Sign O’ The Times: consacrazione o abuso di un mito?

Mi sto ascoltando l’album “espanso” Sign O’ The Times (Super Deluxe) uscito il 20 settembre scorso. Sign O’ The Times è forse – sicuramente per molti – il disco capolavoro di Prince, morto il 21 aprile 2016, uscito nel 1987. Un apparente intricato groviglio di generi, musiche, testi, partoriti dalla mente del mitico musicista di Minneapolis. Disordine creativo che aveva, eccome, un ordine, una serie di piani di lettura, a ben ascoltare, che si intersecano e si espandono in altri orizzonti. Insomma, una specie di matrioska del pentagramma. Qualcuno, ai tempi, l’aveva definito uno spartiacque per la musica afroamericana e per la sua stessa carriera. «L’ultimo grande album R&B prima che l’hip hop diventasse la forma dominante della musica pop dell’America nera» (Michaelangelo Matos dal libro Sign O’ The Times publicato per Bloomsbury nel 2004).

La nuova versione di Sign O’ The Times conta 92 brani, tutti scritti e suonati dallo stesso Prince, senza i Revolution, esperienza finita più o meno in quel periodo. Una raccolta “confezionata” da Michael Howe, responsabile dello sterminato archivio di Prince, in collaborazione con la Prince Estate e la casa discografica (NPG Records su licenza Warner Records). Una rilettura di pubblica utilità, si potrebbe dire, del genio strabordante di Prince. E fin qui tutto ok. Raccolta iperinteressante, avvincente per molti versi.

Ma… Sì, c’è un ma, uno scrupolo di coscienza, potrei definirlo. Che genera una domanda: è giusto sfruttare inediti di un artista che non c’è più? Non è una violazione della sua intimità, della sua scelta di tenere da parte brani che, forse, dovevano/potevano servire ad altro nelle sue intenzioni?

È vero, i fan ringraziano, hanno ricevuto dell’ottimo cibo stellato da degustare, ma quanta memoria abbiamo violato per arrivare a ciò? Della difesa strenua della sua musica Prince ne ha fatto un cavallo di più battaglie, contro le case discografiche (vedi la Warner), gli streaming (bussa a Spotify) o i filmati non autorizzati (rivolgersi a YouTube).

Ora, probabilmente per mettere a frutto il patrimonio da dividere tra gli eredi, si incrementa il flusso di denaro grazie a Prince che è cenere. La Prince Estate ringrazia e con lei la casa discografica. Così era successo, ed è storia, a Jimi Hendrix, con le uscite postume di album che ne hanno sì, aumentato la leggenda, ma che suonavano tanto di “abuso di cadavere”.

Davvero, non so se sia giusto o meno sfruttare il patrimonio artistico di musicisti del calibro di Prince, o di Jimi, o di 2Pac… E non prendetemi per uno dei tanti “Alice nel Paese delle Meraviglie”. Sento solo un senso di disagio nell’ascoltare brani che sembrano “violati” dal silenzio perenne di una persona che non esiste più. Il mito va saziato per rimanere tale. Passi. È il costo etico di questa operazione che mi lascia perplesso. Probabilmente son fatto male io.

Bruce Hornsby e il suo nuovo “Non-Secure Connection”…

Vi ricordate The Way it is, fortunato brano uscito nel 1986, ripreso anche da 2Pac con il titolo di Changes? Portava la firma di un musicista istrionico, Bruce Hornsby, allora con i Range. Di strada il pianista della Virginia (ha suonato per due anni anche con i Grateful Dead, agli inizi dei Novanta) ne ha fatta, e tanta. Con una coerenza di fondo mai dimenticata: il non voler pervicacemente essere etichettato in un genere. Hornsby ha percorso – e continua a percorrere – tutte le strade della musica.

Soul, funk, rock, jazz, bluegrass, pop mainstream, tutto e il suo contrario. L’ultimo lavoro – ed è per questo che ve ne parlo – Non-secure Connection, uscito ad agosto, ritrova un Hornsby in gran vena creativa. Confesso, mi piace molto!

Rock, prog, jazz spalmato in maniera coscienziosa, pop quanto basta, sembra di ascoltare i Genesis e Peter Gabriel, soprattutto, quest’ultimo, nell’intonazione vocale metallica. Parallelamentei a un ventennale sodalizio fortunato e simbiotico con il regista Spike Lee, Bruce non ha mai smesso di pubblicare gran bei lavori, come l’ultimo.

Molta attenzione sia alla partitura sia ai testi, un lavoro altamente critico verso il mondo web – per capirlo basti ascoltare Porn Hour: “We got everything we want with a mouse click, The innovation of the Internet. We thank the hard boys and the naked girls For the coming of our beautiful cyber world” – con lo spazio alle solite sue collaborazioni di massimo livello.

Come quelle con Vernon Reid, chitarrista dei Living Colour e la cantautrice e poetessa Jamila Woods (Bright Star Cast) e con il violinista (polistrumentista) Rob Moose (The Rat King). C’è persino Leon Russell, artista di culto, mancato nel 2016, in una registrazione che Bruce aveva fatto insieme un quarto di secolo fa (Anything Can Happen) e una solida My Resolve, suonata con James Mercer (The Shins, Broken Bells).

D’effetto anche Cleopatra Drones, canzone che apre il disco e ben dispone all’ascolto. Se volete approfondire l’artista, ascoltatevi un altro paio di album, Hot House del 1995: molto jazz e funk con collaborazioni eccellenti come Béla Fleck, il virtuoso del banjo, Pat MethenyJimmy Haslip, bassista e fondatore degli Yellowjackets, e il doppio Spirit Trail, uscito nel 1998. Ah dimenticavo, un altro album bellissimo: Absolute Zero, del 2019, che il New York Times ha definito “ccmplesso e per nulla alla moda, dunque, ottimo”! Anche qui collaborazioni di sostanza, con il batterista jazz Jack DeJhonette nel brano che dà il titolo all’album, per proseguire con Justin Vernon (Bon Iver) – uno dei suoi “giovani colleghi” preferiti – in Cast OffBuon Bruce, dunque!