Pandemia: Raoul Moretti racconta le Intermittenze della Vita

In questo periodo stanno circolando parecchi lavori di musicisti che, sempre più esplicitamente, raccontano la pandemia e i suoi effetti, lasciando parlare le note. Nonostante la guerra di Putin abbia praticamente cancellato dalle prima pagine dei media l’andamento della pandemia, dando l’impressione che tutto volga al meglio, il Covid non è affatto sparito dalla circolazione, ce lo terremo  molto a lungo, anzi, diventerà un ospite fisso, tutto sommato tollerabile grazie alle cure, come gli altri virus che ci abitano e ci vengono a far visita. 

Rimanendo sempre al Covid, nessuno di voi si sarà perso il comportamento della Cina di questo ultimo mese. L’autoritarismo forsennato del gigante asiatico ha un che di surreale, terribile, osceno. Rinchiudere tutti per salvare non le vite, ma il benessere (si presume) di tutti. Tra qualche anno, a mente fredda, avremo molto di cui parlare.

Visto con questi occhi e con gli avvenimenti di questi giorni il lavoro certosino di Raoul Moretti, gradita conoscenza di Musicabile, è importante. Avevo intervistato Raoul assieme a Beppe Dettori alcuni mesi fa, quando uscì un gran bel disco a loro firma, Animas (ne parlai in questo post).

Il 9 marzo, esattamente il giorno del primo lockdown (lo ricordo benissimo perché quel maledetto lunedì di due anni fa mi salì una febbre da cavallo che mi durò giorni intuendo – già, intuendo perché nessun medico venne a farmi visita – di essermi ammalato di Covid… pessimi ricordi), Raoul ha pubblicato Le Intermittenze della Vita, il diario della pandemia, interpretato con la sua arpa elettronica e alcuni preziosi interventi di tre musicisti, Beppe Dettori e due artisti cinesi. Tutto torna, dunque.

La cadenza dei brani porta alla mente fatti e sensazioni che, dopo due anni, stiamo ancora tentando di seppellire sotto il tappeto della nostra memoria. Ognuno di noi ha il suo bagaglio di ricordi, ferite, ossessioni. Quelle di Raoul sono racchiuse in 37 minuti e 23 secondi. 

Un vero e proprio diario, dove traspaiono incredulità, paura, ansia, riflessioni. Colpisce il brano che apre il disco: porta un titolo semplice quanto terribile, 09 marzo 2020. Il racconto prosegue con Strade deserte, Il Runner solitario (dove Beppe Dettori usa le sue corde vocali per raccontare una “sgambata” autorizzata per decreto della Presidenza della Repubblica), Sars-Cov-2 brano registrato con Wan Xing, una musicista e collega di Hong Kong, esperta di guzheng, cordofono simile a una cetra, pizzicato con unghie metalliche – uno dei più intensi dell’album -, per proseguire con Al di là delle sabbie, Stasi Frenetica (suonato con Chan Schek Ming altro musicista cinese maestro di guqin, strumento, sempre della famiglia dei cordofoni, con un suono più acuto del precedente). 

Il racconto da qui in poi si fa più intimo. L’osservatore che guardava dalla finestra e leggeva i cambiamenti, inizia a riflettere su se stesso, su quello che stava capitando a lui, a fare i conti con la propria vita. Ecco dunque, Di ansie e paure, Di pensieri ossessivi, Di attacchi di panico, per poi affidarsi ai mantra e ricredersi, Andrà tutto…, ripiombare ancora nel buio, Notti di coprifuoco, e vedere, finalmente, Un’alba meravigliosa, speranza infranta dall’invasione russa in Ucraina e dalla risalita dei contagi cinese.

