Eugenia Canale, jazz e Risvegli, omaggio all’armonia

Eugenia Canale – Foto Lucia Zanini

Quel do centrale ripetuto in modo apparentemente irregolare fa pensare alle prime gocce d’acqua che tintinnano annunciando l’imminente scroscio di pioggia. «L’ho composto un anno fa. Quella mattina si mise a piovere dopo mesi di siccità. Il brano mi è uscito di getto con una suggestione, la terra si stava risvegliando», mi racconta Eugenia Canale, che vedremo a Piano City Milano il prossimo 20 maggio (ore 12, alla Biblioteca Affori, via Affori 9).

Risvegli è il titolo del brano d’apertura e anche quello del suo nuovo lavoro pubblicato un mese fa. Nove tracce per un disco solido e sofisticato dove non c’è soltanto tecnica ma anche tanta passione e cultura. Il dialogo tra il pianoforte di Eugenia e l’armonica a bocca suonata da Max De Aloe richiama le atmosfere “latine”, accarezzate, alla Toots Thielemans. Alla parte ritmica ci pensano egregiamente Riccardo Fioravanti al contrabbasso (che in Cape riproduce il suono di un berimbau) e il fantasioso Marco Castiglioni alla batteria.

Nove tracce che evolvono con arpeggi alla Chopin, fughe fantasiose alla Tom Jobim, o richiami popolari allo Choro brasiliano con un brano dedicato a Chiquinha Gonzaga, che del genere ne fu protagonista attiva, omaggiata già da molti musicisti del suo Paese, tra questi il gaucho Yamandu Costa, re della chitarra a sette corde, che ha riarrangiato un brano di Radamés Gnattali contenuto nelle Suíte Retratos (1956), il cui titolo porta il nome della geniale artista carioca. Eugenia è stata catturata da Chiquinha come musicista e come donna, vissuta in anni non facili a cavallo tra Ottocento e Novecento, con un marito sposato appena sedicenne, che osteggiò in tutti i modi la sua carriera artistica. La musicista fu anche la prima direttrice d’Orchestra del Brasile e l’autrice della prima marcinha di Carnevale Ó Abre Alas.

Quello che mi è piaciuto nel lavoro della Canale è proprio questo tessere filologico tra culture, quel trovare collegamenti tra musiche popolari (vedi Choro e Jazz) e musica “erudita” europea. Un lavoro simile l’ha fatto Hamilton de Holanda (ve ne parlerò prossimamente), un grande mandolinista, un virtuoso che usa lo strumento come ponte tra stili diversi. Il jazz, in fin dei conti, è proprio questo, l’assorbire, rielaborare e raccontare “con le proprie parole” una storia in note.

Eugenia, partiamo da Chiquinha e dallo Choro, ti ha proprio catturato!
«La scoperta della musica Choro è relativamente recente, ed è stata una scoperta pazzesca, perché è nello Choro che arrivi alla vera musica popolare. E poi c’è Chiquinha Gonzaga, una  straordinaria compositrice, una donna esemplare, coraggiosa. Sarebbe stata così anche se fosse vissuta in un paese progressista».

Le hai dedicato un brano, Chiquinha
«Uno dei pochi in cui non ho fatto fatica a scegliere il titolo. Molto raramente faccio musica “programmata”. In questo caso è uscito qualcosa che mi ha riportato alla sua musica. Non è uno Choro e nemmeno un Tango: una composizione che me l’ha fatta ricordare e per questo gliel’ho dedicata. La Gonzaga aveva una formazione classica molto solida, conosceva molto bene la musica romantica, Chopin».

Mi riallaccio al compositore polacco: come fai a far convivere la tua attività di musicista classica e di jazzista?
»La verità è che non posso fare a meno di entrambe. Negli ultimi anni mi sono dedicata al jazz anche se adesso ho ricominciato a tenere concerti di musica da camera, la mia passione».

Hai una doppia personalità!
«Può essere, oppure una cosa aiuta l’altra. Ritornare agli autori classici da interprete, lasciando da parte la tua vena creativa (l’improvvisazione), ti fa arrivare con una maggiore consapevolezza a quello che l’autore voleva esprimere. Se stai nella musica tonale, poi il principio è lo stesso. Ho trovato in Beethoven una scala che i jazzisti avrebbero definito be-bop e in Chopin tensioni armoniche che gli stessi avrebbero chiamato accordi alterati o sovrastrutture».

Com’è nato il disco?
Scrivo musica da anni, ho autoprodotto dischi in piano trio, formazione fondamentale per un pianista jazz. Questa volta ho voluto accentuare la caratteristica melodica e ho pensato a un lavoro in quartetto per affidare, in questo caso all’armonica e alla fisarmonica di Max De Aloe, temi “cantabili”. Con Max abbiamo una intensa attività di duo con un repertorio dedicato alle compositrici jazz. Vorrei aumentare le voci e aggiungere i fiati, tendo ad arricchire la mia musica».

Puoi raccontarmi di Risvegli?
«Il disco prende in prestito il titolo della prima traccia. L’anno scorso, ti ricordi, pioveva molto poco, si capiva che sarebbe stato un anno di siccità. Quel giorno si mise a piovere: ho composto il tema proprio su quella suggestione, pensando al risveglio della natura. E poi il disco è uscito a marzo, il mese della primavera…».

Perché hai scelto il pianoforte come tuo strumento?
«È avvenuto in modo naturale e istintivo. Ho sempre ascoltato musica in casa, e di tanti generi diversi. A sette anni i miei mi hanno regalato la classica pianolina a due ottave. Per me è stata una rivelazione: passavo le giornate giocarci, a cercare di fare uscire suoni diversi. Ricordo che ascoltavo sempre con il registratore a cassette un concerto per pianoforte e orchestra di Mozart, mi attirava, così cercavo di trovare le note giuste per riprodurlo. Vista la propensione, i miei genitori mi hanno iscritta alle medie musicali e poi ho fatto il conservatorio».

Uno strumento preferito oltre al piano?
«Amo il suono del sax soprano mi affascina, mi riporta a quel sound mediterraneo…».

Perché ti sei innamorata della composizione jazz?
«Mi piace l’idea di contaminazione. Il jazz non è solo be-bop e dintorni come credono in molti. È nato rimescolando altri generi e questa è la sua natura che per fortuna sta ritornando alla sua vera anima».

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