese, come fanno da anni i tedeschi o i nordeuropei».

Siete cresciuti con la musica in casa?
Martin: «Non veniamo da famiglie musicalmente “fornite”. C’erano ascolti diversi, quelli normali, da pubblico non educato. Ho iniziato a 14 anni con musica bella, la classica… Ascoltavo anche i Queen, i Led Zeppellin. Ricordo, però, che confondevo I Radiohead con i Motörhead, pensa com’ero messo!».
Clio: «Adolescente, sono improvvisamente passata da Hilary Duff, ad ascoltare e amare Ella Fitzegerald…»”.

Oggi quali sono i vostri ascolti?
Clio: «Tanti generi diversi. Ultimamente mi dedico molto al jazz, soprattutto quello nordeuropeo, mi sono innamorata della scena jazz svedese degli anni Sessanta».

Torniamo alla vostra musica: secondo me è particolarmente interessante perché il duo permette di esprimere le qualità di entrambi e valorizzarle. Quando suonate live chi viene a vedervi? Viene capita la vostra musica?
Martin: «Dobbiamo distinguere tra Italia ed Europa. Quando suoniamo in Francia, Olanda, Germania, ma anche in Gran Bretagna, possiamo cento come undici persone ad ascoltarci, ma sono tutte molto attente, capiscono quello che stiamo proponendo. In Italia, finora, quando ci esibiamo dal vivo abbiamo la sensazione di sembrare degli alieni. Ovunque, fuori, abbiamo percepito di essere nel posto giusto e di star facendo la cosa giusta».

Clio, stai passando un anno sabbatico a Berlino. Com’è la situazione lì?
«Sicuramente diversa da qui, anche se quella scena multiculturale, aperta, vivace è molto cambiata. Sempre molto creativa, comunque. C’è maggiore accesso all’interscambio tra artisti, lo stato tedesco tutela l’arte: anche nel periodi di Covid gli artisti che si sono trovati di colpo senza soldi, sono stati aiutati. Si percepisce che l’arte è considerata fondamentale».

Qui contano molto i contenuti mainstream. Chi non rientra, ha uno spazio di manovra stretto. È una questione culturale, che prima o poi dovrà essere affrontata…
Martin: «Credo sia inevitabile che prima o poi qualcosa cambi. Quello che manca in Italia è un po’ di coraggio da parte delle etichette discografiche: dovrebbero osare di più, investire invece di andare sempre sul sicuro».

Perché Clio and Maurice?
Clio: «Volevamo un nome che fosse disorientante, di cui non si capisse l’origine geografica, senza però perdere l’idea della coppia: volevamo essere noi e allo stesso tempo altro rispetto a quello che siamo».

Come etichettereste la vostra musica? Avant Pop?
Martin: «Mi sembra un po’ troppo impegnativo. Starei piuttosto su pop sperimentale, o pop alternativo».

Continuerete a suonare in duo?
«Nel disco che abbiamo praticamente finito abbiamo scelto di collaborare in alcuni brani con alcuni musicisti, gli Any Other, Margherita Carbonell al contrabbasso e Francesco Tanzi al violoncello. Per ora sì, è la veste che ci siamo dati e ci crediamo!».

Riflessioni: la lezione del violoncellista Vedran Smailović

Vi ricordate Vedran Smailović, primo violoncello dell’Orchestra Filarmonica di Sarajevo, mentre, vestito in frac, si esibiva solitario tra le macerie della sua amata città, in quell’assedio durato 1495 giorni (dal 5 aprile 1992 al 29 febbraio 1996)? Suonava l’Adagio in Sol Minore di Albinoni, in una versione lentissima, struggente e potente. La musica contro la guerra, come balsamo salvifico per le anime dei morti e degli assediati. Potete toglierci tutto, case, chiese, biblioteche, vita, ma non potete impedirci di suonare e ascoltare. Un piccolo gesto che in sé aveva una portata dirompente.

Se non siete ancora stati a Sarajevo andateci. Gli orrori di quella guerra non sono stati dimenticati. Sono racchiusi nei musei, incisi sulle case, lastricati sui marciapiedi. La foto di Smailović è esposta nel Museo Storico della città.

Oggi, in Ucraina, siamo allo stesso punto. Golia vuol prendersi Davide e lo fa con un dispiegamento di forze brutale. È la volontà di uno dei tanti “fucking Psycho” come cantavano i Muse nel disco Drones del 2015. Dopo una settimana di guerra, negoziati a rilento in casa dell’amico e sodale Lukaschenko, boss (non possono essere elevati al rango di capi di stato!) della Bielorussa, uomo che teme l’Arte, come ho avuto modo di scrivere un paio di anni fa in questo post, Putin non accenna a placare il suo desiderio di ricostruire una storia che è finita 30 anni fa. La Grande Russia, il “celodurismo” imperante, il “tispiezzoindue”, il nazionalismo esasperato, l’essere qualcuno nel mondo che conta, stretto tra Cina e Occidente, l’evitare qualsiasi dissenso, il dominare in casa e nei paesi dell’ex Unione Sovietica con pugno di ferro, la democrazia, anzi, democratura, che è pura dittatura, nemmeno abbellita con un filo di fard…

Lascio i commenti ad altri più saggi colleghi. Mi limito a una sola osservazione: tra un tiranno che tiranneggia, gente che muore sotto i razzi e i mortai, esodi di massa, il ricatto all’Occidente di un’escalation nucleare, la Cina silenziosa perché pensa solo al dio denaro, da questa parte del mondo si fanno le “vere repressioni politiche”: cacciare Valery Gergiev, il grande direttore d’orchestra, licenziato dalla Scala perché non si è espresso contro la guerra. Certo Gergiev è amico ultradecennale di Putin. Ma cosa c’entra la musica con tutto ciò? O la letteratura? Sempre a Milano, e sempre con lo stesso spirito, l’università della Bicocca aveva deciso di rinviare una lezione sullo scrittore russo Fëdor Dostoevskij di Paolo Nori, decisione pare saggiamente rientrata in corner… Cosa ha a che fare la musica con la politica?, si domanda – a ragione – la saggia Natalia Aspesi.

E ritorno a Vedran Smailović: la musica non ha padroni, non la si tiri in mezzo per colpire qualcuno. Ci pensano già i dittatori con le loro logiche di ossessivo controllo. Noi no, noi dovremmo essere diversi. Siamo liberi, di pensare, di dire o non dire, di esprimere dissenso anche in modo pesante, ma non serviamoci della musica per colpire qualcuno. Le note dell’Adagio di Albinoni risuonano ancora a monito, dopo quasi trent’anni. La musica, come la Letteratura, e l’Arte in generale, portano in sé una carica positiva, emozionano, raccontano, fanno più paura delle bombe.

Servirebbe in questo momento un altro Live Aid, un altro Bob Geldof che radunasse, indignato, artisti di tutto il mondo per far sentire il reale peso della musica, la sua potenza dirompente. Un concerto trasmesso a tutto volume ovunque, grazie agli hacker di Anonymus, anche nei costosissimi caschi delle ipertecnologiche milizie mandate a cancellare uno stato sovrano. Sarebbe un bel segnale, non vi pare?

Chiudo con un brano-preghiera sempre da Drones dei Muse, ed è la traccia che dà il titolo all’album, l’ultima. “Ascoltate” le parole:

Killed by drones
My mother, my father
My sister and my brother
My son and my daughter
Killed by drones
Our lives between your finger and your thumb
Can you feel anything?
Are you dead inside?
Now you can kill from the safety of your home with drones
Amen

Disco del Mese: “Amanti, Santi e Naviganti”: la Sicilia di Antonio Smiriglia

Antonio Smiriglia – Foto Charley Fazio

Ci sono state buone uscite nel mese di febbraio. L’altro giorno i Rehab con Sand Castles, e i Caroline, otto elementi al loro primo disco, ipnotico e riflessivo, con un lavoro che porta il loro stesso nome. Quindi gli Electric Sheep Collective, anche questi artisti al primo disco pubblicato, dieci musicisti per un contemporary jazz frizzante, elaborato, complesso ma seducente (ne riparlerò sicuramente, me lo sono ripromesso!). Quindi c’è il ritorno di Hurray for the Riff Raff con un disco dai contenuti forti, Life On Earth

Ma ce n’è uno che mi ha folgorato, una World Music di marca italiana davvero interessante. E, sì: è proprio lui il Disco del Mese di febbraio. L’autore è Antonio Smiriglia, un artista siciliano, di Galati Mamertino, paese di 2700 anime sui Monti Nebrodi, vicino a Capo d’Orlando, più o meno a metà strada tra Catania e Palermo. Il disco, invece, Amanti, Santi e Naviganti, uscito il 19 febbraio per Aventino Music/Opensound Music, è un piccolo, prezioso gioiello, uno spaccato di vita raccontato in siciliano.