Ciliegina sulla torta di un album decisamente da ascoltare è la cover firmata da Giada Negri: una piazza del Duomo deserta, a Milano, disegnata come una quinta teatrale con Raoul che passa, tenendo la sua arpa in spalla. Nell’idea di Moretti, il disco, per ora solo in digitale, avrà un’altra destinazione, fisica, dove troveranno posto, oltre alla musica, anche la scrittura e le immagini…

Le intermittenze della vita, titolo che trovo bellissimo e che ricorda quel provocatorio romanzo distopico-filosofico di José Saramago, Le intermittenze della morte, è, dunque, un disco ben riuscito, uno di quelli che ti prende a poco a poco e che, per quella virtù della musica di trasformarsi in un linguaggio universale, riesce a diventare la colonna sonora di ciascuno di noi, un piccolo, importante pezzo della nostra vita…

Raoul hai scritto un diario denso…
«Ho costruito il disco come un romanzo, anche se il mio mezzo espressivo è l’arpa elettrica».

In questo romanzo racconti molte cose, la trama la conosciamo più o meno tutti!
«Lo spunto iniziale è stato il primo lockdown durato due mesi. In quei giorni ho approfittato per studiare, approfondire la mia preparazione, ma poi sono stato attratto inesorabilmente dalle immagini forti della pandemia che passavano ovunque. Se per noi uomini era una terribile disgrazia, per la Natura, invece, sembrava essere una rinascita, riprendeva finalmente il suo posto. In ogni caso erano documenti toccanti, che imponevano delle riflessioni. Quei vuoti fisici nelle strade, quei silenzi enormi che rivediamo ancora in questi giorni in Cina…».

Così ti sei messo a comporre…
«Fantasticavo e vivevo quei giorni pensando di scrivere la colonna sonora di un film distopico. Dopo l’illusione estiva (estate 2020), dove credevamo di aver visto già tutto, c’è stato l’altro blocco, più duro del precedente. Lì, ho realizzato che non si trattava di un film ma era tutto terribilmente reale. In quel momento è cresciuto lo sconforto, sono iniziate le reazioni psicologiche e sociali, l’Andrà tutto bene è diventato un Andrà tutto… Poi, nel febbraio del 2021 ho sperato anch’io di vedere finalmente un’Alba Meravigliosa. Il mio lavoro l’avevo finito. A un anno di distanza siamo ancora lì…».

Raoul Moretti – Foto Fabrizio Massidda

L’hai messo nel cassetto!
«Sì, anche perché con Beppe avevamo già iniziato a lavorare su Animas, album uscito a maggio del 2021. Fra l’altro, un brano che avevo scritto per Le Intermittenze della Vita, Continuum, abbiamo deciso di usarlo in Animas. Del lavoro fatto durante la pandemia volevo ragionarci con calma, pensavo di far uscire qualcosa di “fisico”, in un’altra forma, magari un libro. Poi, tra fine dicembre, gennaio e febbraio c’è stato un altro lockdown, blocco che ho sentito di più perché non è stato annunciato chiaramente ma di fatto c’era». 

Così hai deciso…
«Ho sentito la necessità di “fare delle mosse”, la prima è stata l’uscita in digitale del disco il 9 marzo di quest’anno. Non ho perso, però, la mia idea di farne qualcosa di fisico. Sto ragionando su un Lp a tiratura limitata, un libro con scritti corali, sensazioni, fatti accaduti durante la pandemia e un corredo di illustrazioni, sempre opera di Giada Negri, interpretazione visiva di quei giorni. La rielaborazione di ciò che ci è successo non è ancora iniziata, ne dovremo fare i conti. Anche perché in quell’Andrà tutto bene… il bene è stato un’illusione».

A proposito, molto bella la cover di Giada Negri!
«Mi piace dare carta bianca agli artisti per vedere cosa suscita in loro la mia musica. Giada, dalle suggestioni dell’ascolto, ha elaborato una serie di proposte tutte interessanti. Abbiamo scelto quella».

Come definiresti la tua musica ne Le intermittenze della vita?
«Un disco contemporaneo strumentale. C’è molto classico come struttura, ci sono i timbri cinesi che richiamano alla World Music e c’è l’arpa che assomiglia a una chitarra rock distorta».

Un lavoro particolare e le feauturing le hai scelte con cura…
«Volevo solo collaborazioni di corde: corde vocali, arpa mai pizzicata, suonata come una chitarra ritmica, gli strumenti tradizionali cinesi, anch’essi pregni di significato, il respiro di Beppe. È stata una seduta di autocoscienza messa in musica!».

