Alessandro Deledda e la sua Linea del Vento

Alessandro Deledda – Foto Federico Miccioni

Sono qui, davanti al foglio bianco di Pages. La mia base sonora è La Linea del Vento, ultimo lavoro di Alessandro Deledda, classe 1972, perugino con origini sarde, pianista, compositore, polistrumentista. L’ho intervistato un paio di giorni fa. Ma qui mi blocco: come posso presentarvelo? Perché Alessandro è un musicista classico, ma anche un jazzista, ma anche un appassionato di musica elettronica, ma anche uno che si è formato con il cantautorato italiano e il rock, quello solido, e ancora un appassionato dell’insegnamento della musica, un produttore, un arrangiatore. Il prossimo 16 luglio nell’ambito di Bari in Jazz 2021 suonerà nel The Evolution Trio assieme al sassofonista Dimitri Grechi Espinoza. Potrei sostenere che è un artista contemporaneo, parola che non dice assolutamente nulla. Oppure… un musicista genialmente curioso. Ecco, questa mi piace già di più. Mi sembra che lo rappresenti al meglio. Ci siamo dati appuntamento su Zoom per parlare una mezz’oretta del disco. È finita dopo un paio d’ore (ma avremmo potuto continuare ancora a lungo). Il tempo è trascorso veloce, a parlar di musica e passioni. Quindi, quello che leggerete qui di seguito è il condensato della lunghissima chiacchierata (parola chiave che tornerà ancora nel corso dell’intervista) tra Alessandro e il sottoscritto.

Alessandro, parto subito forte: come intendi la musica?
«Mi piace contaminare, esplorare. Già a sei anni ero attratto dalla musica. Mi divertivo a suonare l’organo della chiesa. Quando non c’era il prete, mi impegnavo a tirare fuori i primi accordi. A otto anni ho iniziato gli studi di pianoforte. Studi classici. Volevo suonare l’organo, ma l’organista titolare era il vecchio sacrestano, quindi…».

Quando ti è venuta la passione per il jazz?
«Fino a 16 anni non lo sopportavo proprio. Trovavo assurdo non seguire la lettura degli spartiti… Poi, approfondendo Bach ho capito che lui improvvisava. Bach unì il virtuosismo italiano – adorava Vivaldi, lo studiava a fondo – l’eleganza francese e il contrappunto tedesco. Ho capito che l’improvvisazione lascia un’impronta unica e irripetibile. Poi ci sono quelli che trascrivono queste improvvisazioni e le studiano. Così, a 17 anni ho iniziato a frequentare un laboratorio di musica jazz. Avevo, vista l’età, anche un secondo fine: a quell’epoca suonare uno strumento era il modo più congruo per conquistare una ragazza!».

Giusto, chitarre, spiaggia, falò, musica…
«Proprio quello! Ho cominciato a indagare, studiare il jazz, il perché da poche note, la melodia, esce un mondo meraviglioso».

Ti sei appassionato anche all’elettronica…
«Sì, amavo la tecnologia che stava arrivando. Ho iniziato con il computer Atari 1040ST, te lo ricorderai, e un expander per ricavare suoni. La mia rivelazione è stato il concerto dei Pink Floyd a Livorno nel maggio del 1989. Mi ci portò un mio grande amico. Conservo ancora il biglietto d’ingresso, pagato 37.500 lire… Lì mi si aprì un mondo. Allora, nemmeno ventenne, volevo essere tante cose, ma mi trovavo a studiare gli autori classici, leggere ed eseguire. Non mi bastava più».

Avevi gettato le basi per il tuo lavoro attuale.
«A 23 anni mi chiamarono a gestire lo studio Fonit Cetra di Perugia. A Milano, dove c’era la casa madre, conobbi Vince Tempera e Ares Tavolazzi. Con Tavolazzi, avrei suonato negli anni successivi… splendido è stato il concerto all’abbazia di Farfa…».

