Zoe Pia: clarinetto e launeddas. Le mille strade del jazz

Da pochi giorni si è chiuso il weekend in musica che organizza tutti gli anni in Marmilla, territorio dell’oristanese. Il Pedras et Sonus Jazz Festival, pensato sei anni fa con il pianista e compositore foggiano Roberto De Nittis e Alessandro Loi, ha visto quest’anno la collaborazione artistica con i Tenores di Orosei Antoni Milia, con i quali ha presentato Indindara, il suo ultimo lavoro che si spera diventi anche un disco.

Zoe Pia, 36 anni, è una musicista che mi ha sempre intrigato. È sarda, a riprova che l’isola – non mi stancherò mai di dirlo – è una fucina di grandi musicisti, ama le vie del jazz (inteso come musica popolare) così come, altrettanto intensamente la cultura musicale della sua regione.

Come Paolo Fresu ha iniziato a suonare – in questo caso il clarinetto – nella banda del paese, assorbendo la musica popolare, uno dei tratti distintivi del suo jazz che è azzardato definire “etno”. Le sue composizioni sono imprevedibili, un intrico di strade che trovano congiunzioni naturali con la tradizione locale ma che poi vanno per erte salite e incredibili tuffi in armoniche più “contemporanee”.

Zoe mi ha incuriosito perché non è una produttrice seriale di dischi. Anzi. Il suo è un percorso coerente, studia, crea progetti musicali, insegna, approfondisce le possibilità dei suoi strumenti, il clarinetto ma soprattutto le launeddas, strumento millenario che lei suona in un modo tutto particolare, facendo uscire suoni magici, i campanacci e pezzi d’artigianato artistico sardo, uniti all’elettronica. Il suo Shardana, uscito nel 2016 (ascoltate Camineras) il suo primo disco da leader – una volta si sarebbe chiamato long playing – nove brani dove c’è musica da camera, jazz, musica popolare, armonia e ricerca, l’ha fatta conoscere nell’ambiente jazzistico italiano ed europeo, guadagnandosi, nel 2017, il terzo posto del Top Jazz nella sezione Nuovi Talenti. Shardana è la tribù dei popoli del mare quella che ha vissuto nelle isole di mezzo, l’antico nome da cui si dice provenga l’attuale nome, Sardegna. Quello di Zoe è un legame fortissimo con la terra, cercato, vivo, presente. E Shardana è un po’ il suo manifesto artistico. Un lavoro non solo musicale ma anche antropologico e archeologico, dove Zoe ha immaginato questo popolo, facendolo rivivere in emozioni e tradizioni.

Zoe, hai iniziato anche tu, come Paolo Fresu e tanti altri musicisti, a suonare grazie alla banda di paese, molto diffusa in Sardegna…
«Sì sono partita dalla banda, un’esperienza utile perché suonando nelle processioni mi affascinavano quei riti magici cattolici, ma di origini ben più arcaiche. Li ho dentro, sono suoni familiari, che riconosco. Mio padre aveva uno studio di registrazione, quindi ho avuto sempre a che fare con la musica. Mi sono iscritta al conservatorio di Cagliari dove mi sono diplomata in clarinetto, musica classica».

Hai frequentato anche il conservatorio di Rovigo, giusto?
«Sì, ho proseguito il perfezionamento di studio specializzandomi in Clarinetto Solistico, in Musica da Camera e Musica Jazz. In questo periodo suonavo anche con i dj».

Come sei arrivata al jazz?
«Grazie al mitico Marco Tamburini (compositore e trombettista di grande talento, docente a Rovigo morto in un incidente in moto nel 2015, ndr) che mi ha spinto verso la composizione jazz, che ho perfezionato con un Erasmus al conservatorio di Murcia in Spagna, e in tanti altri corsi tra Milano, Siena, Nuoro. E poi, c’era l’aura di Paolo (Fresu, ndr) che galleggiava…».

Ti piace sperimentare, nella musica ma anche nel grosso lavoro di formazione che fai…
«Quest’anno mi sono inventata un nuovo progetto che coordino e che ho battezzato Little Jazz Festival. È un esperimento con gli studenti della classi terze con indirizzo musicale di una scuola secondaria in provincia di Rovigo, l’Istituto Comprensivo di Fiesso Umbertiano. L’ho fatto con la collaborazione del conservatorio di Rovigo e con altre istituzioni jazzistiche, ed è stata una scoperta interessante. È stato bello vedere la trasformazione di queste giovani persone straordinarie. Il prossimo anno vorrei estendere il progetto anche alla produzione di un disco: far provare loro quello che sto vivendo io come artista».

Seconde te perché la Sardegna è una fucina di artisti, soprattutto jazzisti, come pochi in Italia? Tra la tua terra e la Sicilia è una gara di artisti. Hai una collaborazione artistica con la pianista messinese Cettina Donato… non a caso, azzardo!
«Lavoriamo molto bene insieme, lei è davvero brava, sono delle connessioni isolane! Una domanda non facile, non saprei come risponderti. Probabilmente perché, a livello antropologico, nel ballo sardo il più bravo danzatore è quello che improvvisa meglio. Ce la portiamo dentro questa capacità di sentire il ritmo e improvvisare. Ci sono legami molto profondi, forti, il senso d’orgoglio nel portare avanti la tradizione. Che tanti artisti trasformano in modernità e visione di futuro».

Zoe Pia © Roberto Cifarelli

È insito nel DNA sardo?
«Uno degli artisti più importanti nel mainstream, Mahmood, ha la madre di Orosei. Ha fatto alcuni concerti con il coirò sardo femminile di Orosei, c’è questa tensione a riagganciarsi alle origini. Se tu vai ad ascoltare i suoi brani con attenzione, possono piacere o meno, ci sono rifiniture acustiche e sonore meno banali di quelle che si ascoltano oggi».

Sei molto attenta alle rifiniture!
«Sì, perché nella musica ricamo tanto, sono poco minimalista. Inserisco piccoli suoni o percussioni che ottengo anche da pezzi di artigianato artistico come quelli prodotti da Maestrodascia (Federico Coni, di Ales, Orsitano, ndr) e dalle Barrose (figure femminili in cercamica, ndr) di Ariu Ceramiche: Cristina e Stefania, le fondatrici, sono del mio stesso paese ma da anni vivono e lavorano a Cagliari. Sono anche le cugine di mio padre».

Parlami delle launeddas, come fai a far uscire quei suoni… gutturali?
«Non le uso nel modo tradizionale. Le ho studiate molto e ho scoperto che, suonandole con una respirazione diaframmatica e non circolare, riesco a ottenere suoni incredibili. Anche inspirando riesco a far uscire suoni, le uso pure come percussione».

Perché non ha più pubblicato un disco dopo il bellissimo Shardana?
«Di possibili dischi ne ho tanti in testa. Non dimentichiamo che in mezzo c’è stata la pandemia. Poi mi sono messa a organizzare il Pedras et Sonus Jazz Festival ed è un lavoro che prende molto tempo, in Sardegna non è facile, soprattutto in una zona poco turistica come quella in cui sono nata. Credo che il nostro compito di artisti sia anche di formare culturalmente le future classi dirigenti, cercare di portarle ad apprezzare il bello, la musica, l’arte. È una sensibilizzazione e, non solo qui, ce n’è tanto bisogno. Nell’agosto scorso ho ideato un nuovo progetto, Jatzilleri: a Mogoro, il mio paese, ho trasformato sei locali in jazz club per una sera, ospitando musicisti isolani emigrati all’estero. Così hanno portato a casa nuovi saperi che hanno condiviso con il pubblico».

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