Arpa ed elettronica nella musica di Floraleda Sacchi

Floraleda Sacchi – Foto Andrea Sirtori

Oggi torniamo a parlare d’arpa. Strumento affascinante, mistico, che esiste da milioni di anni. Probabilmente il primo a pizzico, con tutta probabilità nato dall’arco usato per cacciare. Testimonianze di arpe esistono nell’antico Egitto, 5 mila anni fa, ma ce ne sono anche di più vetuste, di seimila anni fa, traccia trovata su un vaso sumero rinvenuto a Ur, nella bassa Mesopotamia. Non voglio narrarvi la storia dell’arpa, ma uno strumento così antico affascina, a maggior ragione perché è presente in molte culture e popolazioni, in vari modelli, forme e grandezze, dall’Africa, all’Europa, all’Oriente.

Grazie a ottimi musicisti, da anni l’arpa ha intrapreso un lungo viaggio verso nuove frontiere della musica. Basti pensare ad Andreas Vollenweider che ha portato l’arpa, elettrificandola, in una sorta di fusion mistica, la stessa che poi sarebbe stata chiamata “New Age” e che ora viene catalogata banalmente in “musica per rilassarsi”, a riprova di quanto siano perniciose le etichette! Vi avevo già parlato di arpa qualche mese fa, quando ho intervistato Beppe Dettori e Raoul Moretti per il loro disco Animas. 

L’occasione di un concerto che si terrà sabato 12 marzo a Milano all’Auditorium Di Vittorio, presso la Camera del Lavoro, in corso di Porta Vittoria 43, sempre nell’ambito della 27esima edizione dell’Atelier Musicale, mi dà modo di ritornare sull’argomento. Sul palco ci sarà Floraleda Sacchi, comasca, una delle nostre grandi arpiste italiane, per un concerto per sola arpa, tra Bach, Satie, Arnalds, Cacciapaglia, Einaudi e brani composti dalla stessa artista. 

Floraleda, studi classici al conservatorio, ha acquisito un suono personalissimo, grazie a una sua altra grande passione, la musica elettronica. Combinando arpa, elettronica, looper ed effetti applicati allo strumento (un’arpa preparata) riesce a ottenere suoni incredibilmente attraenti, puri, attimi onirici, percorsi che hanno un che di sciamanico. Ascoltate Canzone fra le guerre, bellissimo brano di Cristian Carrara, per arpa (lei) e voce, quella di Antonella Ruggiero dall’album Ludus (2018), oppure la splendida Oltremare di Ludovico Einaudi da Ludovico Einaudi by Floraleda Sacchi (2021), o, ancora Asturiana del compositore spagnolo Manuel De Falla, una delle Siete Canciones Populares Españolas per pianoforte e soprano, qui riproposta per arpa, fisarmonica e voce assieme alla bravissima Sara Calvanelli.

Il concerto di sabato è stato l’occasione per concordare con lei un appuntamento per una chiacchierata in streaming…

Floraleda Sacchi – Foto Marco Coppola

Musica classica, musica elettronica, arpa: un bel mix…
«Mi piace molto usare l’elettronica, c’è moltissimo spazio aperto alla creatività. Ho iniziato a sperimentare perché mi piace molto lavorare sul suono. Sono anni che mi dedico allo studio dell’arpa combinato con l’elettronica. Quest’ultima è un ottimo modo per costruire un proprio linguaggio. Quello che mi interessa è partire sempre da un’idea di suono naturale, una forma di “umanizzazione” della tecnologia».

Se dovessi definire la tua musica, diresti che…?
«Bella domanda! Continuo a suonare classica e poi… boh? La mia musica la scrivo per approcci sonori, mi piace creare mondi onirici, tendo ad andare in quella direzione. È una musica… sciamanica».

Che musica ti piace ascoltare?
«Ascolto di tutto, vado molto a periodi (ride, ndr). In questo momento sono in pieno “periodo brasiliano” ascolto, dunque, molta bossanova, Tom Jobim, Vinicius de Morães».

Hai pubblicato un album rivedendo Ludovico Einaudi, dal pianoforte all’arpa…
«Sì, ho usato un’arpa di cristallo che ho lavorato con granularizzatori per dare un colore diverso alla musica di Einaudi».