Interviste: Beppe Dettori, Raoul Moretti e le tante “Animas”

Beppe Dettori e Raoul Moretti in concerto – Foto Claudio Muzzetto – PHOTO&PANO

Echi lontani, etno folk, progressive rock, preludi bachiani, cori millenari. Quando mi sono trovato ad ascoltare Animas, lavoro uscito nel maggio scorso dalla creatività di Beppe Dettori e Raoul Moretti ammetto di essermi sentito perso in una dimensione dove tempo e generi non esistono. Ci sono solo parole e armonie che si fondono per chi ha la pazienza e la curiosità di ascoltare. Esattamente il punto di forza di questo album. Un’isola dove convivono suoni e canti creati con il chiaro intento di raccontare. Un ricordo, una storia, una sensazione, un’emozione. Ho citato isola non a caso, visto che i due artisti vivono in Sardegna.

Beppe è nato a Stintino e Raoul, comasco di nascita, da una decina d’anni ha scelto Cagliari come suo luogo di vita. Nel mio lavoro di autostoppista musicale la Sardegna è un luogo magico, come la Sicilia. Isola sonora (ne avevo parlato con Paolo Fresu qualche settimana fa), dove il crocevia di popoli e culture ha fatto sì che anche la musica, espressione popolare, venisse contaminata. Isola legata alle tradizioni, da cui riparte alla ricerca di nuovi orizzonti musicali.

Beppe e Raoul sono due esempi cristallini di quello che ho scritto sopra. Il primo, virtuoso della voce – è stato per otto anni anche il cantante dei Tazenda – il secondo, diplomato al Conservatorio in arpa, è una delle migliori espressioni di questo strumento in Italia e non solo. Dopo la formazione classica s’è dedicato allo studio e al suono dell’arpa elettrica che usa in vari modi (poi leggerete). Suonano insieme da alcuni anni. “Ci siamo trovati”, dicono entrambi, e “ci divertiamo un sacco a far musica insieme, soprattutto dal vivo, un proficuo scambio artistico”.

In Animas ci sono collaborazioni importanti e varie. I Tenores di Bitti Remunnu ‘e Locu, i Cordas et Cannas, i Concordu e Tenores de Orosei, Paolo Fresu, Franco Mussida, Davide Van de Sfroos, Gavino Murgia, Flavio Ibba, Alberto Pinna, Daniela Pes, Lorenzo Pierobon, i FantaFolk, Andrea Pinna, Giovannino Porcheddu, Massimo Canu e Federico Canu, Massimo Cossu… Un ensemble che ha avuto piena libertà di espressione nel suonare o cantare i brani composti dal duo.

Si tratta di dieci inediti e una cover, l’ultimo brano dell’album, la rivisitazione in sardo di una canzone di Peter Gabriel, Fourteen Black Paintings – che qui è diventata Battordicchi Pinturas Nieddas – dall’album Us, non una delle più conosciute, ma sicuramente una delle più affini a Beppe e Raoul, grandi fan dell’ex-frontman dei Genesis e del suo percorso personale nel prog e nella worldmusic. Fra l’altro, Gabriel da anni è un assiduo frequentatore della Sardegna, dove ha casa vicino alla Costa Smeralda.

Come sono solito fare, per capire la nascita di un album così denso di riferimenti stilistici ed emozionali ho deciso di fare quattro chiacchiere con loro. Abbiamo parlato del disco e, poi, siamo finiti, come dei ragazzini alle loro prime scoperte musicali, a raccontarci di questo o quell’altro artista, della musica che si ascoltava e di quella che si sta ascoltando, delle abilità di certi musicisti di fare più cose contemporaneamente sul palco… Insomma, tre amici al bar davanti a una birra e con l’entusiasmo per la stessa passione.