Smiriglia è un musicista che da anni sta dedicando buona parte della propria attività artistica alla ricerca della musica popolare sicula. È un nome affermato nel giro della musica popolare d’autore. Collabora da anni con Ambrogio Sparagna – è voce solista dell’orchestra Tavola Tonda di Palermo, e ha aperto in diverse occasioni concerti all’Auditorium Parco della Musica di Roma. Ha all’attivo quattro lavori discografici, Ventu d’amuri con i Discanto Siculo, Vinni a cantare e Susiti bedda con i Cantori Popolari dei Nebrodi. Ha collaborato anche con Franco Battiato. Grazie a questa straordinaria passione, riesce a raccontare e trasferire nella sua musica atmosfere e ritmi unici. Parliamo di World Music, quella vera.

Devo confessarvi che il lavoro di Smiriglia mi ha incuriosito e stregato non poco. C’è un che di ancestrale che attrae inesorabilmente, una sirena che ti cattura in una rete di spunti sonori, mediterraneità allo stato puro, storia, attualità. 

Arrangiamenti mai scontati, dove tamburi a cornice e bouzuki insieme agli strumenti tradizionali siculi – vedi il friscalettu di canna o il tamburo Marranzano – si amalgamo nella composizione di melodie e armonie che riportano a ritmi antichissimi ma anche a quella certa World Music colta, Peter Gabriel ne è stato un maestro, dove viene sfruttata la bellezza e la potenza melodica in un compiuto e dovuto omaggio a una terra meravigliosa, abitata e conquistata da numerose etnie che ne hanno rafforzato carattere e genio artistico.

Un lavoro pignolo, sia nella composizione sia negli arrangiamenti, una registrazione altrettanto attenta che nobilita strumenti e voce, ne fanno uno dei più belli e interessanti dell’ultimo periodo. L’attacco del primo brano, Naviganti, un contrabbasso che inizia a narrare una litania propiziatoria per la gente che esce in mare, seguito da una chitarra in arpeggio e una serie di vocalizzi di Antonio, una voce acuta e struggente, araba, valgono l’ascolto del disco. Perché lì, in quelle prime frasi sta scritto tutto quello che ascolterete nel disco. Lì, proprio lì, inizia un racconto fantastico fatto di salsedine, afrori amorosi, santi, devozioni, pescatori e migranti. Il Mediterraneo è croce e delizia, soprattutto in questi ultimi anni, vita e morte, amore e sofferenza, calore e gelo… Un disco che puoi annusare, ascoltare con tutti i sensi, e che percepisci subito come tattile.

Dentro Amori, Santi e Naviganti c’è, dunque, un piccolo grande mondo, quello della Sicilia, un’isola che ha migliaia di storie – belle e tragiche – da raccontare e noi, per fortuna, da ascoltare. La cultura musicale mediterranea rivive in preziosi accenti, nessuno prevaricante, piccoli inserti jazz – vedi la batteria in Tempu, suonata da Stefano Sgrò -, frammenti di rock prog – in alcuni punti ci sono echi dei Jethro Tull, di Ian Anderson -, ascoltate il flauto traverso di Fabio Sodano in Controvento -, quindi, il fado non convenzionale di Dulce Pontes (in Si Li Me Paroli).

Il mare porta e confonde tutto, va e viene, e in questo fluttuare galleggiano ritmi e poesie del mondo dove non manca nemmeno il Brasile, con quegli interventi nell’uso dei fiati e dei cambi di ritmo tipici della scuola mineira di Milton Nascimento. Vanno e vengono, naturalmente. L’inizio di Terra lo conferma: un bouzouki metallico suonato da Socrate Verona, a scandire, e il flauto traverso sempre di Sodano a introdurre: brano che racconta il mare degli sbarchi: “Varda la navi ca staci partennu/ Cu li migranti a sbarcari/ Varda la navi ca staci partennu/ Pi farli jri a muriri”, canta Antonio.

Permettetemi un’annotazione sulla voce e sul canto: meriterebbe un post a parte tanto è attento, complesso, teatrale, profondamente legato alla terra. Credo che la summa del canto di Smiriglia la si trovi in Donna Gintili, dove la voce dell’artista si fonde con quella della musicista messinese Oriana Civile, al punto da non percepire più quale sia una e quale l’altra. Perfettamente in sincrono, armonicamente fuse. Un piccolo capolavoro.

Sì, mi ha intrigato molto questo Amanti Santi e Naviganti. Come mi spiegava Ilaria Pilar Patassini nel post pubblicato la scorsa settimana, «quando un disco mi piace lo ascolto, riascolto e ascolto ancora…». Per questo ho chiamato Antonio, per fare quattro chiacchiere con lui.

Bello il titolo Amanti, Santi, Naviganti
«Raffigura e sintetizza la mia terra. L’aspetto amoroso viene dalla tradizione popolare a cui ho voluto dare una nobiltà propria: le serenate, l’amore cantato, contrastato, bello, fatto di passioni, dove ci sono le partenze, la nostalgia i cuori affranti. Santi, perché da sempre qui il sacro convive con il profano. Basti pensare alla commistione in tempo pasquale nel venerdì santo dove convivono riti cattolici e feste pagane. O per esempio, la festa del Muzzuni il 24 giugno, che coincide con la ricorrenza di San Giovanni e il solstizio d’estate. Il Muzzuni è una brocca mozza rivestita di tele e oro pregiati, riempita di sementi fatti germogliare. Un rito propiziatorio in onore della Madre Terra che si rifà alle feste dionisiache…».

E poi ci sono i Naviganti…
«Siamo un’isola, una terra circondata dal mare. Sono numerosi i riti devozionali, chiamati Cialome, che servivano ai pescatori, per una buona pesca, per un ritorno a casa, alla famiglia. Le invocazioni si manifestano in vocalizzi quasi da muezzin, un richiamo di voci per farsi forza durante la pesca del corallo. Invocazioni e ritmo per incitare a remare. Naviganti sono anche i migranti che arrivano sulle nostre coste, gente che spera in una vita migliore e che invece trova, nel mare, la morte».

Qui il testo di Naviganti:
E vidi comu assumma lu curallu
E vidi
E vidi comu assumma lu curallu
E tira
E lu ventu ca lu mari fà strammiari
E vidi e vidi
E vidi comu assumma lu curallu
Comu assumma lu curallu
Ca lu ventu ca sciuscia ora passerà
Ca lu ventu c’acchiana ora carmerà
Amuninni cu li santi ca passari lu fà
Pi la luna e pi li stiddi
Pi li santi piciriddi
La madonna e li santi ni pruteggirà
La madonna e li santi n’accumpagnerà
La madonna e li santi ni pruteggirà
Ca lu ventu ca sciuscia ora passerà
Ca carmerà ca passerà
La madonna e li santi
La madonna e li santi passari lu fà

 

Antonio Smiriglia – Foto Charley Fazio

Antonio cosa ti attrae della musica popolare?
«Ero militare a Caserta. Lì iniziai ad ascoltare la Nuova Compagnia di Canto Popolare, le Villanelle napoletane, Roberto De Simone. Tornato a casa ho studiato la tradizione siciliana, mi incuriosivano i riti, come quello della mietitura, le canzoni che cantavano gli anziani contadini e i pescatori. Sentivo il bisogno di registrarli. Poi… me ne sono innamorato perdutamente. Per questo scrivo e canto solo in siciliano, mi esprimo attraverso la mia lingua, che è vibrante, dagli accenti forti. Nei live mi trasformo, divento tutt’uno con la musica, la tradizione, la vocalità la gestualità, gli spettatori rimangano affascinati da tutto ciò».