L’arpa di cristallo?
«È uno strumento composto da tubi intonati di cristalli di quarzo, viene detta anche arpa angelica per il suo suono. Si suona con particolari martelletti o con l’acqua, bagnandosi le mani, metodo che preferisco».

Ti prepari le basi prima di un concerto oppure lavori dal vivo?
«Entrambi, dipende da quello che devo suonare. Tendo a usare sempre meno i looper e privilegiare un’effettazione in tempo reale. Molte volte elaboro lo strumento a monte, con smorzatori delle corde. Uso anche l’archetto per ottenere i pad».

Ho visto che usci anche lo shrinti indiano…
«L’harmonium indiano a mantice mi serve quando devo usare dei bordoni, come, per esempio, nell’Asturiana che ho suonato con Sara Calvanelli…».

Brava la Calvanelli!
«Sì molto brava, e poi compone benissimo. Mi piacciono quei musicisti che condividono la mia visione di musica, come il flautista Fabio Mina o il pianista Francesco Tristano».

Floraleda Sacchi – Foto Galapono

Floraleda, come mai hai scelto l’arpa?
«C’era un disco che avevano i miei, aveva una cover impressionista, che mi attirava, mi piaceva guardarla. Era eseguita da un’arpista francese piuttosto brava. Poco alla volta mi sono innamorata del suono e dello strumento».

Fai molti concerti da sola…
«Dopo il conservatorio la scelta era entrare in un’orchestra sinfonica, cosa che ho fatto, ma mi annoiava molto, oppure suonare in formazioni più ristrette, musica da camera, più interessante. La verità è che suono spesso sola, mi piace. I miei concerti sono molto “user-friendly”, ho bisogno di avere il contatto con il pubblico, regalare bei ricordi, dare armonia. Non mi interessa spingermi in sperimentazioni e produrre suoni sparsi fini a se stessi».

Lavori molto all’estero?
«Sì, moltissimo in Spagna, ma anche in Germania, in Svizzera, nei Paesi Nordici. Con la pandemia non mi sono più mossa. Speriamo di ricominciare. Qui in Italia per noi artisti è stato difficilissimo. In Spagna, invece, non hanno chiuso i teatri, si continuava a fare musica con capienza dimezzata e pubblico distanziato. Lo stato risarciva i teatri per il pubblico mancante. In questo modo gli artisti spagnoli hanno lavorato tutti e molto, visto che gli stranieri non potevano viaggiare…».

Se siete a Milano, dunque, sabato 12 alle 17:30 andatela ad ascoltare. Ne vale la pena! Vi lascio il programma del concerto:

Johann Sebastian Bach: Preludio dal Clavicembalo Ben Temperato BWV 846
Floraleda Sacchi: Images e Spaceship
Erik Satie: Gnossienne n. 1
Ludovico Einaudi: Oltremare
Ólafur Arnalds: Near Light e Till End
Roberto Cacciapaglia: Temple of Sound e Antartica

Quello che ci stanno insegnando i live streaming

Ieri sera, con Rufus Wainwright si è chiusa un’edizione “straordinaria” di Piano City, battezzata Piano City Milano Preludio 2020. L’evento dal vivo che in pochi anni s’è affermato come uno dei principali appuntamenti musicali del capoluogo lombardo si terrà, covid19 permettendo, in autunno.

Questi tre giorni di maggio (22/24), le date tradizionali, si sono tenute lo stesso, in live streaming. In alcuni casi, d’ottimo ascolto, in altri tremendamente metallici, tanto da risultare anonimi. C’erano grandi nomi da Remo Anzovino, a Boosta, da Rosey Chan a Chilly Gonzales (la sua lezione al pianoforte è stata davvero interessante), Silas Bassa, Ludovico Einaudi, s’è aggiunto anche Vinicio Capossela, assieme a tanti altri musicisti. 

In questi mesi di quarantena la musica ci ha fatto sempre compagnia, dalla classica al pop, passando per rock e jazz, rap e contemporanea, artisti da tutto il mondo si sono esibiti collegandosi da uno smartphone o da un computer, come tanti “busker” nelle loro case, chi davanti a un pianoforte, chi con una chitarra, chi con una base pre-registrata. Come per molte altre cose (tante, a dire il vero) la quarantena ci ha obbligato a rivedere il nostro modo di vivere, guardare, ascoltare.