Parto subito diretto: cosa rappresenta per voi Animas?
Beppe – «Quello che noi siamo. Dentro al disco c’è tutta la mia esperienza, ci sono vari generi musicali che mi piacciono. Raoul viene da studi classici, io dalla musica leggera. Ho studiato lirica per qualche anno e poi ho virato verso il pop. Insieme, con le nostre differenze, ci divertiamo tantissimo. Le nostre anime si divertono. Questo è un progetto studiato apposta per il palco, il live. Abbiamo deciso di metterlo anche su un supporto meccanografico con l’idea di “archiviare” questo lavoro, lasciarne traccia. Fino a qualche anno fa suonavamo in un gruppo i Dolmen Project, in quattro più una performer coreografica. Poi, come spesso accade nelle band, siamo rimasti in due. Raoul a Cagliari, io a Sassari e per suonare ci siamo trovati a metà strada, a Oristano!».

Avete fuso parecchi generi musicali, dal folk al prog…
Raoul – «I generi mi (ci) stanno stretti. Sono molti quelli che ci dicono: “Musicalmente non riusciamo a collocarvi”. Sono cresciuto con il progressive, il Rock e le radici folk dell’arpa, quindi, celtiche e sudamericane. Sono comasco di nascita e crescita ma in Sardegna ho trovato un terreno prolifico per la musica che voglio fare e collaborazioni meravigliose».

A proposito di di Sardegna, perché quest’isola vanta così tanti musicisti e di varie estrazioni?
Beppe – «Perché è un territorio adatto a liberarsi da tante costruzioni mentali. Qui c’è un’apertura totale alle connessioni e posso esprimere tutto quello che ho imparato. Con Raoul abbiamo deciso di far uscire qui la nostra creatività. Suonando in mezzo alla gente. Nel progetto live S’Incantu ‘e Sas Cordas, diventato un album (2019, ndr), ho lavorato su vari linguaggi per la vocalità. In S’incantu I e II il testo non ha significato, sono frasi inventate, parole in diverse lingue che mi interessava inserire per ottenere un determinato ambiente sonoro della voce».
Raoul – «Nel nostro lavoro, nei live c’è tanta improvvisazione anche in pezzi con strutture ben definite. Ci riserviamo dei momenti “liberi”, che poi è la filosofia che sta alla base del jazz. Per esempio, il brano di Gabriel, Battordicchi Pinturas Nieddas, non lo facciamo mai uguale dal vivo. Nel disco c’è l’intervento dei cori dei Tenores di Bitti e di Lorenzo Pierobon, sul palco il brano si svuota, c’è solo l’arpa, la chitarra e la voce di Beppe, si dà più spazio ai silenzi».

Quindi Animas è un lavoro di sottrazione?
Raoul – «Effettivamente con le collaborazioni ci è sfuggita la mano, abbiamo invitato tanti artisti, amici, lasciandoli liberi di esprimersi e l’album è ricco di tutto ciò».
Beppe – «C’è molta introspezione in Animas. Ci siamo tenuti sulle note bordone sulle quali appoggiare e giostrare armonie in quella tonalità che è madre e padre».

Beppe Dettori e Raoul Moretti – Foto Claudio Muzzetto – PHOTO&PANO

Beppe tu lavori molto anche sul canto diatonico…
«Più che diatonico, è difonico. Il canto armonico mi appassiona molto, l’ho studiato e continuo a farlo. Può sembrare di origine orientale, in realtà, da oltre 4mila anni si usa anche in Europa: i canti nuragici esistevano già duemila anni prima di Cristo. D’altronde la struttura del canto a tenore (inserito nell’Unesco tra i Patrimoni orali e immateriali, ndr) non è altro che il tentativo di connettersi alla natura attraverso le imitazioni dei tre animali importanti per la vita dell’uomo in migliaia di anni, su bassu, un suono baritonale, gutturale che rappresenta il bue, sa contra, il contralto, la quinta sotto, è il verso del muflone, mentre sa mesu oghe, la mezza voce, il belato dell’agnello.  Il pastore è la voce solista, su tenore, quella che dà il senso al motivo. Di solito è una poesia, non necessariamente scritta, può essere anche di tradizione orale. Il solista ha il potere di scegliere lo stile (da ballo, d’ascolto, di musica sacra), sempre comunque connesso con la natura. Il muggito del bue è dato da un uso delle false corde (quelle di cui si servono anche i monaci tibetani o le versioni growl del metal, ndr).