La musica classica però non l’hai abbandonata…
«No assolutamente. La Classica è il Pin della musica. Attraverso di lei puoi accedere a tutto. Prima di un concerto mi faccio sempre una fuga o un preludio, serve a defragmentare il cervello, una sorta di reset. Solo così riesco a improvvisare meglio».

Cos’è per te l’improvvisazione?
«Come stare tra amici, seduti a una cena o a bersi qualcosa, e chiacchierare, dialogare, raccontarsi. Solo che non lo fai con le parole ma con le note».

Prima di parlare de La Linea Del Vento, raccontami dell’insegnamento, altro capitolo fondamentale della tua vita professionale.
«Insegno da trent’anni. All’inizio, visto che non mi vedevo né in banca né nelle forze dell’Ordine come mio padre, per dimostrare ai miei che il musicista era un lavoro a tutti gli effetti, insegnavo per due lire. Dopo essermi laureato (con lode al conservatorio Francesco Morlacchi di Perugia, ndr), ho insegnato nei corsi preaccademici al Conservatorio di Perugia. Nel 2009 ho fondato un’associazione, Piano, Solo, dedicata al pianista Luca Flores (uno dei più grandi jazzisti italiani, morto suicida a 39 anni nel 1995, ndr). È diventata una scuola di musica. All’inizio era soltanto per pianoforte, ora abbiamo tutti gli strumenti. Con 120 ragazzi a Umbria Jazz presenteremo una versione di So What di Miles Davis con 20 chitarre, 8 bassi, fiati, coristi, ecc. Sono di tutti i livelli di preparazione e, alcuni, hanno imparato a suonare in dad (didattica a distanza). È stato un esperimento anche per noi insegnanti. Credo che la dad abbia un vantaggio, farti entrare subito nella parte pratica. Per il resto non va bene perché manca quella comunicazione spontanea che arricchisce la lezione».

Gli allievi di Piano, Solo sono tutti giovanissimi?
«Abbiamo circa duecento iscritti che vanno dai sei ai sessant’anni e 15 insegnanti. All’interno della scuola c’è uno studio di registrazione e sale per tenere piccoli concerti. Di base prepariamo gli alunni per i licei musicali e i conservatori».

Veniamo a La Linea Del Vento. Perché questo titolo?
«La Linea Del Vento è dove va la musica. Mi sono lasciato portare come una foglia che rotola e vola fin dove il vento vuole. Credo sia questo il modo più significativo per raccontarsi. È un disco in piano solo. La sua genesi è casuale. L’anno scorso la scuola era chiusa, come tutte le altre per il Covid19. Mi chiama il fonico che collabora con noi, un ragazzo bravissimo e con una sensibilità estrema. Mi dice: “Alessandro, proviamo quei nuovi microfoni, andiamo in sala d’incisione, tu stai dentro, io fuori a registrare. Tu suona quello che vuoi”. “Ma sei matto”, gli ho risposto. “Cosa suono, siamo tutti a casa, non se ne parla proprio”. Chiuso il telefono ho riflettuto e ho pensato che poteva essere un modo di vincere quell’apatia che mi aveva preso. Abbiamo approntato il tutto, ho cominciato a suonare altre tre del pomeriggio e sono andato avanti fino alle sei e mezza. Dopo alcuni giorni il fonico mi manda un wetransfer con il file della registrazione. Lo ascolto e inizia l’autocritica, l’autolesionismo: per una sorta di timidezza che ho sempre quando si tratta di giudicare me stesso, ho deciso che non era una registrazione all’altezza. Il fonico, invece, ero entusiasta. L’ho chiamato e gli detto: “Cancella tutto non mi piace”. Lui, invece, senza farmelo sapere, l’ha spedito a Claudio Carboni della casa discografica Egea, fondata da Tonino Miscenà. Mi hanno chiamato entusiasti. “Un gran bel lavoro!” mi hanno detto. Così è nato il disco, undici racconti che parlano di me».