Sei nato a Galati Mamertino, paese dei Nebrodi, e hai scelto di vivere qui…
«Sì, sono a mezz’ora dal mare, da Capo d’Orlando, e immerso nell’entroterra dei Nebrodi, un luogo meraviglioso. Sono sempre stato qui, come si dice: le battaglie si fanno sul posto. Avrei potuto andarmene a Roma o a Milano, ma ho preferito rimanere nella mia terra. Ho bisogno di questo posto, mi sento attratto, come se, dentro di me, ci fosse qualcosa che qui trova le pulsazioni giuste. Non riesco a spiegartelo, qui compongo, studio, faccio il musicista, sono me stesso, mi nutro di questo senso di appartenenza. La Sicilia, lo dico sempre, è bedda e maliditta: è un laboratorio a cielo aperto, un luogo che produce storie fantastiche. Ho un rapporto molto bello con lei, anche contrastato, ci sono le difficoltà che si conoscono. Insomma, la Sicilia o la ami o la odi. Qui ci sono molti talenti musicali completamente sommersi, che difficilmente riescono a uscire dai confini isolani. In Puglia, per esempio, è già diverso, grazie all’ormai più che decennale progetto Puglia Sounds, attraverso il quale gli artisti riescono ad avere una certa visibilità».

Oltre alla Sicilia, ti senti attratto da altri luoghi?
«Amo il Portogallo, è un altro posto dove le tradizioni sono ancora forti, ricco di storia di musica. Si Li Me Paroli ha tanto fado dentro».

È, dunque, un bel lavoro di World Music…
«Anche su questo sto molto attento. Fare World Music non significa semplicemente aggiungere uno strumento etnico. È un linguaggio che richiede la conoscenza di tempi musicali scomposti, di accostamenti fra strumenti e voce…».

Quali sono i tuoi ascolti?
«Peter Gabriel, Enzo Avitabile, David Bowie, The Smiths, Simon & Garfunkel. Poi ascolto di tutto, non ho barriere. Quello che non riesco a capire è il nuovo pop italiano. Non è nelle mie corde».

Sei laureato in legge, giusto?
«Sì ho anche fatto pratica. Poi – è un ricordo che non ho mai raccontato – un giorno in cancelleria, dove stavo depositando un atto, ho incontrato un giudice che mi aveva visto suonare e cantare in uno dei miei concerti. Mi disse: “Che ci fai qui? Questo non è il tuo posto, vai a fare Arte”. Così ho deciso una volta per tutte cosa sarei stato!».

Interviste: Mario Caccia, discografico sartoriale e musicista

Mario Caccia, 58 anni, fondatore di Abeat Records – Foto Fatima Batista

Anche per quest’anno ci siamo scrollati di dosso Sanremo. Ne sentiremo parlare di nuovo a fine dicembre, una tregua onorevole per depurarsi dalle sciatte canzoni che sono state imposte per una settimana. Ovviamente con qualche eccezione, vedi il bel brano di Giovanni Truppi ed Elisa e qualche riff  funkeggiante che risvegliava il torpore, mi riferisco a La Rappresentante di Lista… Per il resto big (ma quali?), appiattiti sul nuovo nazionalpop sempre uguale a se stesso, sfinitamente noioso.

Ciò mi permette di introdurre un tema – la cultura musicale – che nel paese della melodia e del lirismo s’è appiattito su uno pseudo rap diventato il nuovo pop. Non importa se non hai voce, se bisbigli non per pathos ma per mancanza di corde vocali e polmoni, se non riesci a prendere una nota. L’importante è rimanere in canoni strettamente vigilati per trarne guadagni, anche sostanziosi.

Non va bene, non va bene per niente. Così s’ammazza la cultura, così si isolano ancora di più quei tanti – eh sì, sono davvero tanti – che sanno suonare e cantare, che cercano percorsi diversi dal mainstream, che studiano perché credono nella loro arte. Artisti che quasi nessuno conosce ma che valgono mille festival in una sola canzone.

Alcuni giorni fa, ben prima di Sanremo, nel mio piccolo mondo di Musicabile ho avuto l’opportunità di intervistare Mario Caccia, il patron di Abeat Records, piccola ma pulsante casa discografica varesina che in catalogo ha per lo più jazz di alto livello.

Non è questione di fare gli spocchiosi, ma proporre buona musica è importante per lo sviluppo di un Paese, tanto quanto un buon libro, una pièce teatrale, una riflessione sulla nostra educazione e in prospettiva, sulla politica, l’economia e i grandi sistemi.

«La musica rientra nelle dinamiche della società contemporanea: tutto ciò che prevede il concetto di scambio viene trattato come commerciale. Promuovere una musica facile, già pronta, è dunque un cavallo vincente. Non ci si impegna e si guadagna», mi dice Caccia, che, oltre a essere un discografico è anche un bravo musicista jazz e pop, bassista per la precisione.

Mario, veniamo subito al punto: perché la buona musica quasi mai coincide con il mainstream?
«Perché la gente non ha gli strumenti culturali per poterla apprezzare. Prendi il jazz, per esempio, i grimaldelli per farlo conoscere sono pochi. Non bastano gli artisti e le case discografiche che li pubblicano. La musica d’avanguardia è, praticamente, sconosciuta. Secondo me è il combinato di due fattori: il fenomeno commerciale e la crescita culturale…».

Ok, essendo la musica un linguaggio – come mi spiegava Claudio Fasoli – se non lo insegni fin dalle scuole primarie, è difficile comprenderlo…
«È un cul de sac, non se ne esce. La storia ci insegna che ci sono fasi cicliche anche nella musica. Negli Stati Uniti, per esempio, il jazz negli anni Trenta del secolo scorso era considerato un genere leggero, snobbato. Il jazz delle grandi orchestre era il pop di quei tempi. Poi, però si è elevato. Perché s’è capito che non era una musica banale. Ogni Paese avanza in base al suo background culturale».

Mario Caccia con Franco Cerri – Foto Stefano Galvani

La cultura è sempre legata a dinamiche socio-politiche…
«In realtà, guardando alla politica, dovremo uscire dalla dicotomia o sei neo-liberista o neo-comunista. Bisogna andare oltre: stiamo vivendo una crisi che se definiamo democratica non si è lontani dalla verità. Ed è una “policrisi”, anche la musica subisce le bordate a destra e a sinistra. L’America ha un suo tessuto culturale, tanto che il jazz da anni è mainstream. In Italia è diverso, abbiamo un ritardo notevole di esperienze e culture musicali. Sempre parlando di jazz: guarda il Nord Europa è avanti, sperimenta, ascolta. Da noi episodi troppo moderni fanno scomparire gli ardori. Il nostro è un Paese vecchio demograficamente e non solo. Tutto di conseguenza è interconnesso, politica, cultura, arte».

Un Paese che non riconosce più il valore di certa musica (classica, lirica, jazz anni Cinquanta, cantautorato anni Sessanta e Settanta…) e che rifiuta di ascoltare cose nuove, per inerzia, pigrizia, avvento del digitale, s’è appiattito: ascolti svogliati e di facile presa…
«Lo streaming ha cancellato una selezione che veniva fatta inizialmente dalle case discografiche, nel bene e nel male. Si è chiusa un’epoca: sento spesso materiale poco significativo. Non è decadenza, ma abbassamento qualitativo. Materiale un po’ meno convincente anche se ben suonato… Abbiamo musicisti d’oro ma musica d’argento…».

Eppure ci sono etichette coraggiose, vedi la Tŭk Music di Paolo Fresu o la stessa Abeat. Investite molto sui giovani, e giustamente…
«Credo si debba rischiare qualcosa in questo mestiere. Già è titanico produrre un nome affermato, figurati dei giovani artisti per lo più sconosciuti!».