Raoul, curiosità mia, come ti sei appassionato all’arpa?
«È stato puramente casuale. In realtà agli inizi degli anni Novanta l’arpa aveva ben poca diffusione, soprattutto tra gli studenti maschi del conservatorio. Avevo cominciato, infatti, con il pianoforte. Quando si trattò di scegliere l’altro strumento di studio obbligatorio, qualcuno mi suggerì di mettere l’arpa perché pochissimi la seguivano. Grazie ai miei insegnanti mi sono appassionato al punto di farlo diventare il mio strumento di studio principale e, poco a poco, abbandonare il pianoforte. Durante il percorso accademico ho iniziato a vederlo come uno strumento dalla grandi possibilità anche fuori dai canoni orchestrali. Infatti, con i miei amici,  suonavo rock con l’arpa. È stato lì che mi sono interessato all’arpa elettrica. Ho passato notti a casa di Francesco Zitello, un grandissimo arpista, ascoltando e suonando. Negli ultimi anni il nostro strumento sta prendendo sempre più visibilità». «Usa il distorsore!», interviene Beppe. E continua: «E poi fa lo slide con un cacciavite, potrei raccontartene tante su Raoul e l’arpa…». (Raoul ride e continua): «Con l’arpa elettrica faccio assoli simili o uguali a quelli della chitarra elettrica, spesso uso anche l’archetto per suonarla…».

Ditemi a quale brano di Animas siete più affezionati…
Beppe – «Non è semplice, però, fammi pensare… beh, credo sia Figiura’, dove ha collaborato Franco Mussida. È uno sfogo consapevole su cosa siano la vita e la morte. L’ho scritta in un periodo particolare della mia vita. Con il Covid ho perso una sorella, ho così riflettuto sulla perdita, sul vuoto che rimane, ho cercato di farmene una ragione. Un altro brano, che è collegato al precedente, è Eziopatogenesi, tecnicamente lo studio delle cause di una malattia e di come questa si manifesta, un gioco ironico per vincere la paura di ammalarsi. Come venirne a capo? Affidarsi alla medicina allopatica o ai rimedi omeopatici? Ognuno reagisce a suo modo. Abbiamo voluto esorcizzare tutti questi timori quanto mai attuali».
Raoul – «Difficile dire quale brano preferisco, ognuno ha avuto la sua genesi. Se Beppe è legato al contenuto di Figiura’ ed Eziopatogenesi, io lo sono per questi due brani a livello musicale, alla partitura. La prima nasce da un tema di un brano solista che ho improvvisato sul palco durante un concerto».

Che musica state ascoltando in questo momento?
Beppe – «Bella domanda! Posso risponderti che ho avuto modo di incontrare Ambrogio Sparagna (musicista importantissimo non solo in Italia per i suoi studi sulla musica popolare, ndr). Il suo ultimo lavoro, un cd book realizzato per i 700 anni dalla morte di Dante Alighieri dal titolo Convivio – Dante e i cantori popolari, è molto interessante. Ha preso alcune terzine, quelle più conosciute della Divina Commedia, facendole cantare da voci “estreme” come quelle di Raffaello Simeoni e Anna Rita Colaianni, messa in musica dai solisti dell’Orchestra Popolare Italiana dell’Auditorium Parco della Musica di Roma (c’è anche un prezioso intervento di Francesco De Gregori, ndr). Poi c’è il messicano Israel Varela, batterista e pianista che collabora con la cantante italiana Serena Brancale, c’è tanto flamenco e tanto jazz. Poi, continuo ad ascoltare Peter Gabriel e Nusrat Fateh Ali Khan, quest’ultimo mi ricorda quanto circolare sia la musica…»”.
Raoul – «Tra i miei ascolti c’è sempre Peter Gabriel! Ora sto interessandomi a progetti provenienti dalla Scandinavia, con una virata ad autori italiani. Vabbè te lo rivelo: tutto ciò perché Beppe mi sta convincendo/costringendo a cantare!».