Alcuni brani li hai anche suonati in barca con Federico Ortica e Andrea Palombini…
«Sì, conosco Federico da molto tempo. Ho partecipato a Onde Sonore perché l’idea e i progetti che porta avanti Federico li condivido, è quella la direzione. E poi, il vento, il mare, s’intonavano perfettamente al disco, tra l’altro uscito per Egea Le Vele…».

Inizi con Madreterra, poi passi a Ginevra… ma chi è Ginevra?
«Madreterra è una dedica alla mia terra d’origine, la Sardegna (le mie origini sono a Pattada), Ginevra, invece è una cagnolina che ho adottato. Come Charlie Was Here, brano dedicato al mio vecchio amico a quattrozampe che non c’è più. L’ultimo brano del disco, quello più “jazz”, Have You Met Mr. Pongo?, parla dell’altro cane che ho, un trovatello pure lui. Amo gli animali, infatti, una parte del ricavato delle vendite del disco andrà a un’associazione animalista. Gino e l’Olivo, invece, è il ricordo di un anziano agricoltore. Insomma, quando ho suonato in quelle tre ore e mezza, ho davvero ripercorso i miei pensieri più profondi che ho associato a melodie. È la mia linea del vento…».

Parallelamente stai seguendo altri progetti, come Aura Safari
«Aura Safari (qui Sahara) ci sta dando molte soddisfazioni. È la mia parte elettronica, di esplorazione e composizione, un progetto jazz-funk, nato da quattro amici dj con il mio coinvolgimento. Stiamo andando molto bene in Giappone, in Nord Europa, in Gran Bretagna. È un progetto a cui tengo moltissimo, sono l’unico musicista del gruppo e anche uno dei produttori».

Alessandro, per chiudere, riprendendo la prima domanda, cosa trovi nella musica?
«Per me l’importante sono le tracce che tu lasci. In questi anni ne ho lasciate parecchie, dal jazz alla musica per cartoni animati, a quella per film, ai concerti. La musica è una forma di abnegazione, richiede tanto sacrificio per entrare in quel mondo infinito. Sai, sono convinto che Chick Corea quando è morto non era ancora arrivato dove voleva arrivare, perché la musica è un percorso infinito. Infatti, per come la vedo io, il jazz puro ha già dato tutto, è come la musica classica. Bisogna guardare oltre, sperimentare, contaminare per creare nuovi mondi, come faceva Corea, appunto».

Cosa stai preparando ora?
«Sono indeciso tra un disco di piano solo con cover dei Depeche Mode, band che adoro, o uno che riprenda brani dei Metallica, altro gruppo che ho ascoltato tanto. Non sembra, ma ho un animo decisamente rock!».

Smart Working? Lavoro “agile”? Nulla sarà come prima

Nulla sarà come prima. Dal mio angolo di studio casalingo fisso il computer. Le musiche che mi frullano per la testa sono tante, attimi, spotlight, ricordi di note e parole. Nulla sarà come prima, nulla sarà, comunque, come qualche giorno fa. Ritornare alla normalità, complice tre settimane di chiusura sta provando ciascuno di noi.

Ci si adatta, si riesce a sopravvivere perché l’uomo, come tutti gli animali, riesce a ricavarsi un posto dove stare, cercando poi di trarne il meglio per la propria specie. Ma qui il discorso è più profondo. In pochi attimi sono stati rivisti anni, decenni di modi di lavorare, vedere la vita, produrre, persino ascoltare musica…. «It’s the the End of the World As We Know It (And I feel Fine)», per dirla con la rabbia rassegnata dei R.E.M. di Michael Stipe & Soci. Ed è proprio questo che preoccupa.