E arriviamo ad Abeat…
«Sono sempre stato un musicista atipico, borderline. Una ventina d’anni fa mi trovavo in una serata tra amici che si stavano lamentando delle etichette discografiche allora in auge, incapaci di interpretare le esigenze degli appassionati di certa musica. Così richiesero: “Mario, perché non la fai tu un’etichetta?”. Ho pensato e mi son detto, “perché no?”. Iniziai con due dischi che ebbero una certa eco. Renato Sellani nel 2001: il grande pianista in quel periodo era stato un pochino dimenticato. Pubblicai Il Poeta, in quartetto con De Aloe, Moriconi e Bagnoli. Mi piace pensare di aver avuto un ruolo nel suo rinnovato successo. Quindi, sempre lo stesso anno, Prism, di Don Friedman in trio con Marco Ricci e Stefano Bagnoli…».

Mario raccontami il tuo capitolo di musicista…
«Ho studiato contrabbasso classico che ho dismesso per il basso elettrico. Suonavo musica leggera, di intrattenimento. Il jazz è venuto dopo, l’ho scelto per rispetto e stima, una specie di sudditanza psicologica verso quegli artisti che si divertivano a fare improvvisazione, nella musica pop non si poteva. Mi incuriosivano. Così mi sono dato al jazz. Qualche amico ancora oggi mi coopta a suo rischio e pericolo! Bisogna essere sinceri con sé stessi: sono un musicista piuttosto anarchico. Ho un discreto talento ma uno scarso impegno…Insegno basso in una scuola di musica e cerco di lasciare molta libertà interpretativa ai miei allievi».

Il premio che a gennaio hai ricevuto da TopJazz per Next, il disco di Claudio Fasoli, è un bel riconoscimento…
«Sì, la testimonianza dei vent’anni di lavoro di Abeat Records. E poi sono molto contento per Claudio, sta ottenendo attestati e fama. Per me, diciamo che contribuisce a fare curriculum, come si dice oggi!».

Tra gli artisti nuovi che pubblicherai?
«Ce n’è una che è davvero brava. Si chiama Aura Nebiolo, è astigiana e ha uno straordinario talento, è una musicista completa, canta, compone, arrangia, usa la voce come uno strumento. Ne sentiremo parlare molto…».

Brunori Sas e la sua “Ode al Cantautore”: così è il mercato…

Può un artista zippare nel testo di una canzone di 3 minuti e 16 secondi un graffiante ritratto della musica italiana? Se si tratta di Dario Brunori (Sas) sì. Eclettico quanto basta, intelligente, provocatorio, una gran bella capacità di scrittura e altrettanta di mettere in musica i suoi pensieri, mai scontato, ha pubblicato una settimana fa un Ep, che richiama  il precedente disco Cip! uscito nel 2020. 

Il titolo è Cheap! Che in inglese significa “economico”, costato poco (visto che se l’è scritto, musicato, cantato, suonato e registrato tutto da solo a casa sua a dicembre, albero di Natale addobbato lo testimonia!), ma che sta anche per Cinque Hit Estemporanee Apparentemente Punk, acronimo divertente quanto carico di pensieri sul nostro stare al mondo, appiattiti e uniformati.

Il brano di cui vi sto parlando l’ha chiamato Ode al Cantautore ed è la perfetta fotografia del mercato discografico d’oggi. Un ragionamento che avevo fatto con molti, da Tommaso Novi a Cisco, per ricordare le interviste più recenti. Sentirselo dire così bene, vedere immagini così plastiche, stampate in 3D, merita questo post! Leggetela e ascoltatela. Anzi, leggete e ascoltate tutti e cinque i brani di questo Ep. Ne vale la pena… perché in fin dei conti siamo i figli di una balena che ha il cuore piccolo ed una bocca enorme

Suddito del Regno di Milano
Mi presento col cappello in mano
Mi inchino alla multinazional
che mi versa i danari per scrivere e cantare
Prono alla promo musicale,
mi vesto da giullare e inizia il baraccon

Visita alla radio commerciale
Col fido ufficio stampa da scudiere
In singolar tenzone con lo speaker piacione
A disquisir di ‘nduja e peperone,
Eh-eh-eh-eh-eh

Ode a Fabrizio De André
Di certo non uno come me
Che sono un surrogato, prodotto dal mercato
Che vive solamente di cliché-é-é

La giacca da impiegato e la barbetta
La montatura spessa e la panzetta
Quell’aria un po’ sinistra da vecchio socialista
E l’ironia un po’ catto-comunista,
Ah-ah-ah-ah-ah

Ode a Francesco De Gregori
A me sempre affiancato da tutti i detrattori
Perché, l’ho detto,
sono un surrogato,
voluto da un mercato

Che vive di cliché, o di cachet
O di cachet, o di cliché

Poi parte la crociata in Feltrinelli
Palermo poi Milano ed i Castelli
Fatece largo che passamo noi
Che semo li poeti, che semo i nuovi eroi

Cantiamo della vita e dell’amore
Però poi, sotto sotto, ce piace il disco d’oro
(Il disco d’oro, il disco d’oro)
Ma per avere il disco d’oro
(E per avere il disco d’oro)

Centomila copie da firmare
E centomila foto da scattare
E dal calar del sole, ci scappa una marchetta
‘O cellulare, ‘o jeans e ‘na maglietta,
Ah-ah-ah-ah-ah

Ode al buon vecchio Lucio Dalla
Nel suo profondo mare io sembro un morto a galla
Perché, l’ho detto, sono un surrogato,
voluto da un mercato

Che vive di cliché

E daje de tacco, e daje de stinco
Quant’è bono ‘sto Premio Tenco
E daje de tacco, e daje de mente
Quant’è bono ‘sto Nastro d’argento
E daje de tacco, e daje de coro
Quanto so’ boni i diritti d’autore
Perché so’ senza IVA,
nun so’ come er baccalà
Perché so’ senza IVA,
nun so’ come er baccalà, cha-cha-cha!

Riflessione su musica e videoclip: una coperta di Linus o un… booster?

Musica e video godono di un rapporto privilegiato. Entrambi trasmettono segnali, emozioni, raccontano storie. Di questa relazione passionale il business della musica se n’è accorto già da molti anni e ci è andato giù determinato. Ci siamo abituati ai videoclip, non esistono praticamente brani senza una storia filmata. La mia riflessione di oggi, vuol essere una provocazione.

All’inizio erano gli stessi musicisti ad apparire cantando, suonando in playback, poi, via via, con una dicotomia sempre più evidente, il video è diventato altro, una storia a sé, raramente piccoli gioielli da cineteca, il più delle volte brevi sceneggiature sul significato del brano, altre, animazioni oniriche, altre ancora, invece, riempitivi ad… “arnese” buffo.

Ve ne sto parlando perché, ultimamente, forse effetto della pandemia e del modo di vivere adottato in questi due anni, mi stanno arrivando sempre più richieste di recensioni di lavori ma con un accento virato non tanto sulla qualità musicale, quanto sulla bellezza o il significato del video allegato al brano. Normalmente si tratta di “singoli”, ne stanno uscendo a palate, corredati di questa o quella clip, realizzata da questo o quel videomaker…

La domanda che mi faccio ogni volta che apro la mia casella di posta è la seguente: ma se in una nuova produzione è più importante il video piuttosto che il brano che l’artista presenta, due son le cose, o il filmato è più bello, innovativo, interessante del brano, oppure l’artista ha bisogno di un booster (in questo caso la clip) per essere “ascoltato”… Comunque: perché uno che si occupa di musica deve parlare di cinema?

Non voglio apparire saccente, non è proprio il mio caso, anzi, se c’è uno che si pone mille domande prima di consigliare un disco o un ascolto quello sono io, ma registro che, ormai da troppi anni, ci sia un problema nella musica proposta.

Con fatica sto cercando di mostrarvi un livello musicale, soprattutto nel nostro Paese, alto. Musicisti che non hanno necessità di un “aiutino” visivo per fare breccia su chi ascolta. Anzi, un video sarebbe come togliere fantasia ed emozioni al brano che si sta ascoltando. La bellezza della musica sta proprio nel far sì che l’ascoltatore la interiorizzi, la faccia propria secondo le emozioni che le note in quella determinata sequenza vengono recepite da ognuno di noi. La musica è per tutti ma è anche un affare maledettamente personale.