In particolare, nel live streaming abbiamo ascoltato – e visto – super musicisti, rockstar, popstar in versione casalinga, come mai ci saremo aspettati di immaginarli. Si esibivano per rimanere sostanzialmente vivi e presenti, una necessità bilaterale, a dire il vero… È come se improvvisamente, dai potenti diffusori digitali si fosse passati alle prime radioline portatili, gracchianti, metalliche, prive di colore e profondità. L’uomo, come tutti gli esseri viventi di questo mondo, ha una buona capacità di adattamento.

In questo momento, come hanno ricordato in tanti, anche la musica è profondamente penalizzata. Non sto pensando ai soli artisti, alle pop star milionarie, ma a chi contribuisce a renderli tali. Ad esempio, i tecnici, fonici, light designer, coloro che lavorano dietro al palco per garantire una performance perfetta a una band, un’orchestra, un cantante. E anche ai turnisti, musicisti e coristi, che vivono di palco in palco. Queste persone, altamente professionali, oggi non hanno voce, non hanno un sindacato che li difenda né una valida prospettiva per almeno un anno. Bisognerà fare qualche cosa.

Ci sono un po’ di idee in giro tra gli addetti al settore: per esempio, l’ultima arrivata proprio oggi, 26 maggio, quella di Machete Aid on Twitch, 12 ore di diretta streaming, venerdì 5 giugno dalle 15 sul canale @MacheteTV di Twitch, per raccogliere fondi a supporto «del settore musicale italiano, messo a dura prova dall’emergenza sanitaria causata dal COVID-19», come spiegano gli organizzatori della crew hip-hop. Sempre i vulcanici ragazzi: «Durante la diretta interverranno vari artisti e personalità provenienti dal mondo della musica, dello spettacolo, dell’eSport, della cultura e delle istituzioni». Ci sono altre raccolte fondi in corso, come quella di Music Innovation Hub, ma ne parleremo a tempo debito…

A proposito di live streaming leggevo un interessante articolo di Alex Ross, critico musicale del New Yorker proprio su tutti questi argomenti. Il titolo? Concert in the Void, “Concerti nel vuoto”. Ross nota come queste esibizioni siano il più delle volta tremende, persino imbarazzanti, perché non accuratamente microfonate, con una scena difficile, le case di ciascuno, che distraggono l’ascoltatore, contribuendo a ridefinire sostanzialmente il concetto di ascolto. Però, scrive l’autore, «Documentano, con il potere obliquo che le arti possiedono, una straordinaria fase umana nella storia. La loro mera esistenza è incoraggiante e, a volte, raggiungono un potere sorprendente».

In effetti, la quarantena ha scatenato la creatività di artisti come Florent Ghys, musicista francese di 41 anni, che in questi giorni ha pubblicato in rete alcune sue composizioni basandosi su un coro molto particolare, che lui ha battezzato Cats&Friends (sì un coro di animali!), rielaborando brani di maestri come Erik Satie (Gymnopédies), o lo Stabat Mater di Pergolesi. Possono far inorridire i puristi, ma sono un uso “virtuoso” del mezzo a disposizione per comunicare, provocare, far riflettere…

Ricordate l’intervista a Fabrizio Sotti che ho pubblicato qualche giorno fa? Richiamava la “classe media della musica” e il rischio che questa, in appena un anno, possa venire cancellata definitivamente. Lui parlava del jazz. Zach Finkelstein, un tenore di Seattle, ha aperto un blog, The Middle Class Artist, dove discute, collega, provoca, cerca di tenere insieme, appunto, la classe media degli artisti, gli onesti lavoratori del palco e delle sale d’incisione per cercare una via d’uscita alla crisi.

E andiamo a concludere: i live streaming casalinghi dunque servono? Nel lockdown sono stati essenziali per moltissime persone (e lo sono tuttora). Hanno aiutato artisti e pubblico. Ma è stata una fase, e in quanto tale, questa deve essere superata. Con la fine delle varie quarantene sarà possibile continuare sulla strada del live streaming, magari fatto in modo professionale con tutti i lavoratori della musica protagonisti, dalla star al fonico, così si potrà ascoltare un’esibizione perfetta, pagandola, sì, pagandola!, come si paga un qualunque film sulle piattaforme. In attesa di ritornare ad affollare teatri, club o super concerti.