Finora la nostra società s’è retta su strutture, se volete arcaiche: ufficio, luogo di lavoro, casa, bar, luoghi di aggregazione, concerti e stadi luoghi di divertimento. Ma, fino a quando tutto gira nella routine non ci fai caso. Ora, da casa, si riesce a mettere in discussione – e a fuoco – tutto quanto. A partire dal lavoro: si può produrre anche da un luogo che non sia l’ufficio. Potremmo in modo veloce e come divertissement applicare un sillogismo cartesiano: Dunque, sono ancora davvero indispensabile? O mi ritrovo uno dei tanti che sa fare quel lavoro? Conta qualcosa se sono in un luogo fisico costruito per quello, l’ufficio, o quest’ultimo, è solo un orpello perché tanto la mia attività non è così essenziale che sia fatta lì, in quel luogo? Il registratore di cassa che apre Money dei Pink Floyd da The Darks Side of The Moon  è il segno di quell’opulenza a cui ci siamo votati: «Money, it’s a crime, Share it fairly but don’t take a slice of my pie» (Soldi, è un crimine, condividi equamente, basta che non prendi una fetta della mia torta…). A questo punto del ragionamento male non fa rimanere con i nostri cari amici Pink Floyd e far salire, dopo aver messo a manetta l’ouverture di Shine On You Crazy Diamond da Wish You Where Here (1974), omaggio a quel diamante pazzo che era Syd Barret, il fondatore del gruppo perso nelle vallate dell’LSD e di altre droghe, il nostro quesito: cosa succederà quando riapriranno i cancelli? Mi (ci) ritroveremo di nuovo in coda, come tutte le mattine ai tornelli della metropolitana o sotto la pensilina del tram ad aspettare di salire per ritornare al lavoro, rispondendo, nel frattempo a testa bassa e incuranti degli altri alle tante sollecitazioni social (e qui c’è la chitarra di Gilmore, che aumenta e incede prima dell’assolo di risposta che dovrebbe risvegliare i miei nervi, ma solo per un attimo, far vedere a me stesso che fluttua in una bolla che poi è la vita di ciascuno di noi…).

Per le aziende la quarantena da coronavirus è un’esperienza universale fatta senza pressioni esercitate da forze sociali e sindacali, una manna dal cielo, l’opportunità di cambiare.

Non ho mai fatto nella mia vita altro che il giornalista, tralasciando piccole passioni personali. Non che sia una cosa aprioristicamente valida. Per carità, la mia vita professionale si carica di molte altre valenze, ma questo so fare, e so che la grande crisi di lettura di questo Paese, la mancata vendita dei giornali – a parte le contingenze tecnologiche dietro alle quali fin troppi addetti ai lavori si nascondono -, è frutto della povertà intellettuale, dell’inaridimento culturale a cui siamo stati strascinati passo dopo passo senza nemmeno essercene accorti. Tutto è così perché è così, non una voce dissonante. Chi non è d’accordo urla, ma urlare non è dissentire argomentando. Le redazioni erano state concepite come luoghi di produzione di idee, posti di costruzione di pensiero, arene aperte dove discutere, azzuffarsi per poi fare sintesi. I direttori, in teoria le persone che eccellevano in queste capacità, avevano in mano un potere enorme, quello di tante menti che adoravano il mestiere, amavano stare insieme, magari si insultavano anche pesantemente, ma pure un insulto ha il suo fondamentale perché. Direttori d’orchestra che facevano suonare la loro partitura. Da casa, ognuno nel suo rettangolare, personale buco di mondo che è il proprio laptop cosa può trasmettere all’altro? Lo cantava bene Johnny Cash scandendo le corde della sua chitarra, reinterpretando quella straordinaria canzone dei Depeche Mode che è Personal Jesus. Noi abbiamo il nostro Cristo su misura e da lì non ci muoveremo. Su questo vorrei sentire anche i vostri pareri mentre me ne sto disteso sul tappeto, immaginando i prati in fiore e l’erba profumata e l’eco lontana delle note di Overkill degli australiani Man At Work. Un’esagerazione?