Sono arrivato a questa conclusione: un video non si nega mai alle super rock/pop/rap/trap/star, che possono permettersi investimenti importanti. Ma un video non si nega nemmeno a chi, qualunque genere esso si dedichi, ha poca sostanza, ha un sapere musicale magari appiccicaticcio… le immagini risultano, più che una storia, un’ulteriore “alterazione di sensazioni” che servono a spingere la canzone.

La buona musica c’è, eccome se c’è! Basta saperla cercare al di là dei cotillon che vengono serviti tutti i giorni. Andare alla sostanza dell’emozione è uno dei miei obiettivi del 2022. Spero di condividere con voi questa sensazione.

Chiudo ricordandovi che nel prossimo post di venerdì vi parlerò di Worldmusic in Italia, più precisamente, in Abruzzo! A presto…

Dieci dischi degni di nota del 2021 – Seconda parte

Eccovi serviti gli altri cinque dischi degni di nota dell’anno appena trascorso. Come vedrete, troverete alcuni grandi nomi, graditi ritorni, ma anche una trombettista australiana decisamente “superior” e un pianista (italiano) che ha composto uno degli album più interessanti dei tanti ascoltati, per pianoforte, del 2021. Spero di farvi cosa gradita. Mettetevi comodi e cuffie pronte…

La Linea Del Vento – Alessandro Deledda – 30 aprile 2021

Perugino di nascita e formazione ma sardo d’origine, Alessandro Deledda ha composto e prodotto la sua Linea del Vento. Un vento che spira e porta al mare, a una barca che gonfia le vele e va dove la musica e i pensieri hanno deciso di spingersi. Alessandro l’ho intervistato nel giugno dello scorso anno dopo aver ascoltato il suo intenso viaggio nell’oceano della sua memoria. Un album scritto di getto, una sessione di un pomeriggio trascinato in sala di registrazione dal suo fonico con al scusa di provare nuovi microfoni. Il risultato, dopo ore e ore di composizione ininterrotta, è questo album che lui, in modo molto poetico ma anche pratico ha battezzato, appunto, La Linea del Vento. Di formazione classica («la classica è il Pin della musica», mi disse), nelle sue composizioni si trova jazz, rock (è da sempre un appassionato dei Metallica, dei Pink Floyd, dei Depeche Mode), musica elettronica con cui si diletta in un progetto parallelo, dunque, una fusion sistematica. Così mi ha descritto l’album: «Madreterra è una dedica alla mia terra d’origine, la Sardegna (le mie origini sono a Pattada), Ginevra, invece è una cagnolina che ho adottato. Come Charlie Was Here, brano dedicato al mio vecchio amico a quattrozampe che non c’è più. L’ultimo brano del disco, quello più “jazz”, Have You Met Mr. Pongo?, è nato pensando all’altro cane che ho, un trovatello pure lui. Amo gli animali, infatti, una parte del ricavato delle vendite del disco andrà a un’associazione animalista. Gino e l’Olivo, invece, è il ricordo di un anziano agricoltore. Insomma, quando ho suonato in quelle tre ore e mezza, ho davvero ripercorso i miei pensieri più profondi che ho associato a melodie. È la mia linea del vento…». 

Delta Kream – The Black Keys – 14 maggio 2021

Dan Auerbach e Patrick Carney, i The Black Keys, hanno deciso di ritornare al loro biberon musicale, rivedendo pezzi storici del Blues, brani di mostri sacri del genere, come il sommo R. L. Burnside (a proposito, il 25 giugno è uscito un disco roots molto interessante del nipote, Cedric Burnside, I Be Trying), di Junior Kimbrough o di Fred “Mississippi” McDowell, trasformandoli in brani con incursioni rock. Il risultato è un disco che mi è piaciuto perché è un onesto omaggio al genere che ha contribuito non poco a farli diventare famosi, impreziosito dalla chitarra slide (onnipresente) di Kenny Brown e dal basso di Eric Deaton. Molti si sono domandati se fare un disco con brani capisaldi del Blues non fosse un po’ troppo pretenzioso, visto che, ad esempio, per Poor Boy a Long Way From Home di Burnside, ci sono versioni strepitose, una per tutte quella di Howlin’ Wolf, come ha fatto giustamente notare Rolling Stone Usa. I due – diventati per l’occasione quattro – ci sanno fare. È il loro punto di vista, la loro interpretazione, il loro omaggio. Ed è per questo che vanno presi e ascoltati. Anche perché, vale ripeterlo, il lavoro “di fino” che fa Kenny Brown merita da solo l’acquisto dell’album: basti mettere in cuffia Going Down South: il chitarrista con bottleneck all’anulare viaggia in perfetta sintonia con la voce sottile di Dan Auerbach. Musica da strada, sotto il sole, dovunque voi siate…

Portas – Marisa Monte – 2 luglio 2021

Marisa Monte la seguo da sempre, è una delle voci brasiliane inconfondibili, un’artista che ha tante cose da dire e mai banali, una musicista completa che compone, arrangia, produce. Uno spirito libero perennemente impegnato. All’uscita di Portas l’ho intervistata. Io me ne stavo sotto i quaranta gradi del Salento lei nella sua “invernale” Rio de Janeiro… Se avete voglia di leggerla andate a questo link. Da quella lunga chiacchierata, mi rubo alcuni passi che ho scritto allora… Un album composto da 16 tracce, un racconto, per chi la conosce, che ha del cinematografico. Sedici brani che catturano, conquistano, raccontano storie. In Portas c’è amore, romanticismo, passione, tristezza, allegria, speranza, futuro. Se dovessi fare un paragone, è come vedersi un film alla La La Land. Basta ascoltare Portas, brano che dà il titolo all’album, per capire quale sia la direzione del nuovo lavoro della Monte. Qual é a melhor?/ Não importa qual/ Não é tudo igual/ Mas todas dão em algum lugar/ E não tem que ser uma única/ Todas servem pra sair ou para entrar/ É melhor abrir para ventilar/ Esse corredor… Qual è la porta migliore? si chiede. La risposta arriva subito dopo: non ha importanza quale sia, non è tutto uguale. Ma tutte le porte aprono in un qualche posto. E, non necessariamente deve essere una porta sola, tutte servono per uscire e per entrare. È comunque meglio aprire per far cambiare aria a questo corridoio… Metafora dei tempi correnti. Se volete entrare nel samba, pieno, soffice e sostanzioso, con la collaborazione di Pretinho da Serrinha, ascoltatevi Elegante Amanhecer, brano dedicato alla Portela, scuola di samba carioca, di cui Marisa è sostenitrice, tra cavaquinho, cuica e surdo: Foi lindo de ver a Portela/ O sol raiando/ Elegante amanhecer/ Seu canto ecoou na passarela/ Auê auê salve o samba, salve ela… Tante le collaborazioni che Marisa ha voluto nel disco, da Arto Lindsay ad Arnaldo Antunes, l’ex Titãs, con  lui e Carlinhos Brown hanno creato i Tribalistas… Per proseguire con il bassista Dadi Carvalho o il polistrumentista Marcelo Camelo dei Los Hermanos. Ah, c’è Anche il mago Arthur Verocai che ha arrangiato i brani assieme ad Antônio Neves e Camelo. Il Brasile che mi piace…

Gullfoss – Nadje Noordhuis – 21 settembre 2021

Gullfoss è l’ultimo lavoro di Nadje Noordhuis. Australiana, 41 anni, da molti anni a New York, suona la tromba e il flicorno. Quello che riesce a ottenere è un suono pieno, caldo, struggente e anche… estremamente rilassante. Il disco è uscito in cd il 21 settembre, ma in vinile è stato pubblicato a tiratura limitata nel 2019, ed è la registrazione di un live suonato dalla Noordhuis nel 2018 al Musig im Pflegidach di Muri, in Svizzera, accompagnata dall’arpista Maeve Gilchrist che, per inciso, è stata per un periodo anche sua coinquilina a New York, il chitarrista Jesse Lewis e il bassista Ike Sturm più i tappeti sonori con i sintetizzatori, la batteria e le percussioni di James Shipp, polistrumentista che ha suonato anche con Sting. Insieme fanno il Nadje Noordhuis Quintet, un gruppo affiatato che riesce a trasmettere sensazioni non scontate, in un lavoro ispirato alla Natura e alle sue molteplici forme d’espressione. A tratti ricordano gli islandesi Sigur Rós, per poi aprirsi in atmosfere alla Pat Metheny. Ascoltatevi Indian Pacific, un arpeggio continuo e fluido come le onde del mare di Maeve Gilchrist e della chitarra di Jesse Lewis che fa da base a una struggente melodia che riporta all’emisfero d’origine della Noordhuis. In Silverpoint, altro brano parecchio interessante, la musicista riesce a fondere pattern elettronici con una chitarra che, nel finale, assume toni decisamente rock. Gullfoss, la composizione che dà il titolo all’album e che richiama la famosa cascata islandese, è l’ultimo “messaggio”: attacca con il basso a cinque corde di Ike Sturm, martellante, per poi portarci in un mondo fatto di magici momenti. Un lungo viaggio di emozioni…

Live from Blackalachia – Moses Sumney – 10 dicembre 2021

Che dire di Moses Sumney? È uno dei miei artisti preferiti, un innovatore, un visionario, uno che usa e fonde l’elettronica, la sperimentazione sonora (con quella voce che si ritrova!), il rock, il jazz… in altri tempi sarebbe stato definito un situazionista. Infatti, in questo live “solitario” senza pubblico, registrato nel 2020 in piena pandemia sui monti Appalachi nel North Carolina assieme ad altri musicisti compagni di viaggio, vicino alla città dove vive, Moses ha costruito un ambiente ideale per dare vita a un film (da lui diretto) e a un concerto che racchiude brani dagli album Aromanticism e Grae, per fondere Space, Nation Race, Place come canta lui stesso. Un nuovo ambiente, Blackalachia, dove poter “abitare” le arti, la natura e la tecnologia, ricostruito nella testa dell’artista e dato in visione via We Transfer al mondo per trasmettere il verbo. Il disco, che riporta le 14 tracce del live, è una summa dell’arte di Sumney, musicista, regista, creativo, mago che canta sospeso al tramonto, mentre il sole si nasconde dietro i monti e lui dondola nel vuoto interpretando Plastic, uno dei suoi brani più intensi. Tra i quattordici proposti, c’è anche Polly, l’ultima canzone del disco, a cui sono particolarmente affezionato e che trovo bellissima, fatta quasi a scomposizione di bossanova, il riassunto dell’arte scarna ma allo stesso tempo densa di Moses… Album da ascoltare e da meditare!

Crocodile Rock: musica e animali nel libro di Ezio Guaitamacchi e Antonio Bacciocchi

Ho acquistato un libro uscito qualche giorno fa per Hoepli. Si intitola Crocodile Rock e gli autori sono due conoscenze solide per chi ama la musica, Ezio Guaitamacchi, musicologo, musicista, entertainer, un decano del giornalismo musicale (come si legge nella terza di copertina) e direttore della collana musicale della stessa Hoepli, e Antonio Bacciocchi, scrittore, musicista e blogger, batterista rock con l’aplomb del mitico Charlie Watts.

Entrambi hanno in comune la passione per il rock e per gli animali, Ezio con i suoi tre cagnolini, Dylan Joni e Taylor, e Antonio con il suo pastore tedesco Grimm. I loro compagni a quattro zampe amano la musica e il rock. Anch’io ho una piccola amica, Lili, che è la mia ombra da tredici anni. Lavoro ascoltando musica, sempre. Lei, accoccolata sul cuscino ai miei piedi, ascolta, occhi aperti, tutto…tranne il rap. Che ci volete fare… frequenze disturbanti per il suo udito.

Ma torniamo al libro. Oggi alle 16 i due autori lo presenteranno a Milano alla Cascina Nascosta, parco Sempione. Chi vorrà venire – e vi consiglio di esserci – potrà portare i suoi animali di compagnia. Un bell’inizio! Il libro, che ho letto d’un fiato, è talmente ricco di aneddoti, storie, curiosità che ti attrae e non ti molla. Diviso in sei parti, con una preziosa prefazione di Laurie Anderson, spiega il rapporto tra musica e natura, l’evoluzione umana e animale attraverso il suono come comunicazione principale. Quindi, passa a storie che legano artisti ad animali, brani che hanno fatto la storia del Rock legati a cani, gatti, persino pappagalli, ma anche rocker impegnati nelle battaglie per le preservazione delle specie, e tante amenità dove, per esempio, zio Ozzy (Osbourne, ovvio!) entra di diritto… 

Ho intervistato via streaming i due autori, ci siamo fatti una gran bella chiacchierata…

Come vi è venuto in mente di creare Crocodile Rock?
Ezio – «È nato tutto un paio di anni fa nel mio studio, qui in Hoepli. Antonio era venuto per propormi alcuni titoli che, sinceramente, non erano compatibili con la mia collana. Lui, con la coda tra le gambe – per rimanere in tema – si stava avviando verso la porta dell’ufficio, quando Joni (prende in braccio una cagnolina bianca e me la presenta, ndr) e il suo fratellino Taylor gli si sono avvicinati per annusarlo (Antonio, da sempre ha avuto cani). Lui si è fermato, e ha giocato il jolly che le aveva raccomandato sua moglie Rita: “Ho raccolto un sacco di informazioni, di dati, di storie sul rapporto tra musica e animali. Ti può interessare?”. L’ho guardato e in un attimo eravamo seduti a parlarne! Il libro è, dunque, una sua idea, lui ha raccolto tutto il materiale, io mi sono limitato a fare il regista, che poi è il lavoro che faccio come direttore di collana. Però mi ha tirato dentro perché, in tempi andati, nel 1990 e 1991 ho organizzato a Milano un festival che si chiamava Musica&Natura sotto l’egida di Greenpeace, ero anche nel consiglio direttivo dell’ong. Ho fatto in modo che oltre a tutto il materiale che aveva raccolto Antonio ci fosse anche una parte sulle origini del suono. Non ce lo ricordiamo spesso, ma l’uomo ha imparato a cantare, suonare,  addirittura a parlare imitando il canto degli uccelli, l’incedere del galoppo dei cavalli… Ho cercato di selezionare le informazioni di Tony e di trasformarle in storie. A un certo punto Antonio mi ha detto una cosa molto carina: “Il libro ha preso una piega giusta anche grazie a te ed è corretto che tu sia coautore e non solo il curatore”».

Antonio – «Confermo tutto! Sono stati due anni di lavoro quasi quotidiano, il materiale era tantissimo e di svariata natura. Ne trovavo di nuovo che a sua volta mi rimandava ad altro. Era necessario un regista, che Ezio ha fatto benissimo. C’era talmente tanto materiale da pubblicare due o tre libri. E poi, essendo nato, cresciuto, e vivo tuttora, nella campagna piacentina, da sempre ho avuto animali domestici e, ultimamente anche non, visto che nel mio paesino si sono affacciati cinghiali, caprioli e anche un lupo. Essendo un musicista, appassionato di musica è stato naturale accostare le due cose. Lo spunto finale me l’ha dato mia moglie, all’inizio pensavo fosse banale, ma solo apparentemente. In realtà, oltre a quello che ha detto ora Ezio, nel libro si va ad approfondire anche quegli artisti che hanno preso spunto per le loro canzoni dai loro animali. Ci sono brani dedicati ai loro animali, spesso li hanno riportati anche in copertina, mentre altri hanno utilizzato l’animale come metafora per significare qualcosa di molto più profondo. Ad esempio, Blackbird dei Beatles: sembra dedicata a un uccello che vola, ma in realtà Paul McCartney l’aveva composta per supportare  i diritti civili degli afroamericani nel 1968».

Il titolo del libro richiama un brano famosissimo di Elton John…
Ezio – «Rimanendo su quanto stava dicendo Antonio, Crocodile Rock, è metaforico. Nel senso che è un atto d’amore di Elton al Rock delle origini. In quegli anni, nei Cinquanta, i musicisti jazz tra loro si chiamavano Alligator, c’era la famosa frase, un saluto, See you later allegator con la risposta In awhile crocodile! Il titolo del libro è evocativo, ma il sottotitolo è sufficientemente chiaro (storie aneddoti, curiosità e tutto ciò che unisce musica e animali, ndr) e senza suonare presuntuosi, credo non esista nessun libro al mondo che racconti tutte le connessioni tra musica e animali in un modo così completo. Grazie ad Antonio anch’io ho scoperto molte cose interessanti. Non sapevo che i Ragni di Marte di David Bowie in realtà sono stati ispirati a un evento accaduto in Italia negli anni Cinquanta, o che il cagnolino di Dolly Parton le ha salvato la vita, o che il gatto che è in copertina di fianco a Carol King in Tapestry, un album che ha segnato tutti noi e che fu un best seller pazzesco – per anni è stato il più venduto della storia – fosse comparso lì per caso mentre il fotografo stava scattando!».

Antonio – A proposito di ricerca: molto è stato fatto incrociando dati su internet, ma abbiamo dovuto affidarci molto alla nostra memoria, magari ricordandoci di aver letto qualcosa, relegato in un angolo di un libro o in una copertina di un disco. Insomma, un lungo lavoro deduttivo».

Ezio Guaitamacchi

Tra le tante narrazioni di questo libro, mi avete fatto ricordare di quel disco incredibile, Song Of The Humpback Whale, il canto delle megattere registrato da Roger Payne, ricercatore bioacustico, negli anni Sessanta…
Ezio – Mi fa molto piacere che tu abbia nominato Payne e il suo esperimento, perché mi permette di parlare di un musicista, Paul Winter, un sassofonista che ho avuto l’onore di conoscere quando lo feci venire in Italia per quel festival che avevo organizzato. Lo portai anche in Rai, opsite in un programma di Mino Damato, Alla ricerca dell’Arca. Con Stan Getz è stato il primo a fondere la musica brasiliana con il jazz. Dopo aver ascoltato le registrazione di Roger Payne, fondò un’etichetta chiamata Living Music, dove mise in piedi dei veri e propri duetti tra il suo sax soprano e il canto delle balene, l’ululato dei lupi, il barrito degli elefanti. Poi aggiunse una band, il Paul Winter Consort, da cui poi nacquero gli Oregon, Ralph Towner, Paul McCandless erano suoi musicisti. L’ho ascoltato anch’io il canto delle balene, attraverso un sonar in una nave di Greenpeace nelle acque bellissime della Hawaii: è struggente. Gli studi di Payne e di altri scienziati hanno dimostrato che la struttura dei canti delle megattere è clamorosamente uguale a quelle dell’uomo. Per la prima presentazione del libro alla Cascina Nascosta seduto sul divano con mia moglie stavo cercando al computer canti di balena da proporre. Il mio cagnolino Taylor ha drizzato le orecchie e s’è messo all’ascolto con interesse. Mia moglie, che è molto più esoterica di me, ha trovato in questo comportamento un linguaggio universale, io credo che sia una questione di frequenze…».

Veniamo alla prefazione di Laurie Anderson. Lei parla della sua esperienza e di quella di Lou Reed con la trovatella Lolabelle…
Ezio – «È stato un privilegio la sua testimonianza. Un altro mio cagnolino che non c’è più aveva partecipato al suo Concerto per Cani che da anni porta nei palchi di tutto il mondo. È stato incredibile. Laurie ha la capacità di provocare reazioni negli animali che sono uniche, ti trasmettono poi, a loro volta, come ascoltatore e auditore, emozioni incredibili».

Il libro, oltre a queste esperienze profonde ha anche molti aspetti divertenti…
Antonio – «Esatto, ci sono tanti aneddoti semplicemente curiosi e anche buffi. Sono un mezzo per fare propedeutica ed educazione: chi si accosta alla lettura per passare qualche ora in modo leggero o perché è appassionato di animali, trova anche elementi più “seri” come ad esempio Paul Winter e la sua musica, o dischi di cui non aveva mai sentito parlare. Sarebbe bello trascinare il lettore nel nostro mondo magico della musica in cui siamo persi da decenni».

Insomma, alla scoperta della musica attraverso gli animali e viceversa…
Ezio – «Ho scoperto, per esempio, che una delle canzoni più famose sugli animali, Nella Vecchia Fattoria, ce la ricordiamo cantata magistralmente dal Quartetto Cetra, e credo si insegni ancora oggi all’asilo, è stata cantata da Ella Fitzgerald, Frank Sinatra (il titolo originale era Old MacDonald Had A Farm, ndr) o Elvis Presley, in un rock’n’roll eccezionale».

Antonio Bacciocchi

Venendo agli animali: fanno musica, ma l’uomo si è servito di loro anche per farli diventare strumenti musicali…
Ezio – «Certo! Pensa alle api. Sono stati costruiti strumenti per imitare il loro ronzio. Ma l’uomo da sempre ha anche usato gli animali per costruirsi strumenti musicali. Considera le pelli per i tamburi, le conchiglie che vengono usate per strumenti a fiato, i crini di cavallo per gli archetti del violino. Li abbiamo chiusi in un box, perché entriamo in un altro mondo, l’organologia, che non era il tema di questo libro. L’uomo continua ad avere rapporti quotidiani con il mondo della natura colori, odori, suoni che essa stessa produce. Mi ricordo, non l’ho inserito nel libro, un’avventura nella foresta amazzonica. C’era la guida che parlava una lingua a me sconosciuta, con qualche parola spagnola e inglese. Era una “caccia alla tarantola”, così l’aveva definita. Sembravamo dentro un episodio di X-Files con quelle torce in mezzo agli alberi, nel buio più assoluto. La guida ci fece capire di spegnere le torce e rimanere in silenzio. Per fortuna avevo un registratore: nella notte nera ho ascoltato eregistrato un concerto di suoni di ogni tipo, un’emozione che non dimenticherò mai più».

Antonio – «Sempre a proposito del rapporto scienza-musica-animali, la scienza ha restituito alla musica attraverso gli animali un certo favore: anche se si tratta di molluschi, fossili, forme di vita minuscole, animali non particolarmente nobili, ma che portano il nome latino di David Bowie, Mark Knopfler, un paio di vermi sono dedicati a Guccini. Penso che per un musicista sapere che c’è una forma vivente a lui dedicata sia piuttosto appagante».

Ezio – «Credo che più che per il musicista lo sia per la musica, soprattutto Rock. Fa capire come questa forma di arte che spesso è stata considerata controcultura o, peggio, una sottocultura, anche attraverso gli esempi fatti da Antonio, a una medusa che porta il nome di Frank Zappa o una vespa quello di Beyoncé, fra trecento anni si parlerà di questi personaggi come delle grandi eccellenze della razza umana alla stregua di Beethoven o Mozart».

Interessante, anche perché gli animali sono stati usati volontariamente o meno come mezzi nelle performance di artisti. Vedi il famoso pipistrello addentato da Ozzy che lo credeva un animale di plastica, o il pollo lanciato verso il pubblico da Alice Cooper che fece una fine tragica…
Antonio – «Nel libro ricordiamo gli ZZTop che avevano organizzato una serie di concerti dove volevano rappresentare il Texas, stato da dove provenivano. Oltre a cactus e rocce si portarono dietro serpenti a sonagli, bisonti e altre specie animali. Il che fu tutto molto spettacolare ma problematico da gestire, oltre ai musicisti, che a quei tempi ci davano dentro, c’erano anche gli altri animali!»

Siete vegetariani o vegani?
Ezio – «Ammetto di no, ho grande rispetto e stima per chi lo fa. Cerco semplicemente di fare una dieta il più possibile morigerata. Non fumo più non prendo droghe non ho mai bevuto e faccio sport».

Sei perfetto Ezio!
«Quasi, quasi… Se mi togli anche lo sport sarei rovinato! Devo dire che a volte me lo chiedo, e la frase che ricorre nel libro di Paul McCartney: “Se i mattatoi avessero le pareti trasparenti nessuno mangerebbe più carne” fa riflettere. Avendo frequentato anni fa il mondo no profit rimasi molto colpito dal trattamento industriale riservato al mondo animale. Non è più il tempo delle caverne, mors tua vita mea. Allo stesso modo non mi piacciono quelli che colpevolizzano».

Antonio – «Sono stato macrobiotico e vegetariano per un periodo. Vivendo in pianura Padana se tu non assaggi i salumi vieni crocefisso. Per cui, cerco di evitare il consumo di carne, ma non sono rigoroso. Non ho mai fumato, mai preso droghe, faccio sport, infatti mi vedi così magro perché, te lo dico, lo sport fa malissimo!».

Roma, alla Casa del Jazz un weekend con Luca Ciarla e il suo Tintiland

Luca Ciarla – Ritratto di Paolo Lafratta

Tintiland. Una crasi per “la terra del Tintilia”, vitigno autoctono molisano dal quale si ricava un vino che ha il colore del rubino, ma anche i profumi e i sapori di una terra poco conosciuta. Non preoccupatevi, non sono passato al turismo enogastronomico. Ma, come spesso accade, la musica c’entra (eccome) anche qui.

Innanzitutto perché la tre giorni di Tintiland si terrà a Roma alla Casa del Jazz, ma soprattutto perché chi l’ha organizzata è la Violipiano Music (coadiuvata da Michele Macchiagodena, direttore artistico del Termoli Jazz Festival, e dall’associazione culturale Jack), impresa fondata vent’anni fa a Hong Kong da Luca Ciarla, musicista di fama, errabondo per scelta, audace nelle sue sperimentazioni musicali e tenace nel diffondere la cultura di una terra piccola ma espressiva.

Leggo il perché di Tintiland spiegato sul comunicato stampa dallo stesso Ciarla: «Siamo cittadini del mondo, soprattutto in questo periodo nel quale esserlo può significare salvarlo, il mondo. Però le radici ce le portiamo dentro, nel cuore e nella mente – e le nostre diversità generano un’enorme ricchezza, senza effetti collaterali. Tintiland nasce per promuovere una terra che sa conquistarti».

Essendo curioso di carattere e professione, l’ho contattato alla vigilia dell’inaugurazione che sarà quest’oggi.

Luca, vino rosso, Tintilia in questo caso, e musica, bell’abbinamento!
«Lo puoi combinare con tante cose buone. Parlo della mia piccola regione, la musica, il grande schermo con Molise Cinema, il Teatro del LOTO (che sta per Libero Opificio Teatrale Occidentale, a simboleggiare un crocevia di esperienze, arti, e culture, ndr) di Ferrazzano, borgo a pochi chilometri da Campobasso. Il Molise è una regione molto semplice, avrebbe bisogno di una scossa…».

Però con il vino e la tua regione hai da tempo una forte connessione. Ricordo nel lontano 2005 avevi pubblicato un disco con un trio particolare, il Luca Ciarla Wine Jazz Trio…
«Vero, tanti anni fa! L’ho costituito a Hong Kong con due straordinari musicisti, il contrabbassista canadese Sylvain Gagnon e il batterista indiano Anthony Fernandes. Con loro suonavo il pianoforte. Ho vissuto a Hong Kong per tre anni, periodo in cui ho cercato di portare la mia cultura e le mie origini anche in Asia. Hong Kong è una città particolare e straordinaria ma anche faticosa. Già allora volevo far conoscere in questo emisfero il vino e la cultura della mia regione».

Fra l’altro un bel disco… A freddo: ma qual è la tua concezione di jazz?
«Potrei definirla anomala, anche se non so se la posso chiamare così! So che gli ingredienti della musica li voglio scegliere a chilometro zero. Per me l’essere un italiano e del Sud ha una valenza. L’approccio mediterraneo nella mia musica è presente, è importante. Il violino è presente nella tradizione ebraica ma anche in quella araba. Fare musica per me è misurarmi con tutto ciò».

La passione per la musica l’hai ereditata?
«Mio bisnonno aveva un’orchestra a Bari. A sette anni vidi per la prima volta il violino e ne fui attratto, così iniziai ad andare a scuola per imparare a suonarlo. Poi è arrivato il pianoforte, anche se, più che un secondo strumento, è lo strumento per eccellenza, imprescindibile se si vuole imparare la melodica di qualsiasi strumento».

C’è da dire che il linguaggio musicale ha catturato non solo te ma anche le tue sorelle…
«Hai ragione (ride, ndr). Siamo una famiglia musicale. Mio padre strimpellava la chitarra da autodidatta, però suonava Bach, Villa Lobos, insomma se la cavava. Mia sorella Giuseppina è una bravissima arpista, vive in Florida e dal 2002 è prima arpista al Sarasota Opera, è di formazione classica ma ama il pop e il jazz. E poi c’è Alberta, che di professione è avvocato ma che ha una gran bella voce…Insomma, sono cresciuto a pane, vino e musica».

Il violino è uno strumento raro, completo e forse per questo, immobile…
«È uno strumento talmente perfetto e bello da vedersi che s’è fermato nel tempo. Non ha seguito nuove strade. Essendo sempre stato un appassionato di jazz e di musica contemporanea, ho sentito la necessità di spingerlo verso altro. Grazie alla tecnologia lo posso usare come fosse un violoncello, un basso, un raddoppio della voce…».

Luca Ciarla nel suo solOrkestra – foto di Alexander Zubko

Proprio a TintiLand porterai questa sera alle 21 un concerto molto particolare, il solOrkestra!
«Sto facendo da tempo una sperimentazione per riuscire a diventare da solo un’intera orchestra. Non lo faccio perché è un bieco tentativo di non pagare i miei colleghi (ride e scherza, ndr) ma perché cerco di creare un percorso nuovo. Grazie a un’app sul telefono che mi permette di suonare con il corpo, ricreo suoni e percorsi melodici per me interessanti. Poi uso anche strumenti “giocattolo”, come il kazoo…Ovviamente non rinnego l’imponente storia classica del violino!».

Lo stai facendo da molto?
«Ho suonato in settanta Paesi nel mondo e in almeno cinquanta ho portato questo mio nuovo modo di intendere il violino, con un gran riscontro di pubblico e critica».

Quindi, non suonerai più con altri?
«Ma no! Suonare con altri bravi musicisti è una gioia immensa. La mia, oggi, è una ricerca di espressione».

Cosa ascolti ultimamente?
«Ascolto di tutto, perché è importante. Uno che sento sempre è il brasiliano Egberto Gismonti, secondo me un grande artista, sempre alla ricerca di nuovi confini musicali».

Prima di lasciarti, torniamo a TintiLand, qual è il senso di questa kermesse?
«Presentare cose belle, cose buone e incentivare la curiosità verso una piccola regione che, credimi, ha il suo perché. Ora sto abitando a Roma, ma da Termoli, la mia città natale, vedo le isole Tremiti, il mare, è una sensazione incredibile ogni volta che arrivo lì. E poi abbiamo anche altri personaggi da scoprire, ad esempio Jacovitti, l’autore di personaggi famosissimi, da Cocco Bill a Cip l’arcipoliziotto. I suoi diari (me li ricordo eccome!, ndr) hanno venduto più di dieci milioni di copie, un personaggio controverso, in realtà libero, che tutti volevano tirare dalla loro parte».

Chiudo con una raccomandazione: questo weekend chi si trova a Roma sa cosa fare! Alla Casa del Jazz per Luca Ciarla, questa sera, ma anche domani sera per Antonio Artese con il suo Voyagesuite per quartetto jazz con dieci sue composizioni originali e, domenica, per Francesca Tandoi Quartet, feat. Daniele Cordisco, con lo spettacolo Jac in Jazz con Stefano Sabelli (attore e fondatore del Teatro del LOTO). Musica e teatro dedicati a Jacovitti…